Mario Moretti: arrestati per un nostro errore grossolano
Il 4 aprile del 1981 vieni arrestato a Milano. Hai tirato un respiro di sollievo?
Sicuramente ho pensato: “Adesso riposerò per molto tempo”. Il che è successo, forse troppo. No, non ho tirato un sospiro di sollievo. Quella era la mia vita. Per quanto dura non era da disperati. Era stata anche ricca.
Ma in quell’aprile eravate ormai senza via d’uscita.
Pensavamo di averne trovata una proprio allora, avevamo portato a termine con successo il sequestro d’Urso, dunque si poteva combinare la forza nell’operazione con l’intelligenza nella trattativa. Oggi so che questo era quasi impossibile. Ma in quei mesi pensai che si poteva farcela. Molti compagni bravi, di quelli che contavano, erano convinti dopo d’Urso che si poteva ricostruire un lavoro, anche senza farsi troppe illusioni. Era una scommessa più grande di quella del ’72.
La prima volta che ne accennasti hai detto: «Sono stato arrestato quando tentavo di rimettere in piedi i cocci delle Br».
Cercavo di ritessere dei fili a Milano. Di problemi di fondo non ne avevamo risolti neanche uno, tutto si sarebbe giocato nell’impostare e gestire bene le campagne che stavamo preparando. Ma a Milano i compagni della Walter Alasia se ne erano andati per i fatti loro facendoci perdere un punto di forza – erano una presenza vera dentro alla fabbrica, abbastanza integra organizzativamente, ma politicamente i più arretrati, non avevano rielaborato nulla, ripetevano e si incagliavano dove eravamo incagliati da un pezzo. Non si rendevano conto delle ragioni vere della nostra crisi. E le Brigate Rosse non potevano rinunciare a Milano, non è questione di potere o di concorrenza fra gruppi, avevamo sempre saputo che se per qualche ragione ce ne fossimo andati da Milano e dalle fabbriche, avremmo smesso di esistere, per quanto forti fossimo altrove. Nell’inverno del 1981 a noi non restava che riprendere i vecchi contatti in città con i compagni e ricominciare un lavoro di ricucitura.
Per «noi» chi intendi?
Intendo le Brigate Rosse, che erano ancora una organizzazione. Di regolari andammo a Milano Enrico Fenzi, Barbara Balzerani, io, e basta. Non ne servivano di più, non contava tanto il numero quanto la conoscenza della città, delle sue strutture, della gente. Io sono politicamente nato a Milano, la so a memoria. Per un super ricercato era un’imprudenza imperdonabile cercare i primi contatti. Questo è il lavoro tipico degli irregolari, che vivono legalmente nel movimento, setacciano le disponibilità, fanno le prime verifiche, e se si accorgono – non ci vuol molto – delle magagne di quello che si diceva comunista e non lo era, non proseguono. E non succede niente se il primo contatto è stato preso da un compagno legale, è lui che funziona da filtro verso l’organizzazione clandestina. È stata questa rete capillare e severa che ci ha permesso di evitare gli infiltrati; a mia conoscenza, nessuno è riuscito, dopo Girotto, a infiltrarsi, certo nessuno s’è accostato a una struttura di direzione sia pur periferica. È quasi un record mondiale. Ma a quel momento a Milano questa rete s’è inaridita, siamo debolissimi, e benché sia una pazzia i primi contatti li cerco io. Alla più piccola sbavatura può essere il patatrac, ma che fare? Quante volte si fa una sciocchezza pur sapendo che è una sciocchezza. E così in uno dei contatti che, dopo la prima volta, avremmo scartato, Fenzi e io cadiamo in una trappola tesa dalla polizia e veniamo arrestati.
Forse in questo errore c’è stata da parte tua, che eri sfuggito sempre a trappole del genere, una stanchezza, allenti la guardia perché non ne puoi più. Ma lasciamo andare l’inconscio, che non frequenti volentieri. Dopo il tuo arresto, chi rimane?
Rimane integra la colonna romana. Ne fanno parte compagni come Luigi Novelli, Remo Pancelli, Marina Petrella e Piero Vanzi. È sicuramente la colonna più compatta, e nella crisi politica dei mesi successivi sarà quella che guiderà il passaggio dalle Brigate Rosse al Partito comunista combattente. Poi ci sono Barbara Balzerani, Antonio Savasta e Francesco Lo Bianco che tra la colonna in Veneto e quel che rimane a Milano faranno parte della stessa tendenza. Ma al momento del mio arresto anche la colonna di Napoli, che è guidata da Giovanni Senzani2 e Vittorio Bolognesi, è d’accordo con la linea dell’organizzazione sperimentata con d’Urso. Be’, ci dicemmo con Fenzi parlandoci tra le grate delle celle d’isolamento, forse c’è una speranza che vadano avanti, rimane Barbara, rimane Lo Bianco, rimane Savasta, che era uno dei più convinti, uno che aveva macinato molto della nostra storia. E che altro potevo fare se non sperare? Ormai stavo in galera e non avevo scelte, dovevo solo tenere botta.
In carcere sei un po’ solo?
Più che solo in isolamento: fra la caserma della polizia a Milano e le celle di isolamento di Cuneo mi sono fatto tre mesi senza vedere nessuno che non fossero le guardie. Ma era l’inizio e dopo dieci anni di clandestinità potevo persino prenderlo come una tregua; mi sono letto due volte di fila Guerra e pace. Mille e settecento pagine di Tolstoj riempiono di gente una cella di isolamento per ben più di tre mesi.
FOnte: Moretti-Mosca-Rossanda, Una storia italiana
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