Moretti: Via Fracchia, un chiaro messaggio di Dalla Chiesa

La prima pagina dell'Unità il 29 marzo 1980, dopo la mattanza di via Fracchia

Nel libro intervista con Rossana Rossanda e Carla Mosca, Mario Moretti colloca direttamente la tragedia di via Fracchia dentro la fase segnata dalla sconfitta operaia alla Fiat dell’autunno 1979

In tutte le rivoluzioni sconfitte di cui mi è capitato di leggere, c’è sempre un momento in cui chi c’è dentro si rende conto che la disfatta è solo questione di tempo. Ecco a noi è capitato alla fine dell’estate del 1979. La Fiat è scatenata, prima licenzia i 61 che sono l’avanguardia e poi fa 24.000 cassintegrati in pochi mesi. La reazione operaia è forte, si occupa la fabbrica, riprendono i cortei interni, ma si stanno difendendo, cercano di resistere disperatamente.

Ed è vero che Enrico Berlinguer ha un moto di resipiscenza e va a sostenere quell’occupazione davanti ai cancelli di Mirafiori,4 ma è troppo tardi; è stata la sua politica e quella di Lama a concedere il biennio di tregua che era necessario per imporre i costi della ristrutturazione. E questa è passata. La vera svolta l’ha fatta Agnelli. I danni della solidarietà nazionale sono definitivi. E la manifestazione dei 40.000 che segna la fine di un ciclo, quel corteo è purtroppo il fatto politico di gran lunga più significativo. È la rivalsa dei “colletti bianchi” contro un decennio di insubordinazione operaia. Sono miopi, l’impresa non lascerà indenni neppure loro, ma intanto è chiaro che gli operai sono stati sconfitti.

Chi ne discusse a Genova?

Soprattutto i compagni che venivano dalla fabbrica. Lorenzo Betassa era alle Carrozzerie della Fiat, stava nel consiglio di fabbrica. Ci rendevamo conto che avremmo avuto un terreno dove mettere radici, ma non è più con la propaganda armata che ci riusciremo. Uno scontro diretto contro la Confindustria non sarebbe indifferente, ma dopo Moro nessuno può sperare che un’azione di propaganda, per quanto centrata e ben accolta dagli operai, scalfisca minimamente gli equilibri consolidati.

Potremmo fare qualsiasi azione se lo volessimo, ma in quale prospettiva se ci stiamo chiedendo quale compito dobbiamo darci per superare la propaganda armata? Sono finiti i tempi in cui bastava denunciare il nemico, analizzarne i piani e agganciarsi a un movimento montante per aprire una grande speranza e contare. I tempi dell’ingegnere Macchiarini o del cavaliere Amerio sono lontani. Adesso o riesci a contrastare o almeno a condizionare la ristrutturazione, oppure non conti più niente. Uno come Raffaele o Rocco o Mariuccia, siamo in quel momento nell’Esecutivo, veniva da un decennio di lotte operaie e ne aveva respirato gli umori e conosciuto i desideri, non si inganna.

Raffaele, Rocco e Mariuccia?

Non so perché mi siano venuti i nomi di battesimo, forse una crisi di sentimentalismo. Sono Raffaele Fiore, Rocco Micaletto, Carla Brioschi. Insomma, sappiamo che c’è un’aggressione e non c’è speranza di contrastarla, e noi, nati nell’avanzata, non abbiamo la benché minima risposta da dare a chi ci chiede che cosa fare adesso.

Facciamo piccole azioni che tentano di articolare una presenza, ma basta. Anche su questo la Direzione lascia aperto il dibattito. Non decidiamo nessuna azione clamorosa, dobbiamo lavorare molto per definire una linea. E accettare i rischi che una situazione di indeterminatezza comporta. È una decisione saggia, ma più facile da enunciare che da praticare nella tempesta in cui siamo. Il 1980 è un anno terribile.

Prendete subito dei colpi?

Ne arrivano due tremendi ai primi mesi dell’anno. Lorenzo Betassa, individuato dalla Digos, sfugge all’arresto per un soffio, dalla fabbrica va direttamente in clandestinità. Era rimasto alle Carrozzerie fino all’ultimo, la Fiat era irrinunciabile. Anche un compagno della Lancia, Piero Panciarelli, era dovuto venir via dopo uno scontro a fuoco con la polizia, durante un’azione. La colonna di Torino era in tale difficoltà che entrambi si rifugiarono temporaneamente a Genova, nella base di via Fracchia, dove avevamo riunito quella affrettata Direzione.

