Napolitano, il capo della banda. Lo spot di Zoro, il capitolo sulla trattativa

Il fermo immagine della trasmissione Gazebo di ieri sera, domenica 12 ottobre, dedicata al meeting grillino al Circo Massimo

C’è stata gloria anche per il mio “Napolitano, il capo della banda”, ieri sera, a ‘Gazebo’ la geniale trasmissione di Rai tre condotta da quel genio di Zoro. Ad attrarre l’attenzione del suo inviato al Circo Massimo, al banchetto delle Edizioni Sì, la combinazione tra il titolo feroce e il nome dell’autore della prefazione, agguerrito grillino. Ma pronto dallo studio è arrivato l’overrule di Z0ro: “C’è anche Tassinari…”.

http://www.rai.tv/dl/replaytv/replaytv.html?day=2014-10-12&ch=3&v=427198&vd=2014-10-12&vc=3#day=2014-10-12&ch=3&v=427198&vd=2014-10-12&vc=3

Qui il link con Rai replay: lo spot è al minuto 23.30.

Del libro si è tornato a parlare anche a proposito del processo sulla “trattativa” che vede il Presidente chiamato a comparire come testimone. Alessandro Smerilli ha ritenuto opportuno di pubblicare sulla pagina facebook dedicata al processo sulla strage di Brescia il capitolo da me dedicato al caso Mancino-D’Ambrosio. Credo sia giusto che ne prendano visione anche i lettori dell’Alter-Ugo:

Antimafia

A sollevare il caso dell’imbarazzante ruolo giocato dal Viminale su un filone secondario della maxinchiesta sulla trattativa Stato-mafia, è l’intellettuale di punta dello schieramento giustizialista, Paolo Flores d’Arcais: “Se il Presidente della Repubblica si fosse chiamato Cossiga o Saragat, Leone o Segni, Gronchi o Einaudi, – scrive il direttore di ‘Micromega’ in uno scambio epistolare con Barbara Spinelli pubblicato sulla sua rivista – sono certo che sarebbero state chieste a voce unanime le dimissioni immediate e con ignominia, nel caso che un loro consigliere giuridico avesse attivato una linea telefonica “bollente” con un Mancino, teste in un’inchiesta drammatica, deciso a sottrarsi agli interrogatori e al confronto con ex ministri che lo smentiscono”.

Infatti l’ex vicePresidente del Csm – all’epoca dei fatti ministro degli Interni – è indagato per aver detto il falso. Se quel Presidente ne avesse avallato il comportamento, un j’accuse altrettanto unanime gli sarebbe stato scatenato contro. Invece non è andata così. Napolitano ha difeso a spada tratta il suo consigliere, liquidando i dubbi sollevati come “illazioni basate su nulla”. Una vicenda resa più cupa da una tragica circostanza: la morte per crepacuore del collaboratore del Presidente proprio mentre infuriavano le polemiche e montava lo scandalo, oggetto di una puntigliosa campagna di stampa del Fatto Quotidiano e di un’offensiva politica di Antonio Di Pietro, l’ultima raffica dell’ex pm. In realtà alle chiacchiere tra ‘Ambrosio e Mancino seguono i fatti concreti. Il Presidente della Repubblica scrive al Procuratore Generale della Cassazione chiedendo di coordinare le indagini tra le tre Procure a vario titolo interessate alle indagini come sollecitato da Mancino. Nessuno contesta la condotta dell’alto magistrato che si dichiara a sua disposizione. Ci vuole il coraggio di un vecchio professore liberale come Sartori per mettere in discussione i rapporti tra il Quirinale e Mancino: quantomeno Napolitano si è macchiato di un eccesso di amicizia. L’ardire del Professore che si spinge a parlare di un atteggiamento da ‘lingua in bocca’ riesce a mettere in sintonia, nella difesa del Colle, il padre nobile dell’antiberlusconismo, Scalfari e il più ascoltato consigliere politico di Silvio, Ferrara. La posta in gioco è pesante: occultare la storia della trattativa tra Stato e mafia, ma in presenza delle evidenti contraddizioni tra i diversi ministri chiamati a testimoniare, il magistrato ha il dovere di fare chiarezza e l’ingerenza del Quirinale va contro gli interessi della giustizia. La vicenda arriva alla ribalta nel giugno 2012. I magistrati siciliani indagano – a partire dalle dichiarazioni di alcuni mafiosi – sull’ipotesi di una trattativa aperta vent’anni prima con Cosa Nostra per chiudere la stagione delle stragi in cambio di concessioni per i boss detenuti, con l’attenuazione dell’articolo 41bis, un provvedimento di ‘carcere duro’ adottato dopo il massacro di Capaci. Tutto inizia nel processo al generale dei carabinieri Mario Mori, accusato per la mancata cattura del mammasantissima “Binnu” Provenzano (e assolto nell’autunno 2013). Mancino testimonia ma il pubblico ministero Nino Di Matteo coglie le evidenti contraddizioni tra l’ex ministro degli Interni (e predecessore di Mancino) Vincenzo Scotti, l’ex responsabile della Giustizia Claudio Martelli, e appunto Mancino. I tre, chiamati alla sbarra, riferiscono cose completamente diverse su due questioni:

