31 maggio 1958: nasce a Milano Massimo Carminati, il “Nero”

massimo carminati

Compie oggi 62 anni Massimo Carminati, protagonista del processo Mafia Capitale, che ha visto in appello cadere la condanna un’associazione mafiosa in cui il “bandito nero” ha un ruolo prevalente. E’ stata così confermata la mia ipotesi. Si trattava di un’associazione affaristica criminale. Il suo dominus era il leader delle cooperative sociali Salvatore Buzzi. Era invece poco rilevante la necessità intimidatoria del “Nero” e dei suoi sodali, tutti ex fasci più o meno criminali (Pucci, Mancini, Brugia, Gaudenzi). Certo, lui gioca spesso, sapendo di essere intercettato, sui suoi precedenti “terribili”. Sa che basta l’impatto del “personaggio” di “Romanzo Criminale”, la sua fama truce senza dover spingersi oltre. E’ stata del resto subito evidente la grande disponibilità di politici e amministratori a fare affari con la banda. Di Carminati mi sono ovviamente occupato in “Fascisteria”. Ecco il ritratto nella seconda edizione:

A Roma i fascio-criminali finiscono tutti, prima o poi, in contatto con la banda della Magliana fino – talvolta – a esserne fagocitati. È il caso di Massimo Carminati, un ultrà nero del Portuense, compagno di classe di Fioravanti e Anselmi. Il personaggio del “Nero” in Romanzo criminale è un suo ritratto. Una breve militanza nella sezione dell’Msi del quartiere Marconi, dove copre l’incarico di responsabile del Fronte della gioventù, poi il bivacco al Fungo, il ritrovo all’Eur dei guerriglieri neri, ma anche dei boss calabresi di passaggio a Roma.

Il distacco dalla politica

Il distacco dalla politica è rapido e Carminati diventa il prototipo del “mercenario”: rapine ma anche recupero crediti per un ricettatore, Santino Duci.. Secondo alcuni pentiti si era specializzato come artificiere della banda: mettendo a frutto le esperienze “politiche”, aveva imparato a confezionare ordigni artigianali utilizzati per attentati estorsivi o per colpire le bische rivali. Scarcerato per decorrenza termini nell’inchiesta Fuan, si interessa del materiale sequestrato nel cascinale di Poggio San Lorenzo (armi, munizioni, esplosivo e stupefacenti) che è a disposizione del capomafia Pippo Calò,57 condannato all’ergastolo per l’attentato contro il rapido 904 del 23 dicembre 1984, che provoca quindici morti e duecentosessantasette feriti.

Un controllo casuale porta alla luce un suo tentativo di riaggregare la banda. A metterlo seriamente nei guai ci penseranno, qualche anno dopo, i “pentiti”: lo accusano di essere uno dei pochi ad aver avuto accesso all’arsenale negli scantinati del ministero della sanità e di aver fornito al Supersismi di Pazienza e Musumeci il Mab con il calcio segato usato per costruire una falsa pista internazionale sulla strage di Bologna.

La storia del mitra

Dietro il mitra modificato c’è in realtà una storia complicata, che il protagonista, il leader “pentito” di Cla Paolo Aleandri, si era ben guardato dal raccontare ai giudici. Mentre Semerari, dopo il disastro dei Gao di Concutelli, teorizzava l’inutilità di un’autonoma organizzazione militare e l’uso della malavita per le necessarie attività illegali, l’allievo di De Felice non si sottraeva a questo impegno, rivelando anche una certa passione per i rapporti torbidi. Commise però l’errore di passare alla camorra armi affidategli dalla banda della Magliana senza essere in grado di restituirle. Così finì sequestrato per più di una settimana in un covo di Acilia e solo per l’impegno di Bruno Mariani e di Carminati a risarcire il danno in natura ebbe salva la vita. A quel punto i suoi camerati lo trattennero per chiedergli conto dei suoi traffici oscuri e conclusero il “processo” con una condanna relativamente blanda per quei tempi duri: l’ostracismo e il confino. Aleandri fece le valige e se ne tornò al paesello della Sabinia dove era cresciuto, Poggio Mirteto.

Il sequestro Aleandri

Talmente terrorizzato che quando un paio di anni dopo fu arrestato e decise di collaborare con i giudici, raccontò solo la seconda fase del rapimento. E non solo per millantare una volontaria desistenza dalla lotta armata. Anzi: ingenerosamente omise l’impegno rischioso dei suoi camerati per ottenerne la liberazione. Di quella partita di armi consegnata come riscatto facevano parte due Mab del calcio segato: secondo la sentenza uno dei due finì nel treno del terrore. Carminati sarà perciò condannato in primo grado, insieme al capozona toscano del Sismi in un processo stralcio sul grande depistaggio ma poi in appello scatterà la prescrizione per la detenzione di armi e l’assoluzione sul reato principale. Un altro anello della sua lunga catena giudiziaria che gli consentirà di dichiararsi vittima di stereotipi e pregiudizi.

Solo il pentimento del boss che aveva rapito Aleandri all’uscita dal tribunale ha permesso di chiarire l’episodio. Evidentemente, anche per chi aveva deciso di consegnarsi anima e corpo alla stato, era più facile rompere i vincoli di solidarietà che sfidare la straordinaria potenza della banda della Magliana. Né – in presenza di una ricostruzione fasulla da parte della vittima – era stato possibile identificare in Aleandri il bersaglio del sequestro descritto già nell’83 da Fulvio Lucioli.

