8.9.76, Genova. La Br uccidono Coco. I ricordi di Moretti
Nel libro intervista con Rossana Rossanda e Carla Mosca, Brigate Rosse Una storia italiana, Mario Moretti ricostruisce dinamiche politiche e organizzative dell’omicidio del procuratore capo di Genova Francesco Coco (qui la cronaca)
Sta di fatto che proprio in quella tornata elettorale, cui partecipa per l’ultima volta anche Lotta Continua e c’è un investimento di speranza anche da parte dei gruppi, si apre il processo alle Br a Torino. E voi preparate il primo agguato mortale, l’attentato al procuratore Coco.
Sì. È un passaggio importantissimo per quel che diventeremo. Quel processo ha un enorme valore simbolico. Per lo stato, che sancisce la sua vittoria tentando di negare ogni valenza politica alle Brigate Rosse, sostenendo che si tratta di criminalità comune, anche se poi si contraddirà promulgando leggi speciali, modificando il codice e le procedure, costruendo le carceri speciali. Giancarlo Caselli, allora alla Procura di Torino, scrive chiaro nell’ordinanza di rinvio a giudizio che negare la politicità delle Br è l’obiettivo del processo.
Ma il processo ha grande impatto anche per noi: che atteggiamento tenere quando lo stato celebra in tribunale la sua vittoria? Le strade sono due. Una è quella tradizionale della sinistra storica: ci si difende, si usa accortamente dei meccanismi processuali, si rigettano le accuse e, dove le maglie si allentino, si fanno valere le ragioni sociali di chi si è ribellato. Il tutto nel rispetto delle regole del gioco. Ma infrangere le regole del gioco è l’essenza della nostra proposta. Noi prenderemo la seconda strada, non diremo: “Non abbiamo commesso il fatto”, diremo che era giusto commetterlo.
È una scelta dell’organizzazione?
Se ne era discusso fra dentro e fuori, utilizzando, tra molte difficoltà, un collegamento sicuro. E fino all’immediata vigilia del processo prevaleva l’opinione di seguire, anche se in modo molto rigido, la via tradizionale. Sono i compagni prigionieri che all’ultimo momento decidono di presentarsi al processo rifiutando il ruolo di imputati, rifiutando il difensore, persino l’avvocato d’ufficio, che è parte dell’istituzione giudiziaria. Loro rappresentano le avanguardie comuniste all’offensiva nel paese, sono in aula in catene ma per accusare e non per difendersi. È la fine di ogni mediazione legale, è il processo guerriglia. Da quel momento il solo rapporto possibile con lo stato, per chi si riconosca nelle Br, è di guerra.
La decisione matura nel carcere?
Sì. Fuori non la aspettavamo. Ma è nella nostra linea oltre che nella nostra sensibilità. Offensiva, offensiva, sempre all’offensiva. Qualsiasi cosa vada oltre i limiti legalitari della sinistra storica ci affascina. Fra due opzioni sceglieremo sempre quella che brucerà i ponti con il passato, anche quando non vedremo davanti a noi dove porti quella strada. Nei processi non accetteremo più il ruolo di imputati ma rivendicheremo quello di militanti di un’organizzazione che si trova all’attacco. Così ci si collega alla guerriglia fuori, sul territorio, e sarà soprattutto l’azione combattente a rendere visibile questa identità. C’è una concomitanza fra le singole azioni delle Br e le scadenze processuali. «Le nostre parole ai processi contavano soltanto perché erano l’eco di uno sparo» mi disse Vincenzo Guagliardo un paio d’anni dopo. Ed era vero, ma lo sparo parlava anche perché, credo, rappresentava qualcosa in cui molti riponevano più di una speranza. Dovremmo andare ben in fondo all’analisi critica di quegli anni, se non vogliamo che, dopo la lotta armata, non ci siano più speranze di sorta.
Anche nella guerriglia c’è una svolta con l’agguato al procuratore Francesco Coco.
Sì, è la nostra prima uccisione, la prima azione volutamente cruenta. È anche la prima i cui soggetti siano soltanto le Br e lo stato. Il movimento resta del tutto sullo sfondo, non ci colleghiamo a un suo momento e obiettivo, ne interpretiamo e rappresentiamo, come un distillato, l’essenza antagonista assoluta. Se abbiamo avuto un’autoreferenzialità, è certamente a partire da questa azione. Da allora in poi la sola verifica della nostra linea starà nella capacità di metterla in atto, riprodurci e durare.
Perché proprio il procuratore Coco?
È il simbolo del ruolo assunto dalla magistratura. E c’è la promessa mancata quando rimettemmo in libertà il giudice Sossi. Coco si era impegnato in tv a rivedere la posizione dei prigionieri del XXII Ottobre subito dopo il rilascio di Sossi. Ma appena lasciammo Sossi libero, fece sapere che non ci pensava neanche lontanamente. Noi avevamo accettato la mediazione, e lui ci aveva ricambiato con un inganno.
Stavolta siete voi che non offrite mediazione alcuna.
No, quando si arriva alla morte è la fine di ogni mediazione. Rispondiamo alla decisione dello stato di annientarci. È sua la scelta, non è più possibile evitarla. E non la vogliamo evitare, gli andremo contro a tutta velocità. Il primo è Coco.
