Mauro Rostagno ucciso dalla mafia. Tante buone ragioni per essere contenti
Oggi è una bella giornata (nei limiti in cui può esserlo) anche per la sentenza sull’assassinio di Mauro Rostagno. Non solo per Chicca e Maddalena, che hanno pagato in questi anni prezzi altissimi, non solo perché rende giustizia a Mauro: perché questa sentenza affossa definitivamente la patacca della doppia bomba (una fascista + una anarchica) a piazza Fontana, cui seguiva il suicidio di Pinelli peché una bomba era anarchica, l’uccisione di Calabresi da parte di LC per coprire la bomba anarchica, e quella di Rostagno da parte dei suoi compagni perché “voleva confessare”. Inutile qui fare l’elenco di quelli che hanno sostenuto o propalato questa infamia, inutile ricordare che questa sentenza non ci restituisce Mauro Rostagno: però cade nel giorno giusto.
Così Girolamo, un membro della comunità di WuMing, commentando un post dedicato a materia analoga (una buona giornta per i Notav, grazie a due provvedimenti favorevoli: lo sbugiardamento dell’autista cialtrone del pm, l’annullamento dell’accusa di terrorismo da parte della Cassazione), rende il senso più ampio e generale della sentenza di Trapani, le cui implicazioni sono ben descritte in questo pezzo di Rino Giacalone.
A soccorso indiretto, dei mafiosi alla sbarra infatti erano arrivati, inopinatamente, anche insospettabili intellettuali di sinistra che ancora negli ultimi giorni del processo avevano rilanciato ipotesi e congetture abbondantemente smentite e confutate dai fatti e dagli atti giudiziari. In questo post del 21 aprile indicavo qualche caso limite: il duo antimafia Rizza e Lo Bianco dalle colonne del Fatto, l’esperta di fascismo rossobruno Claudia Cernigoi.
Bene, possiamo andare oltre. Il Fatto, stavolta, affida la cronaca della sentenza a un’inviata di “opposta fazione”, Valeria Gandus, mentre arrivano altri compagni di Mauro, a dettare l’agenda del dopo-condanna. Paolo Brogi chiede di aprire le indagini sui depistaggi, come già fatto dalla Corte d’Assise che invia alla Procura le deposizioni di ben dieci testimoni sospettati di falso, mentre Marco Boato, che fu con Rostagno a Trento, chiama in causa la commissione parlamentare antimafia:
Una sentenza storica, che finalmente ha reso giustizia alla memoria di Mauro Rostagno e ha dato ragione all’instancabile desiderio di verità di Chicca Roveri e Maddalena Rostagno. La giustizia è arrivata tardi, molto tardi (26 anni!), ma è arrivata. Ora è necessario che la Commissione parlamentare antimafia indaghi anche sulle responsabilità politiche e istituzionali dei tanti depistaggi, aprendo un’indagine parlamentare. Ed è anche necessario che alla figura di Mauro Rostagno venga reso quell’onore, di cui era stato privato in modo davvero ignobile. Potrebbe cominciare l’Università di Trento, dedicando un’aula a quest’uomo che da Trento ha iniziato il suo lungo percorso. Potrebbe farlo anche il suo comune di nascita, Torino, dove da anni molti cittadini chiedono che gli sia intitolato un ponte. Potranno continuare Palermo e Trapani, in quella Sicilia che Mauro ha tanto amato e a cui ha dedicato la sua vita e la sua morte.
Ma la militanza semplicemente politica di Mauro Rostagno copre solo un pezzo della sua straordinaria esistenza e allora è il caso di ricordarlo con le testimonianze di due giovani (40enni) che ci restituiscono il senso profondamente politico degli altri spezzoni e al tempo stesso la sostanziale continuità di un percorso assai accidentato. Cominciamo con Elide, che racconta la sua emozione sulla pagina facebook dedicata al processo e curata da Eugenio Papetti (che già si è meritato il livore di Vincenzo Vinciguerra per il grande lavoro che ha svolto con Alessandro Smerilli per animare la pagina sul processo per la strage di Brescia):
Ma voi avete dormito stanotte? Io no. Avevo negli occhi l’abbraccio di Chicca e Maddalena che conosco poco, pochissimo, ma sono parte di un pezzo della mia famiglia perché vicine al cuore di mia sorella Oriana e del mio brother in “love” Marco. La mente ha faticato parecchio perché, da un lato, avrebbe voluto chiedere a quella immagine di andare via e lasciare posto al sonno mentre, dall’altra, avrebbe voluto non allontanarsene mai.
