5 giugno 1975. Curcio racconta: così uccisero mia moglie “Mara” Cagol

Dal libro intervista di Mario Scialoia a Renato Curcio “A viso aperto” la ricostruzione del sequestro Gancia e della morte di sua moglie Margherita Cagol [in neretto le domande di Scialoia]
Qui il comunicato delle Br sulla morte di Mara e il dibattito sul finanziamento

Margherita Cagol è morta il 5 giugno 1975 alla cascina Spiotta, dove teneva prigioniero l’industriale Vallarino Gancia. Nella sparatoria fu ucciso anche il carabiniere Giovanni D’Alfonso. Perché avete deciso quel sequestro?

Si è trattato del nostro primo sequestro a scopo di finanziamento. Fino a quel momento i soldi ce li eravamo procurati con le rapine alle banche: azioni nelle quali eravamo diventati grandi esperti e che riuscivamo a condurre a buon fine senza incidenti, mobilitando dei gruppi di intervento numerosi per degli obiettivi abbastanza ridotti.

Renato e Margherita: gli altri post

Ma, come ho detto, con l’andare del tempo l’organizzazione era diventata sempre più grossa e le esigenze della clandestinità ancora più complesse e onerose. Il denaro delle rapine non bastava più e ci sembrava troppo rischioso moltiplicare in modo eccessivo gli attacchi alle banche che spesso fruttavano solo piccole somme. Nell’aprile ’75 ci riunimmo, Margherita, Moretti ed io, in una casa nel piacentino per discutere il da farsi: pensammo che era venuto il momento di seguire l’esempio dei guerriglieri latino-americani che già da tempo sequestravano degli industriali per finanziarsi.

Come mai avete scelto proprio Vallarino Gancia?

Esaminammo una rosa di nomi presentata dalla colonna torinese. Puntammo su Gancia perché con lui potevamo agire in una zona che conoscevamo bene, perché l’operazione non comportava troppe difficoltà, perché era molto ricco e perché ci risultava che avesse finanziato delle organizzazioni fasciste. Volevamo chiedere un riscatto di circa un miliardo, ma, soprattutto, miravamo a un sequestro rapido, semplice e il meno rischioso possibile.

Tu hai partecipato all’azione?

Non facevo parte del gruppo operativo perché ero super ricercato, la polizia aveva le mie foto, non mi potevo spostare con facilità.

Avevamo studiato i movimenti di Gancia e stabilito che lo avremmo preso in una strada di campagna che percorreva abitualmente per andare alla «Camillina», la sua villa-castello di Canelli, vicino Asti. L’azione scattò alle 15,30 del 4 giugno e si svolse senza intoppi. Appena prelevato, l’industriale venne caricato su un furgone e portato alla cascina Spiotta, sulle colline di Acqui Terme.

Cosa era la cascina Spiotta?

Un nostro rifugio segreto, molto tranquillo e ben situato: a circa un’ora di macchina da Milano, Torino e Genova. Un antico cascinale di pietra in mezzo alla vigna e agli alberi da frutta, sul cucuzzolo di una collina a pochi chilometri dal borgo di Arzello. Lo aveva scoperto Margherita e comperato per pochi milioni. Avevamo lavorato assieme a Bonavita, Ferrari e altri compagni per costruire il bagno, far arrivare l’acqua, sistemare il grande camino. Era diventato un posto accogliente dove andavamo per dei periodi di riposo e delle riunioni del gruppo dirigente della colonna torinese.

Avevamo fatto amicizia con una famiglia di contadini di un cascinale vicino. Con loro curavamo la vigna e facevamo il lavoro nei campi. La figlia, di quindici-sedici anni, veniva spesso a trovarci, ci portava le uova fresche e il latte appena munto. Quando Franceschini ed io eravamo stati arrestati e le nostre foto erano apparse su tutti i giornali, nessuno di loro aveva detto niente e così pensammo che potevamo fidarci e che la cascina Spiotta restava ancora un posto sicuro. Tanto più che l’unica strada di accesso poteva essere controllata dalla casa lungo vari chilometri.

Chi rimase a sorvegliare Gancia alla cascina?

Margherita e un altro compagno che non posso nominare perché non è stato inquisito per questa operazione.

Il sequestro doveva durare al massimo quattro o cinque giorni. Gancia, poco dopo la sua cattura, aveva indicato una persona a cui rivolgersi per riscuotere il denaro del riscatto. Ma la cosa non ebbe seguito visto che la mattina successiva ci fu l’irruzione dei carabinieri.

Come mai i carabinieri sono riusciti ad arrivare alla cascina senza essere visti lungo la strada che sale sulla collina?

Per colpa di una tragica disattenzione dovuta alla stanchezza. Il compagno che stava con Margherita si era addormentato durante il suo turno di guardia.

Il 5 mattina io parlo al telefono con Margherita. Mi chiama da Acqui Terme in un bar di Milano dove avevamo fissato un contatto. «Qui è tutto tranquillo», mi dice, «le cose vanno come stabilito, non ti preoccupare». Invece, dopo un paio d’ore, succede il disastro. Nel sottoscala di quel bar ho sentito per l’ultima volta la voce di mia moglie.

