14 maggio 1977. Mario Ferrandi ricorda: così uccisi Custra. Maledetta fatalità

14 maggio 1977. Mario Ferrandi ricorda: così uccisi Custra. Maledetta fatalità

Quando il movimento – dopo il divieto di manifestare a Roma decretato in risposta all’uccisione dell’agente Passamonti durante scontri all’Università- decide di scendere pacificamente in piazza il 12 maggio, anniversario della vittoria del referendum nel divorzio, con i radicali, la risposta della polizia è brutale. Una studentessa, Giorgiana Masi, viene uccisa a ponte Garibaldi mentre dai dimostranti non era partita che qualche sassata.

E’ l’occasione per l’innescarsi di una nuova spirale militarista: a Napoli la manifestazione di protesta per l’uccisione di Giorgiana Masi viene caricata a freddo dalla polizia, a Milano un gruppo di autonomi si stacca dal corteo e punta su S.Vittore. Nello scontro a fuoco – immortalato in celebri fotografie dall’Espresso – l’agente Custra resta ucciso.

I tre autonomi sbattuti in prima pagina dall’Espresso verranno arrestati: sono studenti di un istituto tecnico di Milano, il Cattaneo. Uno dei tre, Sandrini, si accorge anche di essere fotografato, e sorride: impugna una molotov, sarà condannato per concorso morale in omicidio.
Le spinte libertarie del movimento sono ormai fagocitate nella spirale lotta-repressione-lotta: per molti il gioco non vale più la candela e si chiamano fuori.

Così nel decennale della cacciata di Lama, il 17 febbraio 1987, in un paginone del Giornale di Napoli (mado’, quanto scrivevo: 15600 caratteri e sicuramente ci sarà stato anche qualche box …) ricostruivo uno dei passaggi decisivi del Movimento del ’77, il giorno in cui la spettacolarizzazione della violenza sussume la sua pratica reale.

Violenza tra messinscena e realtà

Trent’anni dopo ci riflettevo su così:

L’immagine di Giuseppe Memeo fissato mentre spara a braccia unite e ginocchia piegate diventa il simbolo degli anni di piombo. Quando il Msi deve lanciare la campagna per la pena di morte contro i terroristi è la foto scelta per il manifesto. Eppure, se andiamo a leggere gli atti del processo, scopriamo che non è stato lui ad uccidere: la pallottola assassina è una 7,65, lui impugna una calibro 22 da tiro, una pistola “leggera”, dallo scarso rinculo, che non richiede particolari precauzioni per l’uso. E’ una “messa in scena” nel senso letterale del termine.

Era il quarantennale dell’episodio e quindi ci sta bene anche la ricostruzione dei fatti (qui l’ordinanza del giudice Salvini a cui ho attinto, qui, invece una lunga videointervista in cui il magistrato ricostruisce l’inchiesta a partire dal ruolo centrale delle foto usate):

La banda Romana Vittoria

Quel giorno la banda  Romana Vittoria scende in piazza armata, come già fatto  in altre occasioni. Il cordone di polizia blocca uno degli accessi al carcere ma si tiene prudentemente a più di cento metri dal corteo che sfila. Il collettivo Romana Vittoria è uno dei più agguerriti della galassia di “Rosso”, l’area dell’Autonomia che fa capo a Toni Negri: un gruppetto di giovanissimi si sgancia dal corteo per lanciare molotov contro le forze dell’ordine e i pistoleri li seguono per “coprirne” la ritirata.

L’incursione riesce male, solo in pochi entrano in azione: tra questi tre studenti del Cattaneo che, identificati subito dalle foto pubblicate dall’Espresso, saranno arrestati e condannati per concorso in omicidio anche se una perizia dimostra che l’angolo di tiro era troppo alto per colpire i poliziotti distanti.

E’ nel momento della ritirata che Memeo decide di sparare sulla polizia. Senza che fosse previsto, senza che ce ne fosse necessità. Il suo gesto scatena gli altri compagni. Tutti gli altri armati, 5 o 6, fanno fuoco anche loro. Una pallottola colpisce e uccide Custra.

