Morlacchi story, una famiglia comunista al Giambellino

Pierino Morlacchi e Heidi Peusch

Pietro Morlacchi (1938-1999), detto Pierino, uno dei fondatori delle Brigate rosse, è cresciuto nel quartiere milanese del Giambellino. La sua è una numerosa famiglia proletaria di tradizioni comuniste con ben 13 figli. Due di loro lavoravano all’«Unità». Due, invece, Angelo ed Emilio, saranno condannati con Pierino e sua moglie per appartenenza alla “ditta”. Il nome spesso usato dai militanti delle Br per definire l’organizzazione.

Subito fuori dal Pci

 Avevano abbandonato il PCI in dissenso con le posizioni anticinesi che il partito prende alla strappo tra Mosca e Pechino. Fondano il gruppo Luglio ’60, uno delle prime formazioni marxiste-leniniste italiane che si riuniva alla Trattoria La Bersagliera di piazza Tirana. Nel 1964 Dino fa parte della delegazione delle Edizioni Oriente che si reca in Cina ed è ricevuta da Chou En-lai, il primo ministro. ll «Quotidiano del popolo», l’organo del Partito comunista, pubblicò in prima pagina la fotografia della delegazione con il presidente Mao.

Ma l’aspetto più interessante della biografia di Pierino, il più giovane dei fratelli, è che aveva vissuto nella Repubblica democratica tedesca, dove aveva fatto il tipografo in un quotidiano di Dresda.

Heidi Ruth Peusch

Sua moglie, Heidi Ruth Peusch (1941-2003) già a 18 anni si era trasferita a Berlino Ovest, prima della costruzione del muro. L’aveva conosciuta al Giambellino, dove lei frequentava ambienti di compagneria. Militano insieme nel Collettivo politico metropolitano, che ha un forte radicamento a Lorenteggio e Giambellino per poi partecipare alla fondazione delle Brigate Rosse. Pierino entra nel primo esecutivo, con Cagol, Curcio e Moretti. Con Heidi, a sua volta arrestata due volte, ha avuto due figli: Manolo (1970) ed Ernesto (1974). E’ morto il 9 gennaio del 1999.

La prima azione

Nel luglio 1971 Pierino e Heidi partecipano alla prima rapina delle Br (che non fu mai rivendicata, perché ancora non ritenuta “comprensibile” come azione “rivoluzionaria”).

«Verso le 12.30, in Pergine Valsugana, due giovani armati di pistola e con il volto travisato da una calza di nylon nera entrano nella locale filiale della banca di Trento e Bolzano e asportano, sotto la minaccia delle armi, la somma di lire 9.431.846, parte custodita dal cassiere per le operazioni correnti, parte giacente nella cassaforte. Appena impossessatisi della somma, i rapinatori si allontanano velocemente a bordo di una Fiat 128 con altri due complici rimasti in attesa, l’uno all’esterno della porta di ingresso della banca, l’altro al volante di detta autovettura… Di questa rapina [verranno] incolpati Morlacchi Piero e la moglie Heide Ruth Peusch, Moretti Mario, e Taiss Giorgio»

Al processo sono assolti perché le accuse di Marco Pisetta non sono ritenute una fonte di prova  ma 22 anni dopo Moretti, nella sua Storia italiana racconta: «i soldi li abbiamo lasciati a una compagna che aspetta ai margini del paese con in braccio il suo bambino, un tedeschino biondo, molto bello, che rientrerà con i pannolini appesantiti dalle banconote che ci abbiamo infilato».

La clandestinità

Pierino entra in clandestinità dopo la scoperta del covo di via Baiardo a Milano, dove il 3 maggio 1972 è stato arrestato Marco Pisetta, confidente del Sid. Gli investigatori arrivano anche a una cantina in via Delfico.

«In quel posto – ricorda Manolo Morlacchi – era conservato parecchio materiale della “ditta”, fra cui il famoso passaporto di Giangiacomo Feltrinelli. L’affittuario dello scantinato era mio padre. Le chiavi le trovarono a mia madre, che venne subito arrestata [a casa di Giacomo Cattaneo, ndb], e Pierino fu obbligato a fuggire. Divenne clandestino a tutti gli effetti. Io andai a vivere da mia nonna, mia madre riuscì a cavarsela con poco e, dopo una breve carcerazione, poté tornare a casa.(…)  Mio padre finì in Emilia, inquadrato nel fronte logistico. Si occupava di espropri: rapinava le banche. Era un cosiddetto “regolare”. Faceva il rivoluzionario di professione e la polizia lo cercava dappertutto. Spesso si prendeva libertà poco adatte a un clandestino: la sua condotta restava “allegra”.