L’inchiesta depistaggi

Carminati è arrestato per la storia del Mab nell’aprile del 1993, nel blitz scatenato dalle rivelazioni di Maurizio Abbatino, uno dei pochi soci fondatori ancora vivo, l’ultimo arrestato, in Venezuela, dove era riparato per sottrarsi alle ricerche incrociate di ex amici e forze dell’ordine. Le confessioni del rapitore di Aleandri, il “Freddo” del Romanzo criminale, che al “Nero” era legato da una salda amicizia (ne affiorerà traccia persino in un imbarazzato confronto giudiziario61), scateneranno un’altra ondata di “pentimenti”.

Nuovi guai giudiziari arrivano per Carminati, “accusato” da Fabiola Moretti (“proprio Abbruciati mi disse di aver dato l’incarico a Massimo Carminati”) e dal marito, Antonio Mancini, l’“accattone”, che collabora con i giudici ma conserva un’alta considerazione della propria personalità criminale. Per la coppia era stato lui, con il mafioso Michelangelo La Barbera, a uccidere Mino Pecorelli, il giornalista con ottime entrature negli ambienti dei servizi segreti e della massoneria che era entrato in conflitto con Gelli e Andreotti.

Il ritratto della Moretti

È proprio la Moretti, all’epoca del delitto compagna di Abbruciati e spacciatrice di eroina, a offrirne un ritratto ammirato. A lei, di famiglia proletaria, il neofascista che si era voluto fare bandito non piaceva:

Lo sentivo diverso da noi. Noi commettevamo certe azioni perché avevamo bisogno di vivere, e non conoscevamo altro modo che quello per vivere. Massimo Carminati e i fascisti come lui commettevano le stesse azioni per gusto, per fanatismo ideologico, e ne ricavavano anche soldi, ma il movente primo era l’ideologia. Per questo non mi piaceva, e lo dissi a brutto muso a Danilo, il quale invece la pensava diversamente, mi diceva che Massimo era un bravo ragazzo, lo stimava moltissimo (…) Massimo era un tipo taciturno, serio, educato rispetto alla media delle persone che frequentavamo (…) Era stato coinvolto in un conflitto a fuoco, diceva sempre che dopo quell’episodio in cui sarebbe potuto morire, ogni giorno in più di vita era tanto di guadagnato, mostrando così una sorta di disinteresse per la morte.

Su una circostanza la Moretti è imprecisa: alla frontiera con la Svizzera non ci fu conflitto a fuoco, ma i poliziotti – che, informati da Cristiano Fioravanti, aspettavano Cavallini – spararono a freddo, senza dare l’alt e furono sottoposti a procedimento giudiziario (senza conseguenze). Quella ferita alla testa gli farà attribuire dalla stampa il soprannome di “Cecato”, circostanza sdegnosamente negata dal bandito.

Il processo Pecorelli

Pecorelli – un giornalista dallo stile allusivo e ricattatorio – era ben informato su molti misteri d’Italia, dal caso Moro allo scandalo dei petroli e a tanti aveva dato fastidio. In contatto con i servizi segreti e con il generale Dalla Chiesa, aveva regolarmente preso la tessera della P2 salvo poi dimettersi, nel 1978, quando le richieste di sostegno finanziario a Osservatorio Politico, il suo periodico, erano state deluse, ripagando Gelli in contanti, con un ritratto feroce quanto veridico: “Ex nazista, agente dei servizi segreti argentini, amico personale di Lopez Rega e fondatore degli squadroni della morte Aaa in America latina, legato alla Cia, a Connally e ai falchi americani”.

Anche sul caso Moro mostrò di avere buone fonti: tra un’allusione a Gladio e un richiamo, nel suo stile allusivo, agli scontri con Henry Kissinger, fu il primo a definire monco il memoriale ritrovato a via Montenevoso. Alla sua morte, nel marzo 1979, gli succede al vertice di Op Sergio Tè, che firma come direttore responsabile Costuiamo l’azione, ma in redazione c’è anche Paolo Patrizi che il mestiere di giornalista lo aveva appreso nel settimanale La classe, diretto da Oreste Scalzone. Il processo che vede alla sbarra mandanti (i senatori Andreotti e Vitalone), organizzatori (i boss Calò e Gaetano Badalamenti) ed esecutori (Carminati e La Barbera) si conclude però con un’assoluzione generalizzata e la Moretti indagata per calunnia.

Aldilà delle semplificazioni giornalistiche, che per anni hanno ricondotto tutte le attività criminali a Roma alla banda della Magliana, i “bravi ragazzi” sono stati solo una componente, sia pure significativa, di un articolato complesso politico-affaristico-criminale. Il punto d’intersezione di queste diverse realtà era stato rappresentato da Abbruciati, capo di una batteria di rapinatori, uomo di fiducia di Calò che dei “colletti bianchi” era la stella polare.

Ugo Maria Tassinari è l'autore di questo blog, il fondatore di Fascinazione, di cinque volumi e di un dvd sulla destra radicale nonché di svariate altre produzioni intellettuali. Attualmente lavora come esperto di comunicazione pubblica dopo un lungo e onorevole esercizio della professione giornalistica e importanti esperienze di formazione sul giornalismo e la comunicazione multimediale

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