1) Scotti sostiene che voleva restare al Viminale dove lo sostituì Mancino. Secondo quest’ultimo, invece, fu Scotti a rifiutare l’incarico.

2) Secondo Martelli Mancino nel luglio 1993 si sarebbe lamentato per le attività non autorizzate del ROS dei Carabinieri proprio mentre Mori e il suo braccio destro De Donno (entrambi indagati nella trattativa Stato-Mafia) incontravano il “diplomatico” dei Corleonesi, l’ex sindaco di Palermo, Vito Ciancimino. Mancino smentisce anche in questo caso. Un altro tema scottante per l’ex leader democristiano è un presunto incontro con il giudice Borsellino il 1° luglio 1992, incontro a cui Mancino aveva accennato durante il processo Mori per poi ritrattare. Questione delicatissima se si considera che Borsellino è ucciso solo 18 giorni dopo e proprio perché rappresentava un ostacolo alla trattativa. Mancino, uomo potentissimo fino a qualche tempo prima, si sente tormentato e solo e chiedo soccorso all’amico D’Ambrosio, consigliere giuridico di Napolitano, interfaccia tecnico tra Quirinale e Palazzo dei Marescialli nei quattro anni in cui Mancino è stato Vicepresidente del Csm (dal 2006 al 2010). Vuole evitare quei confronti. Il magistrato è disponibile, ma cauto, e lo invita ad aspettare le decisioni dei pubblici ministeri che lo considerano ancora un semplice testimone. E’ inutile, spiega all’amico, che ragiona ancora da vecchio (pre)potente, ricorrere al procuratore di Palermo perché i PM in udienza sono autonomi: “Intervenire sul collegio – mette le mani avanti D’Ambrosio – è una cosa molto delicata”. L’unica strada percorribile è sollecitare al procuratore nazionale antimafia Grasso il coordinamento delle indagini, cosa che viene effettivamente fatta. Alla fine, ma la cosa non ha nessun rilievo rispetto ai termini della questione, i PM chiesero i confronti tra i tre ex ministri ma il tribunale non li ritenne necessari. D’Ambrosio cerca di rassicurare l’interlocutore che lo tempesta di telefonate. Per lui è un lavoro “inconcludente” quello che la Procura di Palermo sta conducendo sulla trattativa Stato-mafia, un’inchiesta “che va verso il nulla” ma nella quale “ogni tanto esce qualcuno con un pezzo di memoria” mentre “qualcuno getta una palata di fango”. Per l’anziano magistrato l’impegno dei suoi colleghi palermitani per far luce sui lati oscuri del biennio ’92-’93 è “un po’ tutto folle”. La cautela, lo spin doctor del Quirinale, la riserva per le cose da fare, mentre è prodigo sulle parole da spendere per rassicurare il suo tremebondo interlocutore: e così non si nega ai giudizi sferzanti.

