11.3.72. Muore Giuseppe Tavecchio. E’ la fine di Feltrinelli

giuseppe tavecchio

Nel marzo del 1972, un pomeriggio di sabato. Giuseppe Tavecchio, milanese, sessant’anni, pensionato, se ne esce a fare una commissione. A Milano è una giornata di scontri violentissimi tra i manifestanti dell’ultrasinistra e la polizia. I disordini si protraggono per ore e devastazioni diffuse. Incluso l’incendio di alcuni locali della sede del “Corriere della Sera” in via Solferino. Tavecchio passa dal centro durante una pausa dei tumulti. Quando, alle 17.10, insieme ad altri pedoni attraversa piazza della Scala, pare un momento di calma. Se non fosse che all’improvviso, senza alcuna ragione comprensibile, da una camionetta della polizia partono alcuni lacrimogeni verso quel gruppetto di persone inermi. Un candelotto, sparato ad altezza d’uomo, raggiunge al collo Tavecchio. Morirà tre giorni dopo senza aver ripreso conoscenza. È una vicenda tragica, che tutti dovremmo conoscere e ricordare. E invece no. Perché uno che muore in questo modo non trova nessuno che abbia interesse a perpetuarne la memoria:

Così la scheda editoriale di “La rimozione“. Andrea Kerbaker lo ha pubblicato nel 2016. Per raccontare la “storia di Giuseppe Tavecchio, vittima dimenticata degli anni di piombo“. Una morte che si intreccia con un’altra, che ha avuto ben altro successo editoriale. La fine di Giangiacomo Feltrinelli vita a una copiosa produzione saggistica ma anche a numerosi romanzi fantasy. A seguire quattro testimonianze:

Quattro mesi e mezzo a S. Vittore

La piazza è gremita da manifestanti che chiedono la verità sui fatti di Piazza Fontana e l’assoluzione di Pietro Valpreda, l’anarchico ingiustamente accusato della “Strage di Stato”. Dai celerini schierati contro i dimostranti parte un candelotto. Il lacrimogeno, sparato ad altezza d’uomo, colpisce il pensionato Giuseppe Tavecchio uccidendolo. Le prime dichiarazioni parlano di morte per collasso da vecchiaia o per paura, l’autopsia poi conferma la verità: la morte è causata dal candelotto sparato su un ordine arbitrario del capitano di p. s. Dario Del Medico, incriminato per “omicidio colposo”.

La condanna al processo di primo grado viene cassata in appello con l’assoluzione del capitano perché “il fatto non costituisce reato”. Quel giorno per me sarà purtroppo indimenticabile, perché durante uno dei tanti rastrellamenti, i carabinieri mi presero mentre cercavo riparo in un portone, mi menarono e mi fecero fare 4 mesi e mezzo di S. Vittore, dopo avermi accusato delle violenze più varie. All’inizio fui accusato perfino di “devastazione” per aver contribuito a incendiare il Corriere della Sera di Montanelli. Al processo, da accusati diventammo accusatori, grazie ad un gruppo di grandi difensori come Spazzali, Piscopo, l’allora “compagno” Pecorella e tanti altri. Fummo quasi tutti assolti.
Vincenzo Arenella

Tre date da ricordare: 3, 11, 14 marzo

È bene prendere nota delle date: se il 3 marzo [il sequestro di Macchiarini da parte delle Brigate rosse] segnò il battesimo di quella che sarebbe diventata la maggiore organizzazione terroristica italiana, l’11 marzo, a Milano, vide la prima manifestazione davvero violenta della sinistra, allora detta extra parlamentare, che aveva già pianificato, con il servizio d’ordine di Potere operaio, lo scontro fisico di piazza. La città si trasformò in terreno di guerriglia. Perse la vita, anche lui colpito da un candelotto lacrimogeno sparato ad altezza d’uomo, il pensionato Giuseppe Tavecchio. Quattro giorni dopo, a Segrate, vicino a Milano, venne trovato il cadavere dell’editore rosso Giangiacomo Feltrinelli, dilaniato la sera prima da un ordigno che lui stesso stava collocando su di un traliccio per provocare un black out elettrico che avrebbe oscurato anche il congresso del Pci in corso al Palalido. Ecco il 3, l’11, il 14 marzo 1972: tre date che oggi possiamo considerare simboliche.
Sandro Provvisionato