Un leader indisciplinato

Anni dopo, dai racconti di mia madre, scoprii che Pierino spesso rientrava a casa nottetempo per incontrarla. (…) Magistrati e poliziotti non riuscirono a capire come fosse potuto accadere che mia madre restasse nuovamente incinta agli inizi del 1974. Anche Heidi talvolta partiva per raggiungerlo in qualche posto sconosciuto. Usava come base d’appoggio Santo Stefano Lodigiano, dove mi lasciava in compagnia di “Lupo” Cattaneo e della sua famiglia. Era lo stesso “Lupo” che spesso trovava i rifugi per mio padre e gli altri compagni».

Della sua gioiosa imprudenza testimonia anche il fratello Emilio, in occasione di uno dei suoi tre arresti:

«Mi presero per una rapina a un benzinaio di via Padova che non avevo fatto io. Organizzarono un confronto all’americana. Chiamarono questo benzinaio; ma prima del confronto qualcuno era passato a “convincerlo” che non doveva riconoscere niente e nessuno. Arrivato in questura sentii che c’era un tizio che chiedeva informazioni su di me e che alzava la voce raccomandandosi di trattarmi bene; guardai e vidi che era il Pierino. Era ricercato e si presentava in questura! Quando lo vidi mi venne un colpo. Che forza che aveva, dio cane, era bestiale!».  

La necessità di espatriare

Nel 1974 Heidi rimane nuovamente incinta e la situazione diventa insostenibile. Entrambi ricercati, Manolo è diviso fra le varie famiglie degli zii a loro volta sotto pressione delle forze dell’ordine.

«Pierino – racconta Manolo – ne parla ad alcuni compagni della “ditta”, che capirono la situazione e gli consigliarono l’espatrio per ottenere asilo politico in qualche paese “amico”. Qualche idea mio padre ce l’aveva: era vissuto per alcuni mesi in Germania Est, dove aveva lavorato come tipografo; le sue credenziali, all’epoca, gli erano state garantite dal Pci e da giornalisti dell’“Unità”. In fondo si trattava di chiedere asilo politico a un paese socialista; un paese che garantiva la copertura ai compagni della Raf e organizzava campi di raccolta per i rivoluzionari di tutto il mondo. L’idea poteva funzionare… Poteva, ma non funzionò».

I rapporti Br-Stasi

Nella stroncatura di un brutto libro sui legami tra  terrorismo e servizi segreti Paolo Persichetti  ricorda

 il “racconto di un lungo viaggio verso la libertà” di Heidi Peusch incinta, con il figlio Manolo di 4 anni e il marito Pierino Morlacchi, che tentano di avere ospitalità fino a farsi bloccare alla frontiera, profughi non riconosciuti. È uno spaccato sul perdurare delle illusioni di chi è nato e cresciuto in una tradizione comunista profonda come quella della famiglia Morlacchi a Milano; è la storia di uno dei primi, rarissimi tentativi di domanda di asilo politico da parte di militanti italiani all’estero; ed è la prova-provata dell’assenza di relazioni positive con la Stasi. Lo ricordiamo, ad onore della memoria di Heidi e Pierino.

Respinti dalla Germania, la famiglia ripiega in Svizzera, dove membri di Soccorso rosso si adoperano per trovare rifugio al brigatista fuggitivo.

Gli arresti in Svizzera

Pierino è arrestato la sera del 12 febbraio 1975 a Bellinzona, ma la notizia è resa nota solo due giorni dopo. Vincenzo Tessandori, il giornalista della Stampa autore di uno dei primi volumi sulle Brigate rosse,  racconta che Morlacchi è stato preso mentre stava organizzando un assalto al carcere di Chiasso. Per liberare compagni accusati del tentativo di rapina e dell’uccisione del brigadiere dei carabinieri Lombardini ad Argelato.

