Renato Curcio: il mio amore per Mara esiste ancora
Pubblichiamo la seconda parte del capitolo sulla morte di Mara cagol nel libro intervista tra Mario Scialoja e Renato Curcio
Come ti è arrivata la notizia della morte di tua moglie?
Alle due del pomeriggio avevo appuntamento con Attilio Casaletti in una piazzetta vicino a viale Padova. «Hai sentito la radio?», mi chiese subito con aria cupa. Risposi di no. Lui mi riferì che il giornale radio aveva parlato di uno scontro alla cascina Spiotta e di probabili morti. Sembrava che fosse stata uccisa anche una ragazza molto giovane. Non capivo quello che poteva essere successo. Escludevo il conflitto a fuoco con le forze dell’ordine perché avevamo predisposto tutto per evitarlo. Pensavo a un qualche incidente. Una ragazza molto giovane? Poteva darsi che la figlia dei contadini del cascinale vicino fosse andata su a chiedere se volevano delle uova… E chi sa quali complicazioni erano sopravvenute.
Assieme a Casaletti, tornai subito a casa per ascoltare i giornali radio. Le notizie continuavano a essere confuse. Dicevano di un carabiniere ferito grave, di una ragazza forse morta. Probabilmente ero io che non volevo capire: mi rifiutavo di prendere atto che Margherita era stata uccisa. Comunque bisognava fare qualcosa. Nel tardo pomeriggio radunai alcuni compagni della mia colonna e stabilimmo di far partire per la zona di Acqui dei gruppi d’appoggio col compito di accertare l’accaduto e aiutare l’eventuale fuggiasco. Infatti tutti parlavano di una ragazza morta, mentre un brigatista uomo non veniva mai nominato. Quantomeno lui sarà scappato, pensavamo. Il giorno dopo recuperammo quel compagno a molti chilometri da Acqui, in uno dei punti di ritrovo previsti per i casi di emergenza.
Gli hai subito chiesto di raccontarti ciò che era avvenuto?
No, in un primo momento non ho voluto vederlo. Gli ho fatto chiedere subito una relazione scritta molto dettagliata, ma l’ho incontrato solo due mesi dopo in montagna, a Foppolo. Mi rifece tutto il racconto a voce, aggiungendo alcuni particolari, e la sua ricostruzione mi sembrò convincente, anche se terribile dal punto di vista dell’irresponsabilità dimostrata nella valutazione del pericolo.
La morte di tua moglie è stata un dramma personale che ha anche modificato il tuo rapporto con la militanza e la lotta armata?
Quell’avvenimento ha cambiato molte cose: non solo per me, ma anche per le Brigate rosse. Abbiamo, per la prima volta, vissuto veramente da vicino l’incontro con la morte e con il suo bagaglio di significati.
La morte di Margherita, mia moglie, una nostra compagna, una capo colonna, e anche la morte di un carabiniere, padre di famiglia: questo l’epilogo drammatico di un’operazione che avevamo studiato in modo da evitare lo scontro a fuoco. Il grave fallimento ci portò a una durissima autocritica, ma anche alla presa di coscienza che continuare per la nostra strada significava accettare in concreto – e non solo come ipotesi astratta – il peso della morte, sia nel nostro campo che in quello avversario.
Alla fine, in quella notte tra il 5 e il 6 giugno, dovetti impormi di ammettere che quella «ragazza» morta non poteva essere che Margherita. Chiesi di rimanere solo in casa e fui travolto da un’irresistibile, interminabile crisi di pianto. Un pianto in qualche modo liberatorio durante il quale capii la realtà di un incontro non letterario o filosofico con la morte. E quanto questa eventualità ci tallonasse da vicino nella nostra avventura.
Avrei desiderato moltissimo poter andare al funerale a Trento, ma la città era presidiata dalla polizia e non sarebbe stato possibile farla franca. Un’amica mi aiutò a fare arrivare un mazzo di fiori anonimo sulla bara.
Hai poi rivisto i suoi genitori?
Il padre no. È morto pochi giorni dopo la figlia. Era malato di cancro, ma probabilmente la notizia ha contribuito a spegnerlo. Elsa, la madre, mi è venuta a trovare in carcere. Anche se adesso è molto anziana, continuiamo a scriverci. È una donna a cui mi sento legato da un rapporto profondo alimentato dall’amore che sia lei che io avevamo per Margherita.