Ma le solide certezze espresse si dissolvono qualche mese dopo, nel maggio 2012, quando il procuratore di Palermo Messineo e il sostituto Di Matteo, in un secondo interrogatorio come “persona informata dei fatti”, gli contestano il contenuto delle telefonate con Mancino intercettate. Clamorosa (e anche un po’ grottesca) la retromarcia sul ‘decreto Di Maggio’: sì, è vero che lui ha detto di aver visto nel giugno ’93 Francesco Di Maggio scriversi da solo il decreto presidenziale di nomina al Dap, nella stanza di Liliana Ferraro al ministero, affidandogli la responsabilità delle carceri, ma in realtà “Io voglio dire… la mia idea non era il Dpr, era come la base del Dpr, cioè non c’era il visto, visto, visto, non so se mi sono spiegato. (…) Cioè io quello che sostengo è che può anche essere stata una bozza predisposta lì (…). Però io il Dpr vero e proprio non l’ho visto”. Imbarazzante, se si considera che nel precedente interrogatorio aveva detto ben altro: “Io ho assistito personalmente a questa vicenda… ricordo chiaramente il decreto, Dpr, scritto nella stanza della Ferraro… il Dpr che lo faceva vice-capo del Dap”. L’ipotesi dei PM è che D’Ambrosio abbia collaborato (come uno “scriba” appunto) alla stesura del decreto che promuove Di Maggio anche se non aveva i titoli per ricoprire l’incarico. E sarà proprio quest’ultimo a giocare un ruolo decisivo nella cosiddetta “trattativa”: è sua l’idea, fatta propria dal ministro Conso, un gentiluomo garantista, di non rinnovare  i numerosi 41bis a carico dei boss detenuti, e lanciare così un segnale distensivo verso Cosa Nostra. Dal suo canto, Mancino non si è limitato a stressare il consigliere giuridico del Quirinale ma ha lavorato a tutto campo.  Tra le altre cose, il procuratore generale della Cassazione Esposito in un’altra intercettazione gli si rivolge così: “Comunque io sono chiaramente a sua disposizione. Adesso vedo questo provvedimento e poi magari ne parliamo. Se vuole può venire quando vuole”. E Mancino risponde: “Guagliò, così come vengo vado sui giornali…”. Su Esposito è intervenuto lo stesso Presidente Napolitano che, in una lettera del 4 aprile, riporta le preoccupazioni di Mancino, invitando l’altissimo magistrato a valutare l’esercizio dei suoi poteri, anche su Grasso. E così il procuratore generale della Cassazione investe del problema il procuratore antimafia. E’, anzi, una delle prime cose che fa. Ciani subentra a Esposito l’11 aprile e già il 19 aprile incontra Grasso. Nell’occasione gli chiede una relazione dettagliata per rispondere alla nota del segretario generale del Quirinale. Grasso, intanto, fa mettere a verbale che “non ci sono violazioni tali da poter fondare un intervento di avocazione”. La relazione richiesta, lunga dieci pagine, è trasmessa il 22 maggio e conferma che “non ci sono i presupposti per avocare. Tali poteri così limitati (della Dna, ndr) giustificano il fatto che nessun procuratore nazionale antimafia si sia mai avvalso di tale prerogativa (…) Piuttosto che avocare, occorre incidere sui temi delle investigazioni e sulla loro ragionevole durata”. Intervistato dal Fatto Quotidiano, nel giugno 2012, Grasso precisa: “Ho incontrato il Presidente Napolitano solo in occasioni ufficiali, l’ultima volta il 23 maggio a Palermo e non mi ha mai parlato di Mancino. Come ho già detto me ne ha parlato D’Ambrosio e io ho sempre risposto sul piano giuridico spiegando che ho poteri di avocazione delle indagini ma nel caso in questione non sussistevano i requisiti perché il coordinamento tra Procure si era svolto secondo regole”. Quanto al verbale della riunione del 19 aprile, sull’avocazione non c’è stata “nessuna richiesta palese. Mi chiesero come esercitavo i poteri di coordinamento. Mi sono limitato a ribadire che non vi erano i requisiti per un’avocazione e che il coordinamento si era svolto secondo le regole”.