Nel pomeriggio, a Locarno, un bandito armato fa irruzione nella sede del Credito Commerciale, s’impossessa di 140 mila franchi e fugge. Scattano le indagini, a sera, i gendarmi entrano nel ristorante della stazione di Bellinzona. Seduto a un tavolo scorgono un uomo con una borsa di pelle. È italiano, ma non li convince il passaporto che mostra. Portato al comando, si scopre che nella cartella ha una decina di carte d’identità in bianco. L’indomani mattina nell’ufficio del capo della polizia cantonale, Giorgio Lepri, arriva un funzionario italiano «per normali scambi d’informazioni». Lepri avverte il collega dell’arresto compiuto la sera prima. «Vorrei vederlo» dice il poliziotto. Poi, di fronte all’arrestato, esclama: «Ma questo è Morlacchi, il capo delle Brigate Rosse del Lorenteggio, a Milano».

Le manovre per l’estradizione

In realtà, sia la faccenda della tentata evasione dei compagni bolognesi sia il collegamento con la rapina di Locarno sono montature orchestrate dai carabinieri e dal Sid per riuscire a trattenere in galera il “prigioniero” Pietro Morlacchi ben oltre i 15 giorni comminatigli per detenzione di documenti falsi e ingresso illegale in Svizzera. Anche il poliziotto che “casualmente” faceva visita al suo collega svizzero era già informato di tutta la vicenda.

Lo scopo era di consentire alle autorità italiane, anche e soprattutto dopo l’arresto di Heidi – che a luglio aveva tentato di passare in Francia – e di Petra Krause, di predisporre la domanda di estradizione. Le accuse di reati comuni servono ad aggirare la legislazione svizzera che impedisce di consegnare gli accusati di reati politici. E infatti l’estradizione fu concessa per la sola rapina di Pergine e per l’assalto a una sezione del Msi, contestato solo a Pierino. 

Una divagazione sulle tattiche brigatiste

La possibilità offerta ai coniugi Morlacchi di sottarsi agli oneri della latitanza per cercare rifugio all’estero confermano ancora una volta che le Brigate rosse avevano una pratica meno rigida e ottusa di quella rappresentata nella narrazione dominante. Così come anche a uno dei leader della colonna genovese, Giuliano Naria, a Pierino e Heidi sarà poi consentito di non dichiararsi prigionieri politici né di appiattirsi sul rifiuto del rito processuale ma di difendersi puntualmente. “Come se” non fossero militanti brigatisti. Evidentemente la regola giudiziaria non era una dichiarazione di fede ma una scelta di opportunità tattica. Visti i danni investigativi prodotti dai tentativi di difesa individuale si sceglie la rigidità. Salvo poi consentire di derogare ad elementi qualificati e affidabili.

Il ferimento a San Vittore

Nel dicembre del 1975 Pierino e Heidi ritornano in Italia da prigionieri dello Stato. A lei, nel giro di qualche settimana, vennero concessi gli arresti domiciliari, lui passò invece da Lugano a San Vittore senza soluzione di continuità. Finendo in bocca ai lupi.

«Il 24 gennaio 1976 – racconta Manolo – mio padre condivideva la cella con altri compagni: Giovanni Battista Miagostovich, Pasqualino Sirianni e Sergio Spazzali. Una sera entrarono nella loro cella alcuni uomini incappucciati e armati di coltello. Erano intenzionati a uccidere; i fendenti contro i compagni andarono a vuoto grazie alla disperata resistenza che venne opposta. Sembra che l’obiettivo dell’agguato fosse Sergio Spazzali. Nel momento in cui entrarono nella cella, fortunatamente Sergio stava facendo la doccia e si salvò. Gli altri tre prigionieri, invece, dovettero affrontare gli aggressori a mani nude, o quasi. I bottiglioni di vino stipati nella cella volarono verso gli incappucciati fracassandosi contro le loro teste. Lo spazio era esiguo e le urla furono sufficienti a richiamare l’attenzione degli altri compagni prigionieri.

