10.3.78, le Br a Torino uccidono il maresciallo Berardi

maresciallo berardi

Questa mattina alle 7,45 un commando composto di tre uomini o di due uomini e una donna, secondo altre versioni, ha ucciso con 7 colpi di pistola il maresciallo Rosario Berardi padre di 5 figli in forza fino al Gennaio scorso nell’antiterrorismo. Sembra che in questo ruolo avesse anche occupato incarichi di alta responsabilità, ma a partire da alcuni mesi era stato trasferito alla squadra mobile di Porta Palazzo e a quanto pare si dedicava unicamente alla caccia dei ladruncoli.
Il maresciallo era appena uscito di casa e attendeva il tram all’angolo tra Corso Regina e corso Belgio estremamente affollati di gente che a quell’ora si reca al vicino mercato di Porta Palazzo o si reca al lavoro.

Sceso da una 128 blu il commando gli ha sparato addosso, pare direttamente al volto alcuni colpi di pistola sembra muniti di silenziatore. Il maresciallo è caduto e alcuni testimoni riferiscono che ha fatto un estremo tentativo per estrarre la pistola. Un uomo dal commando avrebbe preso la pistola e sparato altri due colpi contro l’uomo ormai moribondo. Il maresciallo Berardi è deceduto durante il trasporto all’ospedale.

Le rivendicazioni

Alle 8,30 le Brigate Rosse hanno rivendicato l’attentato con una telefonata alla sede torinese dell’ANSA: «Qui BR abbiamo giustiziato il maresciallo Rosario Berardi, segue comunicato». Il messaggio successivo è giunto sempre tramite una telefonata, sempre all’ANSA torinese «Senti un po’, siamo le BR stamattina il nucleo armato Walter Alasia ha giustiziato un maresciallo della PS in corso Regina angolo corso Belgio. Il processo non si deve fare. Attenzione per Maria Adelaide Aglietta perché la prossima sarà lei. I compagni Curcio, Bonavita, Franceschini, non devono essere processati». A questo punto sembra che ci sia stato in chi telefonava un attimo di esitazione per la sigla «Walter… Walter Rossi e il compagno Alasia». Dopo questa telefonata ne sono giunte altre di smentita, tra cui una a Milano che toglie la paternità dell’attentato alle BR.

Un protagonista all’antiterrorismo

A Torino, Fiorello, capo del DIGOS il nuovo organismo che unifica gli uffici dell’antiterrorismo e dell’ex squadra politica sembra non avere dubbi sul fatto che siano state realmente le BR. Durante la conferenza stampa a cui ha partecipato anche Criscuolo, capo fino alla ristrutturazione degli uffici dell’antiterrorismo e quindi superiore diretto del maresciallo Berardi, è stata confermata la dinamica dei fatti del mattino ed è stata resa pubblica la figura dell’ucciso.
Berardi aveva partecipato alla scoperta di 13 covi delle BR in città e aveva partecipato personalmente all’azione ohe aveva portato all’arresto di Maurizio Ferrari. L’azione di oggi delle BR sembra non avere uno scopo apparente nel lungo comunicato letto in aula da Maurizio Ferrari e firmato da tutti i brigatisti attualmente detenuti, non era stata infatti dichiarata nessuna intenzione di bloccare il processo che per altro sembra essere di nuovo in pericolo per motivi legati a decisioni della corte di cassazione per problemi riguardanti uno degli imputati, per il pericolo (sempre per quanto riguarda il regolare svolgimento del processo) che avvocati difensori d’ufficio invochino la legittima suspicione per la quale non è possibile tenere un processo in una città per il clima esistente, al fine di trasferirlo in un altro luogo, rinviandolo quindi di molti mesi.

L’udienza del maxiprocesso

L’udienza di oggi iniziata alle nove in un clima di ovvia tensione, con un servizio d’ordine rafforzato dalla presenza dei carabinieri e discretamente allontanati gli uomini dell’antiterrorismo, per evidenti paure di iniziative individuali dei colleghi dell’ucciso, è durato appena venti minuti per la mancanza di avvocati d’ufficio (alla faccia della tanto strombazzata efficienza dello Corte d’Assise nella preparazione del processo) il presidente Barbaro ha aggiornato la seduta a domani.

Lo stesso presidente ha dovuto provvedere alla nomina di altri avvocati d’ufficio tra cui Bianca Guidetti Serra, i quali si sono riservati sull’accettazione per potere presentare l’eccezione che consenta agli imputati l’autodifesa. Si è riunito intanto il consiglio regionale per prendere posizione sull’ennesimo attentato; si ha notizia dalle fabbriche di scioperi e fermate; a quanto pare il sindacato non ha dato delle precise disposizioni ma si è limitato a informare i delegati che telefonavano alle leghe per avere direttive di prendere le iniziative che venivano ritenute opportune e praticabili all’interno delle fabbriche.