Tu sai esattamente cosa è successo su nella vostra cascina quella mattina di giugno?

Sì, ho ricostruito accuratamente i fatti parlando con il brigatista che si è salvato. Margherita, dopo avermi telefonato, torna alla Spiotta e, siccome è stata di guardia tutta la notte, dice al compagno: «Io adesso vado a riposare, controlla tu dalla finestra con il binocolo, se vedi qualcosa di sospetto avvertimi e ce la filiamo».

Il piano previsto era molto prudente: avevamo studiato le cose in modo da evitare ad ogni costo un conflitto a fuoco e per questo avevamo pensato di poter lasciare solo due persone a sorvegliare il sequestrato. Se una pattuglia o qualcuno sospetto si fosse avvicinato alla cascina, Margherita e il compagno dovevano legare e imbavagliare Gancia abbandonandolo sul posto, correre dietro al dosso del nostro terreno, due minuti a piedi, scendere giù per un pendio e fuggire con un’auto che era stata lasciata apposta vicino a uno stradello sterrato. Il fatto che il sequestrato potesse essere liberato era previsto e accettato, proprio perché avevamo deciso di star lontani da ogni rischio.

Dunque Margherita va a dormire, il compagno si apposta davanti alla finestra con il binocolo, ma dopo poco viene preso da un colpo di sonno. E non si accorge che una 127 blu dei carabinieri sale su per la strada comunale, si ferma a controllare qualche cascina lungo il percorso, imbocca il viottolo sterrato che porta da noi. Lì doveva esserci un tronco d’albero messo di traverso per permettere di guadagnare tempo in caso di fuga, ma anche questa precauzione era stata trascurata.

I carabinieri arrivano nell’aia. Le finestre della cascina da quella parte sono chiuse, ma vedono due macchine posteggiate sotto il porticato. Capiscono che c’è qualcuno. Prudenti, spostano a retromarcia la loro auto sul lato dell’edificio, bloccando lo stradello di accesso. Poi cominciano a chiamare e bussare alla porta. Margherita si sveglia di botto. Dalla finestra vede i carabinieri, pensa si tratti di una pattuglia che gira a piedi per la campagna: «Non ti sei accorto di niente, ci sono i carabinieri, che si fa?», dice al compagno allibito. Dopo un attimo di indecisione stabiliscono di affrontare i militari per tentare di raggiungere le macchine e scappare.

I carabinieri, però, insospettiti dal fatto che dalla casa non arriva risposta, non si fanno prendere alla sprovvista. Quando Margherita e il compagno si buttano fuori dalla porta con i mitra imbracciati e le bombe a mano Srcm pronte, esplode istantaneo il conflitto a fuoco. I colpi si susseguono a raffica e viene lanciata anche una bomba. Due carabinieri, colpiti gravemente, rimangono a terra. Uno di loro, l’appuntato Giovanni D’Alfonso, morirà pochi giorni dopo; l’altro, Umberto Rocca, perderà un occhio e un braccio. Il terzo scappa per i campi.

Margherita ha una leggera ferita al braccio, il compagno è illeso. Riescono a salire sulle loro auto, lei parte per prima a tutto gas. Girato l’angolo della casa si trova davanti la 127 dei carabinieri e per non sbatterci contro finisce con le ruote nel fosso. Il compagno che la segue rimane bloccato anche lui. Vengono subito presi sotto tiro da un quarto carabiniere che era stato lasciato di guardia in quel punto.

Margherita esce dalla macchina disarmata, il compagno ha invece due Srcm in tasca. Gli viene ordinato di sedersi sul prato con le mani alzate. Sono prigionieri. Il compagno informa Margherita che ha le bombe e propone di tentare la fuga appena il carabiniere che li tiene di mira si distrae un attimo. Lei è d’accordo. Il carabiniere a un certo punto si allontana di qualche passo per andare alla macchina a sollecitare soccorsi via radio. Il compagno si alza di scatto, lancia malamente una bomba che esplode senza fare danni e si precipita in direzione del bosco. Margherita non è abbastanza veloce: rimane sotto il tiro del carabiniere che preferisce controllare lei piuttosto che aprire il fuoco contro il fuggiasco.

Il compagno, arrivato al riparo, si ferma per capire se è ancora possibile tentare qualcosa. Dopo qualche minuto sente un colpo. Forse anche una raffica di mitra. Si affaccia sul prato, capisce che non c’è più niente da fare e si allontana.

I risultati dell’autopsia parlano chiaro. Margherita era seduta con le braccia alzate. Le è stato sparato un solo colpo di pistola sul fianco sinistro, proprio sotto l’ascella. Il classico colpo per uccidere.

Ugo Maria Tassinari è l'autore di questo blog, il fondatore di Fascinazione, di cinque volumi e di un dvd sulla destra radicale nonché di svariate altre produzioni intellettuali. Attualmente lavora come esperto di comunicazione pubblica dopo un lungo e onorevole esercizio della professione giornalistica e importanti esperienze di formazione sul giornalismo e la comunicazione multimediale

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*

*

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.