La decisione febbrile di Feltrinelli

Lo vidi per l’ultima volta in un cinema (come spesso amava fare, il che mi ha dato l’alibi per vedere alcuni bei film che altrimenti avrei rimpianto) pochi giorni prima della sua morte, nel marzo del ’72. […] Osvaldo mi aveva cercato perché si prevedevano scontri gravi, con l’ormai usuale morto fatto dalla polizia. Mi chiese se a mio parere il movimento avrebbe potuto accettare il fatto che lui e alcuni suoi compagni venissero alla manifestazione armati, con compiti di eventuale autodifesa. Fu la prima volta che sentii l’espressione «gruppi di fuoco». Ci pensai, gli risposi di no. […] Quel pomeriggio, dunque, rimase amareggiato e deluso, frustrato. Ci lasciammo con questo velo di tristezza. Ne ho conservato a lungo una specie di rimorso. L’11 marzo gli scontri ci furono, duri. […] La polizia colpì alla cieca, facendo un morto – l’anziano passante Giuseppe Tavecchio, ucciso da un candelotto sparato come al solito a tiro disteso ad altezza d’uomo, che lo colpì in pieno volto. Chissà se Osvaldo era alla manifestazione, o quantomeno in zona. Immagino comunque cosa possa aver pensato. Credo di capire che dovette decidere febbrilmente di dover fare qualcosa e pensò al blackout di Milano come rappresaglia, convinto che fosse necessaria un’azione clamorosa per «evitare la demoralizzazione del movimento»
Oreste Scalzone

La conferma di Davide Serafino

Secondo Scalzone, l’editore rimase

male, amaro, deluso, turbato. Abbozzò qualche polemica non nuova sul nostro «avventurismo movimentista» che si manifestava nel fatto che «tiravamo la corda», e poi sottovalutavamo la «contro-rivoluzione» e la «questione militare». Per l’ennesima volta, ricorse a un’immagine che gli era cara: noi extra-parlamentari eravamo come delle palline da ping-pong che danzavano in aria sostenute dagli zampilli di una fontana. I getti d’acqua erano le lotte sociali: quando – inevitabilmente, poiché la lotta è ciclica – queste si «fossero affievolite, noi saremmo ricaduti». Il suo problema era quello di vedere come mantenere la permanenza dell’offensiva (o quantomeno sviluppare contrattacco e resistenza) nei tempi duri del «cavo dell’onda» che si preparavano. Per questo, c’era il problema di un’ossatura politico-militare del movimento. Che lui non vedeva nella forma di un « Partito-guerriglia » (come poi, ad esempio le Brigate rosse ); ma in quella di un vario e articolato e pluralistico fronte. A cui un giorno – e qui radicalmente divergevamo – sarebbero state costrette dagli eventi ad aderire anche le organizzazioni «storiche» del Movimento operaio riformista .

Non si sa se l’editore avesse partecipato o meno alla manifestazione, ma qualche giorno dopo sarebbe stato proprio il tentativo di provocare un blackout a Milano, progettato come risposta all’11 marzo, a costargli la vita.

FONTE: Davide Serafino, Gappisti, Derive Approdi

Ugo Maria Tassinari è l'autore di questo blog, il fondatore di Fascinazione, di cinque volumi e di un dvd sulla destra radicale nonché di svariate altre produzioni intellettuali. Attualmente lavora come esperto di comunicazione pubblica dopo un lungo e onorevole esercizio della professione giornalistica e importanti esperienze di formazione sul giornalismo e la comunicazione multimediale

1 commento su “11.3.72. Muore Giuseppe Tavecchio. E’ la fine di Feltrinelli

  1. L’11 marzo di dieci anni fa, dopo centinaia di giorni di coma e inenarrabili sofferenze, moriva il ragazzo curdo Berkin Elvan. Vorrei ricordarlo con questo contributo (dove si parla anche d’altro).
    GS

    CARTOLINE DALLA TURCHIA E DAL KURDISTAN

    Gianni Sartori

    Premessa. Giorni fa si discuteva amabilmente delle “derive” in cui si sono talvolta inoltrati e impantanati alcuni movimenti di liberazione (anche tra i migliori). Se non al completo, almeno qualche frazione o fazione. Magari scadendo nel terrorismo et similia o nel “collaborazionismo”. Del resto lo sapeva – e lo diceva – Buenaventura Durruti: “Alla guerra si diventa sciacalli”. Nel senso che quando un conflitto va troppo per le lunghe degenera. E con il conflitto talvolta anche combattenti e militanti. Concetto analogo venne espresso da Mandela quando (pensando anche all’operato della moglie) dichiarò pubblicamente che “non sempre nella lotta condotta dall’ANC era emersa la parte migliore”.

    Per cui uno si chiede: fino a quando ‘sti benedetti curdi potranno resistere salvaguardando quel senso di umanità che ha finora caratterizzato la loro lotta di liberazione? Qual’è il punto di rottura in cui un oppresso, una vittima rischia di trasformarsi a sua volte in carnefice?

    Gli esempi si sprecano. Per esempio vien da chiedersi come sia possibile che gli israeliani (i quali in quanto Ebrei hanno subito quanto di peggio un popolo potesse subire) abbiano potuto utilizzare contro i palestinesi (quasi fossero stati loro a sterminarli nel secolo scorso) metodi che definire “massacri indiscriminati” (se genocidio vi pare troppo…) è un eufemismo.

    Diciamo che i curdi hanno un vantaggio, anzi due. Un pensiero collettivo, un’organizzazione consolidata (il PKK) e un programma politico lungimirante (quello del Confederalismo democratico) che in parte dovrebbero tutelarli.