Le supposte ingerenze del Quirinale su una delicatissima inchiesta giudiziaria innescano un terremoto politico. Agli attacchi di Di Pietro, che chiede di istituire una commissione parlamentare d’inchiesta, Napolitano replica con un comunicato molto netto: “Per stroncare ogni irresponsabile illazione sul seguito dato dal Capo dello Stato a delle telefonate e ad una lettera del senatore Mancino in merito alle indagini che lo coinvolgono, si rende noto il testo della lettera inviata dal Segretario generale della Presidenza, Donato Marra, in data 4.4.2012, al Procuratore generale presso la Corte di Cassazione. Ecco il testo della lettera: “Illustre Presidente, per incarico del Presidente della Repubblica trasmetto la lettera con la quale il Senatore Nicola Mancino si duole del fatto che non siano state fin qui adottate forme di coordinamento delle attività svolte da più uffici giudiziari sulla ‘cosiddetta trattativa’ che si assume intervenuta fra soggetti istituzionali ed esponenti della criminalità organizzata a ridosso delle stragi degli anni 1992-1993. Conformemente a quanto da ultimo sostenuto nell’Adunanza plenaria del CSM del 15 febbraio scorso, il Capo dello Stato auspica possano essere prontamente adottate iniziative che assicurino la conformità di indirizzo delle procedure ai sensi degli strumenti che il nostro ordinamento prevede, e quindi anche ai sensi delle attribuzioni del procuratore generale della Cassazione fissate dagli artt. 6 D.Lgs. 106/2006 e 104 D.Lgs. 159/2011; e ciò specie al fine di dissipare le perplessità che derivano dalla percezione di gestioni non unitarie delle indagini collegate, i cui esiti possono anche incidere sulla coerenza dei successivi percorsi processuali. Il Presidente Napolitano le sarà grato di ogni consentita notizia e le invia i suoi più cordiali saluti, cui unisco i miei personali”. Risulta dunque evidente che il Presidente Napolitano ha semplicemente – secondo le sue responsabilità e nei limiti delle sue prerogative – richiamato l’attenzione di un suo alto interlocutore istituzionale su esigenze di coordinamento di diverse iniziative in corso presso varie Procure: esigenze da lui stesso espresse nel tempo, anche in interventi pubblici svolti al Csm per “evitare l’insorgere di contrasti ed assicurarne il sollecito superamento”, proprio ed esclusivamente al fine di pervenire tempestivamente all’accertamento della verità su questioni rilevanti, nel caso specifico ai fini della lotta contro la mafia e di un’obiettiva ricostruzione della condotta effettivamente tenuta, in tale ambito, da qualsiasi rappresentante dello Stato”. In soccorso del Colle arriva puntuale il parere di un altro ex vice- Presidente del Csm, il giurista torinese Carlo Federico Grosso: la ricostruzione di Napolitano è veritiera, il Presidente non ha fatto nulla di illegale, né ha esercitato pressioni sui giudici: “Che c’è di strano? Il Capo dello Stato, nella prospettiva di una proficua collaborazione istituzionale, ha sollecitato, semplicemente, il procuratore generale presso la Cassazione ad esercitare con tempestività ed efficienza i suoi poteri di controllo in una materia particolarmente incandescente quali sono le indagini sulla trattativa mafia- Stato. Si badi che l’esercizio dei poteri di sorveglianza sollecitati al procuratore generale della Cassazione sono specificamente riconosciuti dalla legge. Il Capo dello Stato, nei suoi interventi in materia di giustizia, aveva d’altronde manifestato più volte preoccupazione sul fatto che indagini collegate potessero avere sviluppi non adeguatamente coordinati; e già altre volte aveva opportunamente allertato il procuratore generale in questo senso”. E’ tutto a posto, quindi? No, perché lo scandalo non si chiude così facilmente. Anzi, finisce per coinvolgere direttamente il Presidente, convocato dai pm del processo di Palermo sulla trattativa tra Stato e mafia per spiegare perché il suo consigliere giuridico avesse scritto in una lettera, poco prima di morire di crepacuore, che si sentiva come “un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi”. Richiesta improponibile per l’avvocato dello