La ricostruzione di Salvini

A usare la pistola 7,65 che uccide il poliziotto è uno dei capi militari di quel troncone di Autonomia, Mario Ferrandi. Arrestato, si pentirà ma ci vuole il gran lavoro del giudice Salvini per fargli rendere conto che era lui il killer di Custrà. E così “Coniglio”, diventato uno dei protagonisti dei percorsi di “giustizia riconciliativa” ( tra ‘carnefici’ e ‘vittime’) si assumerà tutta la responsabilità e ricostruirà quel giorno maledetto:

La ricostruzione di Ferrandi

“Quel che accadde quel giorno si può spiegare solo se si torna al clima di quegli anni. Noi eravamo stati addestrati in cascina a sparare, a difenderci, a contrattaccare: ci aveva insegnato il mestiere uno studente, Roberto Serafini, poi caduto in un conflitto a fuoco con le forze dell’ordine. Quando dico noi, dico una generazione, ma in particolare noi autonomi, autonomi di Rosso, autonomi del collettivo Romana Vittoria. Io, Giuseppe Memeo», che poi sarebbe entrato nei Pac e avrebbe ucciso l’orefice Pierluigi Torregiani, «Marco Barbone», che poi avrebbe sparato a Walter Tobagi, tanti altri che poi sarebbero entrati in Prima linea. «Portavamo le armi alle manifestazioni ed io ero il capo di quella struttura: di quello che accadde io porto tutta la responsabilità».

«Il punto è che quel giorno la situazione degenerò come mai era successo e per fortuna, a mia memoria, mai sarebbe accaduto in seguito. Via De Amicis diventò un teatro di guerra, come se Milano fosse Beirut, per un minuto, un minuto e mezzo. Il tempo del botto e dello spegnimento di due candelotti lacrimogeni».
«Fu una maledetta fatalità. Noi eravamo andati a protestare davanti a San Vittore: eravamo due o tremila, ma Scalzone e altri leader ci avevano detto di rientrare nel corteo più grande, in piazza Duomo. Dunque percorrevamo via Olona, con l’intento di imboccare via Carducci, quando sul fianco, in fondo a via De Amicis qualcuno notò il Terzo celere della polizia. Io credo che loro non sapessero di noi, così come noi non sapevamo che erano lì. Qualcuno dirottò immediatamente un autobus, lo mise di traverso e gli diede fuoco. Io gridai: “Romana fuori”. Immediatamente i miei, una ventina armati di tutto punto, entrarono in via De Amicis con l’intento di tenere a bada il nemico, la polizia, e di lasciar sfilare il corteo».

«La maggior parte di quello che sto raccontando è frutto della meticolosa ricostruzione condotta insieme al giudice istruttore Guido Salvini più di dieci anni dopo i fatti: un lavoro monumentale a cui tutti gli imputati hanno contribuito, tassello per tassello. Accadde un’altra circostanza imprevedibile: una molotov, spenta, piovve proprio di fianco a Memeo». «Probabilmente Memeo perse la testa e cominciò a sparare ad altezza d’uomo con la sua calibro 22. E poco mancò, come si vede nella foto pubblicata dal Giornale, che colpisse il sottoscritto. Qualche metro più avanti. A quel punto, in automatico partirono gli altri. Nessuno capiva bene cosa stesse succedendo. Ma fra il fumo, la polvere, i candelotti, le grida, cominciammo a sparare. Si usciva a turno allo scoperto, si sparava, si rientrava in posizione coperta».

«Quando fu il momento, sparai ad altezza d’uomo due o tre proiettili con la mia calibro 7.65. Non vidi cadere nessuno ma occorre tener presente che i poliziotti erano a centotrenta metri di distanza. Ripeto, non voglio assolutamente sminuire il mio ruolo per quella tragedia, dico solo quello che ricordo. So che finalmente quando la calma tornò io ero convinto che fosse morto qualcuno di noi. Ci rimasi di sasso quando scoprii, la sera, che per terra era rimasto un agente. Scappammo via, tutti. Pensavo che ci avrebbero preso. Io mi rifugiai nei pressi di Roma»

Ugo Maria Tassinari è l'autore di questo blog, il fondatore di Fascinazione, di cinque volumi e di un dvd sulla destra radicale nonché di svariate altre produzioni intellettuali. Attualmente lavora come esperto di comunicazione pubblica dopo un lungo e onorevole esercizio della professione giornalistica e importanti esperienze di formazione sul giornalismo e la comunicazione multimediale

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