L’editoriale di Lotta Continua

Il presidente del tribunale che invita Ferrari a leggere il loro comunicato, il carabiniere che consegna tra le sbarre della gabbia i due fogli dattiloscritti, gli amplissimi stralci con cui tutti i giornali riportano il « comunicato n. 8»; sono la più lampante dimostrazione della sconfitta di una linea politica, quella delle BR, partita con il mito della classe operaia e finita ad essere usata, nei suoi proclami, come il più efficace veicolo d’isolamento quando non di aperta ostilità verso le «avanguardie» processate. Molti compagni si ricordano quanto è stato difficile, in molti altri processi, riuscire a leggere anche una breve dichiarazione; moltissime volte la giustizia borghese ha temuto che la voce dei compagni incarcerati uscisse dall’aula del tribunale. Giovedì e oggi la massima pubblicità è solo garanzia di successo per il blocco borghese-revisionista che si stringe intorno a questo superprocesso.

Una morte aspettata

Il morto di questa mattina era «aspettato » e forse anche per questo l’uccisione di un maresciallo dell’antiterrorismo senza alcuna colpa se non quella di avere fatto il suo mestiere di « sbirro » provoca senso di rabbia e di frustrazione. Unica colpa del «giustiziato » quella di avere partecipato ad alcune operazioni di polizia, non ha ucciso nessuno non si è reso protagonista di imprese particolari, non era né conosciuto né tantomeno odiato dalle masse, è stato ammazzato perché serviva un morto per dimostrare che le BR sono ancora vive, forti, organizzate.

Per chi? A vantaggio di chi? In alcune fabbriche ci sono state fermate di protesta, non sappiamo di quale ampiezza, ma in fondo il problema non è stabilire il grado di reazione e di coinvolgimento, comunque la delega e l’impotenza di fronte a l’incudine e il martello che schiacciano Torino in questi giorni, restano dominanti. Una eventuale ammirazione per i Robin Hood del momento non è garanzia di nulla, solo di ulteriore passività e del rischio che dietro il sorriso spavaldo dei briganti dal cuore d’oro si profili l’aspetto nient’altro che rassicurante dei Lucky Luciano.

Non difendiamo lo Stato

Non siamo per la difesa dello Stato, né del vecchio Stato democristiano che ha le mani sporche del sangue di mille attentati e delitti accuratamente coperti e per la punizione dei quali nessuno raccoglie le firme, né siamo per la difesa dello Stato puntellato dai revisionisti che basano la sua legittimità sulla repressione, sui sacrifici « dei proletari », sull’intolleranza. Siamo per il diritto a lottare anche se ben sappiamo che in questo momento da molte parti ce lo si vuole togliere. Spiacenti, lo ripeteremo fino alla nausea, noi non scegliamo tra le campagne forcaiole e i solisti dell’attentato; noi siamo e resteremo con le masse, con le masse dei proletari, dei giovani, di donne, che ancora l’8 marzo e ancora oggi 11 marzo sono in piazza.

No alle minacce di morte ad Aglietta

Una cosa vogliamo aggiungere: Il comunicato delle BR, minaccia Aglietta di morte. Non siamo d’accordo con la compagna Aglietta sulla scelta che ha fatto di accettare di far parte di una giuria che non ha altro potere di convalidare una decisione già presa in ben altra sede, ma non è tollerabile che la compagna Aglietta venga minacciata o intimidita; qualsiasi cosa le verrà fatta o verrà tentato di farle sarà un attacco diretto al movimento, ai compagni, alle masse.

fonte: Lotta continua, 11 marzo 1978

Un ritratto del maresciallo

Rosario Berardi ha 53 anni. È a Torino dal 1970, quando partì dalla Puglia insieme alla moglie Filomena e ai cinque figli Rosa, Giovanni, Bruno, Salvatore e Agata. (…) Rosario è in polizia fin dal 1946, prima ha combattuto i nazisti a fianco degli alleati ed è stato insignito con una medaglia d’argento al valor militare dopo la battaglia di Cassino. Nel 1974 Rosario Berardi, già comandante della squadra di polizia giudiziaria, entra a far parte del nucleo antiterrorismo della polizia di Stato coordinato da Emilio Santillo (alter ego in divisa blu del generale dell’Arma Carlo Alberto Dalla Chiesa) fino al 1976 quando, con una decisione ancora oggi misteriosa, i nuclei speciali vengono sciolti. Dal 31 luglio 1976, quindi, è comandante dei servizi di sicurezza.