E i due uomini della scorta.
Non è possibile risparmiare un agente armato durante un’azione, non è questione di crudeltà verso qualcuno che non c’entra. In genere non è proprio possibile evitarlo. Posso solo dire che abbiamo ragionato mille volte prima di considerare necessaria un’azione cruenta, mille volte e una prima di concludere che non c’era alternativa. Quella volta, presa la decisione, la fase operativa è stata lunga e preparata nei minimi dettagli: scelto il posto dove incrociare Coco, la tecnica per mettere sotto controllo la zona che è nel centro di Genova, il momento in cui la scorta si riduce a due agenti, lasciando le pattuglie dei carabinieri che di solito lo accompagnano.
Per prudenza o per risparmiarli?
Che mi crediate o no, non abbiamo mai deciso senza scrupoli quando si trattava della vita o della morte. Non avevamo motivo di colpire le pattuglie, e neanche la scorta. Se si può, si cerca di ridurre il sangue.
Chi decide sul nome di Coco?
È un nome che circola fra tutti anche senza dirselo. Ci inquietò persino, e oggi sembra strano, ma a quel tempo si ragionava alla stessa maniera e facilmente si arrivava alle stesse conclusioni. Quel che l’organizzazione doveva sapere è che si stava preparando un’azione diversa, più rischiosa, più violenta, non una delle tante. L’unica cosa che il Comitato Esecutivo non aveva comunicato era il nome: il luogo e il personaggio erano mantenuti segreti. Ma, ripeto, per un’azione che si compie in relazione ai processi e ai prigionieri, a tutti viene in mente Coco. Anche ai compagni in prigione, i quali ci mandano a dire che la figura da colpire è lui. Come ho detto, ce ne inquietiamo: se l’obiettivo è così scontato da venir in mente a chiunque, ci può arrivare anche la polizia. E ci inquieta l’imprudenza dei compagni in carcere: il canale che hanno usato è tra i più sicuri, ma è esterno alle Br, un’involontaria fuga di notizie può tradursi in una catastrofe.
D’abitudine non consultavate il carcere?
Sarebbe un suicidio, per noi e per loro, se si facesse decidere sui nomi dai compagni in carcere. È tassativo: massimo di discussione politica, zero indicazioni operative. Ma ormai l’azione contro Coco era praticamente partita, non restava che eseguirla e sperare che non ci fossero sbavature.
L’attentato è a un anno dalla morte di Mara. Avevate scelto quella data per commemorarla, come era scritto nella rivendicazione?
Fummo costretti a rimandare la prima data perché Coco era andato a un convegno, credo a Bari. Il processo di Torino incalza, dal carcere insistono: «Muovetevi». Passiamo all’azione quindici giorni dopo, appena Coco torna a Genova. È un colpo politico durissimo, viene avvertito in tutta la sua portata. E impressiona l’inutilità della scorta di fronte a un attacco guerrigliero. Noi abbiamo bruciato tutti i ponti alle nostre spalle, ma l’avversario ha di che preoccuparsi. La forza simbolica delle nostre azioni ha passato tutti i confini e scardinato tutti i tabù. Al processo di Torino i compagni mettono in atto il rifiuto del processo, è la rottura. E si modifica la procedura, il processo si celebra senza la presenza dell’imputato: salta il ruolo di mediazione della magistratura. Il conflitto è totale, ultimativo.
Questa tattica fu decisa a Torino?
Sì, dai compagni al processo. Ma non vorrei che si creassero equivoci, l’organizzazione non esita neanche per un attimo a far sua questa linea, e la manterrà ininterrottamente per tutta la sua infinita vicenda giudiziaria. C’era stato un atteggiamento processuale per così dire “normale” da parte dei primi arrestati, ma i nostri processi divennero presto speciali. Non subire il processo voleva dire trasformarlo, ribaltarlo come un guanto. Non che farlo fosse semplice. Al di là del rifiuto del dibattimento in aula, non sapemmo mai come andare.
Non rispondere significava rinunciare a far sentire le vostre ragioni fuori.
Fuori c’era la guerriglia. Ad essa corrispondeva il rifiuto del meccanismo processuale. Bastava rivendicare le azioni in aula per cambiare diametralmente la nostra posizione, da accusati si diventava accusatori.
Ma non vi rendete incomprensibili una volta di più alla maggior parte della gente? La scelta di uccidere fa arretrare anche chi poteva simpatizzare senza essere affatto un’avanguardia. Fuori c’è la famosa avanzata della sinistra che, come hai detto, vi stupisce. Perché passate a uccidere proprio allora?
Perché in quel momento non è questione di trattare, ma di colpire. In tutti i cortei del ’76 e ’77 tra gli slogan più gridati c’è “Coco, Coco, Coco, è ancora troppo poco”: nel famoso magma del movimento quell’azione era passata. Magari solo la sua radicalità e nient’altro, perché il senso d’una azione non sta nell’essere più o meno cruenta, sta nella contraddizione che riesce ad aprire. Più tardi capirò che fino a un certo punto comandi tu l’operazione, scegli il livello dello scontro e puoi proporre la mediazione. Oltre, è la scelta dell’avversario a diventare determinante. La guerra come l’amore si fa in due.
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