Il ceffone al ‘trotzkista di merda’

Alla fine le guardie furono costrette a intervenire. Miagostovich era gravemente ferito all’addome e dovette essere operato di urgenza. Mio padre aveva numerosi tagli sulle braccia e sulle gambe, ma nulla di particolarmente grave. Sirianni, militante di Lotta Comunista, aveva una profonda ferita sul braccio dalla quale, copioso, scorreva il sangue, e urlava disperato e preoccupato per le proprie condizioni. Mio padre gli si avvicinò rabbioso e gli lasciò partire un ceffone: «Che cazzo piangi! Trotzkista di merda! Pensa a Sergio che è alle docce e magari è morto». (…) [In realtà Lotta comunista è antistalinista, ma come espressione della sinistra comunista non della IV Internazionale, ndb] Arrivò il maresciallo e decise di portare Pierino in isolamento. Temendo il peggio cominciò a urlare: «Maresciallo, lei mi vede. Sto sulle mie gambe. Non ho ferite particolari. Ora io vado giù, ma se mi capita qualcosa tutti devono sapere che la responsabilità è sua». In quegli anni minacce di questo tipo venivano prese sul serio. Non gli capitò nulla».

Pochi giorni dopo, per l’arresto di Renato Curcio, che era stato catturato il 18 gennaio, finisce a San Vittore il fratello Antonio. Angelo invece sarà arrestato nell’aprile 1980, nel primo blitz sulle accuse di Patrizio Peci

Il secondo arresto

Il secondo arresto di Pierino è a Milano il 1 maggio 1980, mentre affigge con un compagno volantini in ricordo dei caduti di Via Fracchia. Il giorno dopo, un cronista del “Giorno” la spara grossa e si inventa un pezzo sul pericoloso terrorista che di notte andava in giro per Milano con il figlioletto di dieci anni a scrivere frasi a sostegno della lotta armata. Per sua sfortuna il bambino stava dormendo nel suo letto e la polizia arrivò subito a casa per arrestare la madre. Che anni dopo potette perciò intascare un discreto risarcimento.

«A dieci anni – racconta Concetto Vecchio – Manolo vide la polizia irrompere a casa sua in piena notte, perquisire le stanze dell’appartamento di via Inganni da cima a fondo. Seguì la madre sull’auto della polizia diretta in questura perché lei non sapeva a chi lasciarlo, mentre un agente gli parlava di calcio. Mentre erano in commissariato portarono anche Pierino, sorpreso ad affiggere manifesti inneggianti alle Br sui muri di Milano. Pierino e Heidi tornarono in galera, Manolo fu accudito dagli zii, come molte altre volte in passato. A 14 anni aveva conosciuto tutte le carceri speciali d’Italia: Cuneo, Palmi, Asinara, Fossombrone. Le raggiungeva dopo interminabili viaggi in treno. “Tutto sommato erano giornate di festa“. Comunicava con suo padre attraverso doppi vetri, guardato a vista dai secondini. Il papà gli raccomandava di essere un buon comunista. “A scuola mi vantavo di ciò che era mio padre. Lui e i suoi compagni erano uomini giusti, capaci d’intelligenza, ironia e grande altruismo: avevano tutti i pregi che mi era così difficile trovare nel mondo libero“».

Il rifiuto di schierarsi nelle scissioni

Verso la fine del 1982 Heidi deve scontare un residuo di pena di un anno e quindi affida ancora i figli a due cognati. Nel 1983 finisce in carcere anche Emilio, accusato dal pentito della banda 28 marzo, Mario Marano, uno dei killer di Tobagi.

Pierino non ha preso posizione nelle scissioni che lacerano le Br nei primi anni 80 e questa scelta gli procurerà qualche velata minaccia. Da vecchio stalinista ha il culto del capo (Renato Curcio, ovviamente) ma questo non gli impedirà di non condividerne sempre le posizioni. Netta la critica al testo che costituisce l’atto di “fondazione teorica” del Partito guerriglia in una lettera di Heidi a Pierino, nell’estate 1983:  

…In questi giorni di festa e ozio coatto ho comprato Gocce di sole nella città degli spettri. L’ho letto saltando tante pagine perché non ce la facevo a leggere tutto. Ma tu l’hai letto? Cosa ne pensi? Ho paura a esprimermi al riguardo. Ma devo pure dire qualcosa (forse sono io che non funziono). Ripeto il mio paragone con l’esempio di “Lo strappo”. Gocce di sole nella città degli spettri sembra scritto, sì, da spettri che sono ormai lontanissimi da ogni realtà e da ogni possibilità di comunicazione proletaria… Tu mi dicevi che queste critiche non le ascoltano; ma come è possibile? Mi dispiace molto per Renato e Alberto, ma non li legge nessuno dei proletari. Queste cose le scrivo a te, non a loro, perché non voglio fargli male. Ma tu puoi parlare con Renato. Non ho mai fatto una critica così dura (e così frettolosa, approfondirò), ma mi sembra che sia il momento di parlarci chiaro…

