Luglio ’60. Da Licata a Catania e a Palermo sono sei i siciliani uccisi dalla polizia

5 luglio, Licata
Il primo morto delle giornate di luglio ’60 non è neanche calcolato tra i dieci “martiri antifascisti”. Perché è stato ucciso dalle stesse forze dell’ordine scelbiane ma nel corso di una protesta sociale nell’estremo Sud della Sicilia. E’ il 5 luglio e scende in sciopero Licata, un grande centro dell’agrigentino scosso da una drammatica crisi economica che aveva generato una crisi devastante di tante attività produttive e un eccezionale livello di disoccupazione. Ogni manifestazione appare a Tambroni come una sfida personale. La polizia, piombata in forza a Licata da mezza Sicilia, spara sul corteo: un piccolo esercente, Vincenzo Napoli, 25 anni, intervenuto a difesa di un bambino picchiato è ucciso e altri quattro giovani sono gravemente feriti.
Il giorno dopo c’è la risposta di Roma. Gli antifascisti si riuniscono a Porta San Paolo, simbolo della Resistenza romana. La repressione è violentissima. Segue il 7 luglio l’eccidio di Reggio, con 5 morti. L’indomani scioperano Palermo e Catania.
8 luglio, Catania
Nella città dell’Etna un carabiniere ammazza un giovane edile, Salvatore Novembre, venti anni. E’ disoccupato e quella mattina si è recato dal suo paese in provincia di Enna a Catania per cercare lavoro ed è coinvolto nella manifestazione di protesta. La sequenza è terribile: prima il ragazzo è massacrato a colpi di calcio di moschetto, e quindi, quando Totuccio è ormai agonizzante sul ciglio di un marciapiede, è finito con un colpo di quello stesso fucile.
8 luglio, Palermo: una strage
A Palermo il bilancio sarà ancora più tragico: quattro morti e cinquantuno feriti gravi. La piazza prospiciente si riempì di migliaia di persone che arrivavano da tutta la Sicilia. Tra loro giovani delle povere borgate palermitane, operai, netturbini, edili, metalmeccanici e cittadini comuni. Pio La Torre, dal palco, inizia la manifestazione con il suo intervento. Durerà circa dieci minuti. Attorno a loro c’erano ingenti schieramenti di polizia, poi, all’improvviso, le cariche.
La Celere assalta il corteo, caricandolo con le camionette, lanciate ad alta velocità. Immediata è la risposta dei manifestanti e vengono lanciati sassi, bastoni e tutto quello che si trova in giro. La zona che va da piazza Principe di Castelnuovo a piazza Verdi, si trasforma in un campo di battaglia. La polizia inizia a sparare sulla folla. Sparano sulla folla ad altezza uomo.
Quattro morti, quaranta feriti
Uno dei feriti più gravi di quella terribile mattinata – Giuseppe Malleo, 16 anni, apprendista edile, militante della Fgci – morirà in ospedale solo il 29 dicembre, dopo sei lunghi mesi di agonia per i postumi di un colpo di moschetto sparato da un carabiniere che aveva puntato il fucile su un grappolo di ragazzi inermi e indifesi. Come Francesco Vella, 42 anni, operaio edile, gran diffusore dell’Unità; come Andrea Gangitano, 14 anni, venditore ambulante di mazzetti di gelsomino; e come Rosa La Barbera, 53 anni, uccisa da una pistolettata mentre, al terzo piano di uno stabile stava chiudendo le imposte per proteggersi dalla gragnuola di colpi sparati contro le finestre.
Quel giorno la polizia effettuò 270 fermi ed eseguì 71 arresti mentre sono 40 le persone ferite da armi da fuoco. Agli eventi dell’8 luglio del 1960, passati alla storia come la strage di via Maqueda, seguirono tre diversi procedimenti processuali. Il più significativo, quello che ebbe inizio a Palermo il 16 ottobre 1960, durò appena dodici giorni di dibattimento e tutti i 53 imputati vennero condannati a pene tra i sei e gli otto mesi. I celerini colpevoli delle morti, dei danneggiamenti e ferimenti di quell’8 luglio 1960 non vennero mai incriminati e non furono nemmeno chiamati a deporre, come informati dei fatti, come testimoni dell’accusa.
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