La tua crisi non si esaurì in una sola notte: qualcuno ha raccontato che sei rimasto prostrato e incapace di reagire per vari mesi e che il tuo arresto a Milano è stato, in pratica, una conseguenza di quell’abbattimento. È esatto?
Direi che il mio dolore e il mio dramma personale non sono esauriti neanche oggi. Con Margherita ho vissuto un rapporto di amore profondo che precede e va oltre la nostra vicenda politica. Un amore che esiste ancora. Lei per me aveva significato trovare un equilibrio di vita: un assetto intellettuale, affettivo, organizzativo globale del mio spazio-tempo. Nel momento in cui mi è venuta a mancare, ho sentito crollare tutto intorno a me, proprio come quando da bambino ero stato portato via da Torre Pellice e chiuso in collegio a Centocelle.
Non è vero però che sono rimasto paralizzato. Non avevo perso la lucidità e la capacità di agire, non mi sono tirato indietro sul piano del lavoro organizzativo e politico. Anche perché, dopo il disastro della cascina Spiotta, le Brigate rosse si trovavano a dover affrontare non pochi problemi.
«…È caduta combattendo Margherita Cagol, “Mara”, dirigente comunista e membro del comitato esecutivo delle Brigate rosse. La sua vita e la sua morte sono un esempio che nessun combattente per la libertà potrà mai dimenticare… Non possiamo permetterci di versare lacrime sui nostri caduti, ma dobbiamo imparare la lezione di lealtà, coerenza, coraggio ed eroismo… Che tutti i sinceri rivoluzionari onorino la memoria di “Mara” meditando l’insegnamento politico che ha saputo dare con la sua scelta, con la sua vita. Che mille braccia si protendano per raccogliere il suo fucile! Noi, come ultimo saluto, ti diciamo: “Mara”, un fiore è sbocciato e questo fiore di libertà le Brigate rosse continueranno a coltivarlo fino alla vittoria.» Questi sono alcuni passi di un famoso volantino che le Br hanno diffuso il giorno dopo la morte di tua moglie. Un testo anomalo che mischia la commozione umana alla retorica guerrigliero. Lo hai scritto tu personalmente?
Sì, l’ho scritto io di getto dopo la mia crisi privata. Con alcuni compagni della colonna milanese decidemmo che era doveroso non solo commemorare Mara, ma anche chiarire dei fatti sui quali c’era in giro ancora molta ambiguità. Ed era evidente che quel documento spettava a me scriverlo.
Il linguaggio che mi è venuto naturale usare esprime due rapporti diversi e contraddittori con l’avvenimento: da un lato, la commozione e le tensioni personali e, dall’altro, l’esigenza di inquadrare il fatto nell’ambito politico della lotta armata. È vero che si tratta probabilmente dell’unico documento Br nel quale alla freddezza del lessico politico-ideologico si sovrappone l’espressione di emozioni personali. Ma non la considero una cosa anomala. Io ho vissuto quotidianamente la mia esistenza nella lotta armata senza nessuna frattura tra il «politico» e il mio mondo affettivo privato, il mio stare assieme alle persone che mi erano vicine e care.
Probabilmente quel volantino può essere letto come un documento cinico e, magari, grottesco. Oppure come un testo che esprime in pieno la contraddittorietà di eventi umani in cui la politica e la lotta si fanno anche vita e morte. Io l’ho vissuto come l’espressione sincera delle tensioni che convivevano in me allora.
Il volantino finisce con la parola «vittoria»: nel 1975 credevi davvero che la vostra lotta armata potesse conquistare un qualche tipo di vittoria?
Bisogna intendersi sul significato della parola. Voglio essere molto franco: non ho mai pensato che lo sbocco vittorioso della lotta armata dovesse significare la conquista materiale del potere. Questa prospettiva non apparteneva al mio scenario mentale e alle mie convinzioni.
D’altro canto non ci si batte, come noi abbiamo fatto, pensando di essere per forza sconfitti. Oggi direi che esisteva per me una via di mezzo. Sintetizzando le cose con una formula elementare, posso dire che quella società in cui vivevamo non mi andava assolutamente bene, non volevo a nessun costo accettarla, lottavo per cambiarla. E la parola «vittoria» significava la speranza di riuscire a modificare, almeno in parte, lo stato delle cose.
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