    E soprattutto la fondamentale, strutturale presenza attiva delle donne nel movimento di liberazione. Più resistenti, più consapevoli, più vitali (nel senso di legate, vicine alla Vita), in quanto sopravvissute ad almeno diecimila anni di colonizzazione (e tentativi di addomesticamento).

    E’ di questi giorni il comunicato con cui il movimento turco “1000 giovani per la Palestina” (sorto dopo l’inizio delle operazioni militari contro la Striscia di Gaza) denuncia l’invio quotidiano di 44mila barili di petrolio in Israele. Esigendo nel contempo la sospensione del “commercio con l’occupante” della società SOCAR (State Oil Company of Azerbaijan Republic, in azero Azərbaycan Respublikası Dövlət Neft Şirkəti).

    Accusando implicitamente di ipocrisia il regime turco (e il presidente Erdogan in particolare) che ufficialmente si erge a campione dei palestinesi massacrati a Gaza.

    In una recente manifestazione davanti alla sede turca della SOCAR a Sarıyer, avevano esposto un grandestriscione con la scritta:

    “Il più grande investitore straniero in Turchia, la SOCAR, alimenta il genocidio di Israele! – SOCAR deve porre fine al commercio con l’occupante”.

    Tra gli slogan più scanditi:

    ”Chiudere i rubinetti, porre fine al commercio”;

    e anche: ”L’Azerbaijan vende, la Turchia trasporta”.

    Sempre nel comunicato si sostiene che il 60% del fabbisogno petrolifero di Israele viene fornito dall’Azerbaijan e dal Kazakistan, trasportato verso la Turchia dall’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan. E da qui spedito in Israele con le petroliere.

    Questo per le forniture del greggio, mentre Israele usufruisce anche della raffineria STAR, proprietà sempre della SOCAR.

    Per questo i “100 giovani per la Palestina” si oppongono e chiedono la sospensione di tale commercio.

    Prese di posizione senz’altro comprensibili e anche meritevoli (come ogni sincera manifestazione di solidarietà internazionale con gli oppressi).

    Tuttavia qualche osservatore non ha mancato di evidenziare almeno una contraddizione (se non proprio un’altra piccola ipocrisia). Chiedendosi “come mai la colonizzazione della Palestina è “haram” (proibito dalla Sharia) mentre quella del Kurdistan è “halal” (permesso dalla Sharia)?

    Forse perché nel caso della Palestina lo stato colonialista non è musulmano, mentre lo sono gli stati arabi, turchi e persiano che occupano il Kurdistan?

    Se posso dire la mia (e sorvolando sulla recente collaborazione militare tra Turchia e Azerbaijan contro la povera Armenia) forse la cosa non è così semplice, consequenziale. Sia perché anche molti curdi sono musulmani, sia perché non mancano in Turchia, Siria e Iran popolazioni seguaci o di altre religioni o comunque di correnti riformatrici rispetto all’ortodossia sunnita (v. gli aleviti, con forti influenze umanistiche, direi progressiste) o sciita (v. gli alauiti – ʿalawī).

    Resta il fatto comunque che sulla questione curda, anche tra i ranghi dell’opposizione progressista turca, non sempre si percepisce la medesima sensibilità espressa per la Palestina.

    Come dire: “contraddizioni in seno ai popoli” di cui dovrebbe farsi carico in primis la sinistra turca.

    Sinistra turca che in altre occasioni si era posta all’altezza della situazione. Come nelle manifestazioni antigovernative del 2013 (rivolta di Gezi Park contro l’abbattimento di 600 alberi a Istanbul) quando venne ucciso con una granata lacrimogena il quattordicenne curdo alevita Berkin Elvan (uscito da casa per comprare il pane). Colpito alla testa il 16 marzo 2013 – e rimasto in coma per 269 giorni – era deceduto l’11 marzo 2014 (quando ormai pesava solo 16 – sedici ! – chili).

    A dieci anni dalla sua morte il caso rimane insabbiato. Come ha nuovamente denunciato la madre del ragazzo, Gülsüm Elvan, durante la commemorazione nel cimitero diŞişli Feriköy.

    Per poi aggiungere: “Mi rivolgo agli assassini: ricordatevi del mio bambino ogni volta che abbracciate il vostro”.

    Da parte sua Erdogan aveva pubblicamente accusato Berkin Elvan di “terrorismo” in quanto avrebbe avuto il volto coperto con una sciarpa (comprensibile dato l’utilizzo su scala industriale di gas lacrimogeni).

    L’anno scorso la Corte europea dei diritti dell’uomo ha stabilito che la Turchia aveva violato il diritto alla vita di Berkin Elvan e che non era stata condotta un’inchiesta efficace per stabilire le possibili responsabilità governative.

    Finora soltanto un agente (Fatih Dalgalı) è stato riconosciuto colpevole. In compenso l’avvocato della famiglia Elvan, Can Atalay, nonostante l’anno scorso sia stato eletto al Parlamento, rimane in galera. 

    Gianni Sartori

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