Talmente affrettata che saltammo le regole della compartimentazione e della esistenza di quella base venne a sapere anche Patrizio Peci, che poco dopo veniva arrestato insieme a Rocco Micaletto. Peci non aveva un gran ruolo nella colonna di Torino, mentre Rocco era importantissimo, uno dei vecchi dirigenti, membro dell’Esecutivo. Fu un colpo tremendo. E poco dopo, vengono uccisi dai carabinieri quattro compagni proprio in via Fracchia.

Che pensaste?

Nulla pensammo. Che a un mese dall’arresto, sulla promessa del generale Dalla Chiesa di promuovere una legge che premiava la delazione, Peci prendesse a collaborare con i carabinieri, svelasse tutto quel che sapeva dell’organizzazione, denunciasse i compagni, indicasse le basi, guidasse gli agenti, questo nessuno di noi poteva neanche sognarlo. Ci mettemmo del tempo a capire, non avevamo conosciuto il tradimento, non stava nella nostra mente che i colpi che ci arrivavano fossero causati dalla delazione di uno di noi, che aveva vissuto con noi. Fu Peci comunque a portare i carabinieri anche in via Fracchia a Genova, dove allora abitavano quattro compagni, Riccardo Dura (Roberto) e Annamaria Ludmann (Cecilia) militanti della colonna genovese, Lorenzo Betassa e Piero Panciarelli, rifugiati temporaneamente da Torino. È una strage. I carabinieri hanno le chiavi della base, le avevano trovate in tasca a Rocco Micaletto, Rocco non ha detto parola, ma Peci gli ha detto dov’è la base e possono entrare senza neanche sfondare la porta. Nella notte del 28 marzo sorprendono i compagni nel sonno e li uccidono deliberatamente, tutti.

Si capì anche fuori, i giornalisti furono tenuti lontano per diversi giorni. Fummo in ben pochi a protestare per quell’impresa. Facevate la guerra e vi si risponde con la guerra.

È vero che a Genova non eravamo stati teneri, avevamo attaccato delle pattuglie dei carabinieri e c’erano stati dei morti, ma quello fu un macello deliberato che potevano evitare e invece decisero di sbatterlo in faccia a tutti. Ci misero tanto zelo che un proiettile ferì accidentalmente anche uno di loro. Ma non diedero gran pubblicità all’incidente. Dalla Chiesa voleva mostrare la decisione dello stato, la potenza dei corpi speciali e darci una lezione che non lasci dubbi: nessuno deve uscir vivo da quella base. Se sangue deve essere mostrato, sia solo quello dei brigatisti. È meglio che si parli di politica quando parliamo dello scontro degli anni ’70, perché se ci fermiamo sulla disumanità dei comportamenti, su ciò che si poteva evitare e ciò che si era obbligati a fare, non sono solo le Br a dover spiegare qualche cosa.

Dura era un amico per te oltre che un compagno?

Sì. Ho scritto il volantino per commemorare quei nostri quattro morti in una casa di Sampierdarena, dove abitava una compagna operaia e una sua figlia, allora diciottenne. Eravamo in tre generazioni intorno a quel tavolo e certo per la mente ci passavano cose diverse, a mala pena saprei dire quello che passava nella mia. Ma dovevamo avere qualcosa di molto forte in comune per stare tutti e tre a guardare in faccia la morte di quattro che sentivamo come fratelli. Un dolore terribile, che non vogliamo neppure che si veda. «Mia figeû, semo ne ’a bratta, ma u sciû Costa ha già pagoû», avrebbe detto Roberto, un marinaio comunista come ne ho conosciuti tre nella vita, che dopo l’azione Costa ci ripeteva questo tormentone ogni volta che ci trovavamo nei guai. Lo immagino anche stavolta.

Per approfondire

Ugo Maria Tassinari è l'autore di questo blog, il fondatore di Fascinazione, di cinque volumi e di un dvd sulla destra radicale nonché di svariate altre produzioni intellettuali. Attualmente lavora come esperto di comunicazione pubblica dopo un lungo e onorevole esercizio della professione giornalistica e importanti esperienze di formazione sul giornalismo e la comunicazione multimediale

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