6 aprile 1984: muore in carcere Manfredi Di Stefano. Una fine sospetta

Il 6 aprile 1984 nel carcere di Udine muore di aneurisma Manfredi Di Stefano, condannato per la partecipazione all’omicidio di Walter Tobagi con il compito di palo. Vi era arrivato da pochi giorni, dopo aver subito un pestaggio dalle guardie di San Vittore. Venticinque anni dopo la morte in carcere torna alla ribalta

Le domande di Franco Corleone

E’ vero – si chiede Franco Corleone, un radicale da sempre impegnato sul fronte delle carceri in un articolo sul Manifesto – che Manfredi De Stefano, l’assassino di Walter Tobagi, si sarebbe suicidato nel carcere di Udine il 6 aprile del 1984 invece di morire per un malore improvviso, come si è finora creduto? E se è vero, perché si sarebbe nascosto il suicidio? Sono interrogativi inquietanti, sollevati alla vigilia del trentesimo anniversario della morte del giornalista del Corriere della sera dalla stessa figlia Benedetta, prima in un articolo e ora nelle pagine del suo libro di imminente pubblicazione. Ora è Giorgio Caimmi, il magistrato a cui vengono attribuite da Benedetta Tobagi le gravi dichiarazioni a dovere smentire o andare spiegazioni esaustive.

Dalla fabbrica alla lotta armata

Manfredi nasce a Salerno da una famiglia proletaria. Nel ’72 si trasferisce con i due fratelli e i genitori ad Arona, nel novarese. Inizia a frequentare l’istituto tecnico di Arona e ad avvicinarsi al movimento studentesco. E’ in questi anni che inizia a farsi una preparazione teorica marxista, senza mai raggiungere un livello per lui soddisfacente. Diversi anni dopo, parafrasando una massima di Mao, scriverà in una lettera dal carcere di sentirsi “un uomo senza cultura, senza una chiara e precisa coscienza di classe. Mi sono gonfiato col vento dell’imbecillità, dell’arroganza, dell’esasperato militarismo, ritrovandomi fradicio ai piedi dei compagni e del proletariato”.

Lasciata la scuola, inizia a frequentare la Sinistra Operaia Aronese, da cui nascerà la prima sezione di Lotta Continua. Dal ’73 al ’77 lavora alla IRE di Varese, da cui è licenziato per assenteismo. Attraverso piccole azioni compiute coi compagni di fabbrica (incendio delle auto dei capireparto), viene a contatto con i compagni della rete militare di Rosso che, dopo essere transitati in varie formazioni, formeranno la Brigata XXVIII Marzo, che commemora col suo nome la data dell’eccidio di via fracchia a Genova.

Una breve stagione di lotta

Il gruppo armato compie poche azioni nel solo 1980, infatti tutti i suoi componenti verranno catturati il 7 ottobre di quell’anno. L’azione più famosa sarà il 28 maggio l’omicidio di Walter Tobagi, giornalista del Corriere della Sera specializzato in “terrorismo di sinistra”.Subito dopo l’arresto, uno dei sette militanti, Marco Barbone, comincerà a trattare con la magistratura la sua libertà in cambio di notevoli informazioni sull’ambiente della lotta armata, accusando i suoi compagni di solo pochi giorni prima, come se non aspettasse altro.

I sospetti del fratello

Nel 2018 rilancia la questione sulle modalità della morte di Manfredi il fratello Antonello.

“Mio fratello non è morto per un aneurisma e qualche inquirente ha falsificato le carte. Adesso è venuto il momento che qualcuno ci dica cosa è avvenuto nel carcere di Udine e quale relazione c’è tra la morte di Manfredi e le verità nascoste del processo Tobagi” spiega Antonello De Stefano a ilfattoquotidiano.it, prendendo lo spunto dalle rivelazioni (risalenti al 2009) di Benedetta Tobagi, figlia del giornalista.

È una storia lunga e complicata, che negli anni Ottanta vide l’allora presidente del consiglio Bettino Craxi (che era amico di Tobagi) denunciare l’esistenza di un rapporto scomparso che annunciava il progetto contro Tobagi (poi messo in atto il 28 maggio 1980 con 5 colpi di pistola in una strada di Milano). Craxi aveva adombrato complicità in ambienti giornalistici milanesi nella scelta dell’obiettivo e puntato il dito contro la gestione dei pentiti, in particolare di Marco Barbone che denunciò i complici e se la cavò con una condanna a 8 anni e 9 mesi (assieme a Paolo Morandini), tornando in libertà quasi subito.

Un appello al capo del Dap

“Ho aspettato così a lungo a prendere un’iniziativa ufficiale sulla morte di mio fratello. Perché ho voluto studiare i 138 faldoni del processo e leggere i 220 mila documenti che essi contengono. Manfredi venne picchiato nel carcere di San Vittore e salvato dalle guardie. Poi lo trasferirono a Udine. Ed è all’amministrazione penitenziaria che mi sono rivolto”.
Pochi giorni fa De Stefano ha scritto a Francesco Basentini, capo del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, nonché per conoscenza al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, e ai ministri della Giustizia, della Difesa e degli Interni.

“Mi trovo nella condizione di richiederle le cartelle cliniche del detenuto Manfredi De Stefano, mio fratello, a far data dal 3 ottobre 1980 e fino al 6 aprile 1984, data della sua morte”.
La motivazione? “La mia richiesta nasce dalle dichiarazioni dell’allora magistrato Giorgio Caimmi (al tempo giudice istruttore nel processo Rosso/Tobagi) rilasciate a Benedetta Tobagi in merito alle dinamiche che condussero mio fratello alla morte. La figlia di Walter Tobagi rivela che l’allora giudice istruttore le avrebbe confidato che non era vero che Manfredi fosse morto a causa di un aneurisma”.

Ugo Maria Tassinari è l'autore di questo blog, il fondatore di Fascinazione, di cinque volumi e di un dvd sulla destra radicale nonché di svariate altre produzioni intellettuali. Attualmente lavora come esperto di comunicazione pubblica dopo un lungo e onorevole esercizio della professione giornalistica e importanti esperienze di formazione sul giornalismo e la comunicazione multimediale

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