Un protagonista dell’ Antiterrorismo

C’è una foto che i giornali pubblicano il 28 maggio 1974: dietro a Paolo Maurizio Ferrari, appena arrestato, si scorge il volto inconfondibile del maresciallo Berardi. Un’altra foto, del maggio 1977, lo ritrae durante la perquisizione dell’appartamento in cui sono stati bloccati i militanti di Prima Linea Giulia Borrelli, Marco Scavino e Enrico Galmozzi, allora sospettati dell’omicidio del brigadiere Ciotta [in realtà il covo era stato appena svuotato e i tre erano stati bloccati in piazza, per lo scambio delle chiavi, ndb]. In città Berardi è un volto noto, anche per quella pipa sempre stretta tra i denti. È il braccio destro del capo dell’antiterrorismo torinese dottor Criscuolo e partecipa a tutte le azioni. Un lavoro a forte rischio, in una città bersagliata dalla violenza politica. Pensa di essere fuori dalla tempesta quando, nel gennaio 1978, viene trasferito al comando del posto fisso di Porta Palazzo, da sempre zona «calda». «Porta Pila» è tante cose: fascino, popolo, tradizione, immigrazione, piccola e grande criminalità. La politica, però, c’entra poco.

Al riparo di Porta Palazzo

Il grande mercato di piazza della Repubblica entra nelle cronache del terrorismo soltanto per la figura di Cesarina Carletti, meglio nota come «Nonna Mao», la «pasionaria» del processo alle Br. Non perde un’udienza fin dal maggio 1976: capelli raccolti, grandi occhiali scuri, «Cesi», ex partigiana, deportata dai nazisti a Ravensbrück, è sempre pronta a scattare con il pugno chiuso. Poi, nel processo, finisce anche lei, come imputata a piede libero perché scoperta a custodire volantini di propaganda tra la merce del suo banco di casalinghi a Porta Palazzo. Sarà assolta.
A Porta Palazzo, forse, Rosario Berardi si sente si sente più tranquillo. I figli, fatta eccezione per Agata, la più giovane, hanno tutti un lavoro: «Ancora la piccola da sistemare – confida agli amici – poi me ne vado con la mia vecchietta». Quella del processo che è appena ripreso alla Lamarmora è una storia che lo tocca da cittadino più che da poliziotto.

L’agguato sotto casa

Il 10 marzo 1978 Berardi esce di casa poco dopo le 7.30: «Mi raccomando guagliò!» sono le ultime parole che il figlio Giovanni ricorda di aver sentito da suo padre. Pochi passi fino a largo Belgio,
all’angolo con corso Regina Margherita, per raggiungere la fermata del tram numero 7. Da una 128 blu, parcheggiata nel controviale, quattro persone (Nadia Ponti, Cristoforo Piancone, Vincenzo Acella e Patrizio Peci) riconoscono Berardi e in un attimo gli sono addosso: tre pallottole alla schiena, poi quattro al capo e al torace. Un’esecuzione spietata, a colpi di Nagant e 7,65, in mezzo a decine di persone. Eccolo, lo «scontro fisico» evocato da Renato Curcio: un feroce agguato alle spalle di un uomo disarmato.

La rivendicazione delle Br

Pochi minuti dopo la consueta telefonata all’Ansa: «Qui Brigate rosse, abbiamo colpito noi Berardi Rosario. Seguirà comunicato». Il volantino, rinvenuto in una cabina telefonica di largo Cibrario, rivendica l’eliminazione «del capo torinese del Sisde, braccio destro dell’ex capo regionale del Sid con cui aveva fondato i famigerati Nat [nuclei antiterrorismo]». L’omicidio viene inquadrato in un più ampio attacco «alla struttura militare del nemico», poi una chiara allusione al processo ripreso il 9 marzo: «Il potere si illude di poter fare il processo alla rivoluzione proletaria nelle aule di tribunale». Anni dopo, al processo del 1983, si scoprirà che Berardi era stato scelto come obiettivo perché il brigatista Andrea Coi aveva scoperto «per caso» dove abitasse.

I funerali affollati

L’11 marzo la città celebra i funerali del maresciallo Berardi. Tanta gente così non si era mai vista: 10 forse 20.000 persone sfilano alla camera ardente e dietro al feretro. Vittorio Zucconi, sulla Stampa del 12 marzo, annota il suo dialogo con un sindacalista: «Ho l’impressione che sia successo qualcosa di nuovo a Torino, anche se ancora non lo percepiamo in pieno. È finalmente iniziato il processo alle Br e hanno sparato a Berardi e con lui hanno ucciso le ultime illusioni di trovare spazio e complici nelle fabbriche. Il maresciallo era uno come noi, uno che va a piedi, il padre di cinque figli, un poliziotto democratico».

FONTE: Caselli-Valentini, Anni spietati, Laterza, 2014.

Ugo Maria Tassinari è l'autore di questo blog, il fondatore di Fascinazione, di cinque volumi e di un dvd sulla destra radicale nonché di svariate altre produzioni intellettuali. Attualmente lavora come esperto di comunicazione pubblica dopo un lungo e onorevole esercizio della professione giornalistica e importanti esperienze di formazione sul giornalismo e la comunicazione multimediale

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