La condanna e il confine

Nel processo del 1984 Pierino è condannato a 9 anni di carcere. Il peso della sconfitta, la stanchezza lacerano i rapporti anche all’interno della grande famiglia Morlacchi. La scelta di Angelo di dissociarsi ha l’appoggio della maggior parte dei fratelli. Ma Pierino ed Emilio, detenuti, tengono duro. Pierino esce nel 1986. Torna a sorpresa a casa ma deve partire immediatamente per tre anni di confino in Sicilia. Immediatamente emergono i suoi problemi con l’alcol e il rapporto con Heidi è lacerato. Familiari e avvocato (l’ex senatore Maris del Pci, poi noto come difensore di Leonardo Marino) faticano a convincerlo a partire per la Sicilia. Per fortuna il soggiorno durò pochi mesi, resi più lievi dalla generosa ospitalità offerta dal padrone dell’albergo del paesello, che gli risparmiò così il fastidio di dover dormire nella caserma dei carabinieri.

L’ultima resistenza umana

Nella seconda metà degli anni ’80 il Giambellino ha cambiato anima. Sconfitta la lotta armata e il conflitto sociale. Le fabbriche cedono il posto ai centri direzionali. Gli operai ai piccoli borghesi. Anche la mala bonaria dei Cerruti Gino è scomparsa lasciando spazio a spacciatori e banditi violenti. Pierino ha perso la guerra ma continua la sua battaglia esistenziale: deciso a non farsi inquadrare stringe rapporti con la “riserva indiana”, i marginali superstiti del quartiere che fu. Anche se questa scelta lo porta a un sostanziale allontanamento dalla famiglia. Ricorda Manolo:

Negli ultimi dodici anni della sua vita non c’è stato un solo giorno durante il quale abbia rispettato la legge. Visse in quasi tutte le case dei suoi fratelli per periodi più o meno lunghi. Trovò ospitalità anche da amici e amiche. Occupò per decine di notti camere d’albergo che non pagò quasi mai”.

La fuga in avanti

La storia di tutta la famiglia Morlacchi e delle varie vicissitudini di Pierino e di Heidi, è raccontata nel più volte citato libro La fuga in avanti. Lo ha scritto il figlio Manolo nel 2007, edizioni Agenzia X, ed dedicato ai suoi genitori. Ecco l’exerge:

«Noi Morlacchi, e per Morlacchi intendo i proletari, intendo le classi subalterne, intendo gli sconfitti della storia, abbiamo fatto un passo da giganti in avanti. Ci avete sconfitti? Va bene! Siete più forti? D’accordo! Ma intanto abbiamo fatto un epocale passo in avanti… ».

La sua, spiega non è stata un’adolescenza semplice. Ma credo che i miei traumi non siano poi tanto diversi rispetto a quelli subiti da molti ragazzi cresciuti in famiglie cosiddette normali

I funerali

Nel gennaio 1999, al Giambellino gli fecero un gran funerale con le bandiere rosse e i pugni chiusi. “Ciao Pierino, fino alla vittoria” recitava lo striscione.

Nell’agosto 2003, il giorno dei funerali di Heidi Ruth Peusch, su un muro di Via Segneri al Giambellino qualcuno ha scritto: «La rivoluzione è un fiore che non muore. Ciao Heidi». Nel 2010 anche Manolo Morlacchi, laureato in storia, archivista, moglie e figli, una vita normalissima, verrà arrestato. L’accusa è di banda armata nel processo “Fallico più altri”. Nonostante tutti gli imputati lo dichiarassero innocente. E’ scarcerato dalla Cassazione per “assenza di indizi”, dopo sei mesi di carcere preventivo. E’ assolto “perché il fatto non sussiste”. Avrà perciò anche diritto al risarcimento per ingiusta detenzione. 100 euro al giorno.  

Ugo Maria Tassinari è l'autore di questo blog, il fondatore di Fascinazione, di cinque volumi e di un dvd sulla destra radicale nonché di svariate altre produzioni intellettuali. Attualmente lavora come esperto di comunicazione pubblica dopo un lungo e onorevole esercizio della professione giornalistica e importanti esperienze di formazione sul giornalismo e la comunicazione multimediale

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