2 aprile 1976, gambizzato il capo dei vigilanti alla Magneti Marelli
Il 2 aprile 1976 avviene il ferimento di Matteo Palmieri, capo dei sorveglianti della Magneti Marelli, il cui nome e le cui responsabilità in merito all’organizzazione della rete spionistica in fabbrica erano già emerse in seguito alle carte trafugate durante l’assalto agli uffici delle guardie durante un corteo interno. Come si ricorderà il suo nome e il suo ruolo era stato indicato anche sul numero di Senza tregua dell’11 giugno 1975.
L’agguato
Alle 15,15 del 2 aprile, due uomini, qualificatisi come avvocati si presentano alla portineria della Magneti Marelli di Crescenzago. Sostengono di dover parlare con Palmieri. Vengono introdotti nel suo ufficio dove estraggono le armi e immobilizzano i sorveglianti presenti. Effettuano la perquisizione dei locali e prima di andarsene sparano un colpo di pistola all’indirizzo delle gambe del Palmieri.
Dall’auto in attesa davanti alla portineria escono altri due uomini armati di mitra. Iniziano a sparare contro la guardiola proteggendo l’uscita dei due avvocati.
La risposta operaia
L’azione avviene nel momento in cui gli operai della Magneti sono in piena agitazione per il rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici.
Il sindacato indice un’ora di sciopero. L’iniziativa è vivacemente contestata e boicottata. Il Comitato operaio della fabbrica diffonde un volantino intitolato “Nè un minuto di sciopero, né una lacrima per il capo-guardia Palmieri!”
Nel volantino il Comitato operaio sostiene di avere già scioperato per Palmieri “quando i cordoni operai lo buttavano fuori dalle assemblee dove svolgeva il suo mestiere di delatore cercando di individuare le avanguardie. Quando un corteo di centinaia e centinaia di operaie e operai è andato a stanarlo nel suo ufficio aprendo finalmente quegli archivi dove migliaia di schede, schedature e delazione contro semplici operaie, avanguardie delle lotte, erano state compilate per la Direzione. Un enorme materiale poliziesco venne alla luce in quella occasione e fu dato alle fiamme.”
FONTE: Enrico Galmozzi, Figli dell’officina
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