E poi un’altra immagine, più inquietante. Dietro di me, tra le fila del “pubblico” che attendeva la sentenza nell’aula bunker, c’erano la moglie e la figlia di Mazzara. Guardandole, ho pensato spesso a quanto diverso il destino di una madre e di una figlia possa essere a seconda del lato della barricata in cui si trovano. Al piano terra Chicca e Maddalena, fiere, pulite, con il solo desiderio di una giustizia in grado di commemorare la memoria di un uomo giusto, circondate da tanto affetto e solidarietà; appena qualche gradino sopra le loro teste, le altre due, imbarazzate ma fintamente disinvolte, sole. Sole. Anche quella immagine, meno desiderata eppure presente, è tornata spesso stanotte. Sopra tutto, però, la mia mente ha ricordato un uomo vestito di bianco che mi parlava ogni giorno da dentro una scatoletta, all’ora di pranzo; sì, parlava proprio a me, ai miei 15 anni e al mio spirito idealista, al mio desiderio di cambiare il mondo e alla mia voglia di dire sempre le cose come stavano. Lo confesso: non sono stata brava, Maddalena; non sono riuscita a non gioire per questa sentenza. Credo che in me si siano sommate tante gioie ma una in particolare, consentitemela: Mauro ha dato la propria vita per una città nella quale ha creduto più che noi stessi trapanesi e ieri questa città gli ha dimostrato di non avere riposto invano le sue aspettative.
Oggi questa città è più mia e, soprattutto, oggi Mauro è più vivo che mai.
E infatti Maddalena, che è una bellissima persona (rara figura di vittima non vittimista e contraria al paradigma vittimario: pochi giorni prima aveva chiesto di non gioire in caso di condanna, e ne avrebbe ben ragione di essere animata da sentimenti di rivalsa), commenta stamattina nella stessa pagina:
ultimo giorno a Trapani, Maddala invece di leggere gli articoli locali guarda la faccia dei trapanesi che incontri, la maggior parte ha il sorriso
Ivan Carrozzi, un patuto degli anni 70, invece, dalle pagine del Post, ci restituisce il senso visionario di Macondo, una risposta anticipatrice alle derive parallele di eroina e lotta armata prese da migliaia di “ragazzi del 77”:
Qualche anno fa trovai in una biblioteca di Milano un libricino intitolato Macondo. L’aveva scritto Mauro Rostagno insieme al giornalista Claudio Castellacci. Il libro raccontava la storia di un locale aperto a Milano, in via Castelfidardo, alla fine del 1977. Si chiamava appunto Macondo. Il locale era stato aperto da Rostagno e da un gruppo di amici. Dopo aver letto il libro incontrai in un bar di piazza XXV Aprile Caterina, una frequentatrice di Macondo trentacinque anni dopo. Davanti a una birra mi disse che Rostagno era una specie di angelo, che apparteneva ad un’altra categoria di esseri umani. Poi mi pregò di non chiederle aneddoti, perché non ne aveva. Era molto commossa e infatti ci tenne a dirmi che aveva conservato una memoria emozionale fortissima di quel periodo. Mi disse che a Macondo si stava come in una bambagia, in una trama di rapporti molto speciali. Che tutti loro avevano un modo diverso di filtrare la realtà. E alluse al fatto che fuori, in quel periodo, si sparava. Macondo, che era una specie di anticipazione dei centri sociali, era frequentato dai proletari di Quarto Oggiaro, così come da Gilles Deleuze e Vanessa Redgrave.
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