Stato, Giuseppe Dell’Aira, che si batte come un leone per escludere dal processo tutto il filone generato dal grande agitarsi di Mancino, che ha finito “per coinvolgere diverse personalità di prestigio” dagli ex PG di Cassazione Vitaliano Esposito e Gianfranco Ciani, all’ex capo della Dna Piero Grasso (oggi vicario di Napolitano in qualità di Presidente del Senato), al segretario generale del Quirinale Donato Marra. Il legale richiama le garanzie di assoluta riservatezza assicurate all’inquilino del Colle e che si estendono a tutti gli altri testi citati ma connessi alla funzione presidenziale e quindi non sarebbero neanche ammissibili le trascrizioni delle intercettazioni telefoniche di D’Ambrosio. Alla fine la Corte decide di accogliere tutte le richieste dell’accusa, ritenendo ammissibile l’interrogatorio del Presidente e riservandosi di valutare, al momento stesso della deposizione, l’eventuale insorgere di un conflitto con il diritto alla riservatezza proprio delle funzioni presidenziali. Nel procedimento finiscono anche alcune telefonate intercettate tra Napolitano e Mancino. Il Quirinale, in questo caso, solleva conflitto di attribuzione: il Presidente non può essere intercettato per caso e la Corte costituzionale gli dà ragione, ordinando la distruzione delle bobine.  Alla fine Napolitano scende direttamente in campo per scongiurare quella che è con tutta evidente un’umiliante situazione, comparire alla sbarra, sia pure simbolicamente, come un qualsiasi cittadino della Repubblica. E così scrive al Presidente della Corte d’Assise di Palermo di valutare “il reale contributo” che le sue dichiarazioni “potrebbero effettivamente arrecare all’accertamento processuale in corso” sulla trattativa Stato-mafia. Il Capo dello Stato ritiene di non avere nulla da riferire ai giudici perché nulla sa del “vivo timore” di D’Ambrosio di essere stato un “utile scriba”, usato come scudo per “indicibili accordi”, tra l’89 e il ’92, come scritto dal suo consigliere “nella drammatica lettera del 18 giugno”, una lettera, scrive Napolitano “caratterizzata da profonda amarezza e sgomento” e anche “indignazione per interpretazioni (dello scambio di telefonate con il senatore Mancino) e, più in generale, arbitrarie insinuazioni che colpivano la costante linearità della condotta tenuta da D’Ambrosio, in modo particolare rispetto all’impegno dello Stato nella lotta contro la mafia.” All’epoca dei fatti lui era Presidente della Camera, non si occupava di Antimafia e con il magistrato neanche si conosceva, in seguito non ne hanno mai parlato. Anche quando, il giorno dopo la lettera, il Presidente convoca il consigliere per rassicurarlo e confermargli stima e fiducia non ha “in alcun modo ricevuto da D’Ambrosio qualsiasi ragguaglio o specificazione circa le ‘ipotesi’ da lui ‘enucleate’ e il ‘vivo timore’, di cui il mio consigliere ha fatto generico riferimento, sempre nella drammatica lettera del 18 giugno, rinviando al suo scritto inserito, come sapevo, nel recente volume di Maria Falcone’’. Il Presidente precisa: “Né io avevo modo e motivo – neppure riservatamente, nel colloquio del 19 giugno – di interrogarlo su quel passaggio della sua lettera, né mai ebbi occasione di intrattenermi con lui su vicende del passato, relative ad anni nei quali non lo conoscevo”. La richiesta di Napolitano che l’acquisizione della sua lettera agli atti lo liberi dall’obbligo di deporre in un processo in modo rituale, rispondendo alle domande delle parti, invoca una garanzia che non è indicata dalla legge, estendendo le guarentigie presidenziali ben al di là di quelle previste dalla Costituzione.

 

Ugo Maria Tassinari è l'autore di questo blog, il fondatore di Fascinazione, di cinque volumi e di un dvd sulla destra radicale nonché di svariate altre produzioni intellettuali. Attualmente lavora come esperto di comunicazione pubblica dopo un lungo e onorevole esercizio della professione giornalistica e importanti esperienze di formazione sul giornalismo e la comunicazione multimediale

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*

*

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.