Nello scrigno del tempo. Lega Nord e fascisteria: l’indipendenza padana e i miti neoceltici
Riprendiamo la pubblicazione del capitolo di Fascisteria (edizione 2008) dedicato alla Lega Nord (qui la prima parte). Solo osservatori disattenti possono oggi cascare dal pero di fronte al nuovo asse con il Front National:
E l’ex ministro degli Interni fu picchiato dalle guardie…
È questa una nuova destra europea, più xenofoba che fascista, anche se, nella stagione indipendentista, il serbatoio a cui attinge per produrre simboli e miti è un neopaganesimo straccione, fra tradizioni druidiche e cerca del Graal. La rinascita neoceltica in Italia è maturata nell’estrema destra e in particolare tra i giovani rautiani, in cerca di miti originali, nella seconda metà degli anni Settanta. I fratelli maggiori si erano caratterizzati per un paganesimo neoclassico teso alla ricerca della tradizione romana. Così al culto dei templari i militanti del Fronte della gioventù, ma anche di Tp e dei Nar, oppongono il ciclo bretone ed Excalibur, ma anche il tifo per il nazionalismo irlandese e il mito di Bobby Sands e dei martiri di Maze. Il tentativo del segretario giovanile Fini di bandire la croce celtica dai raduni del Fronte affonda nel ridicolo. Agli inizi degli anni Novanta, però, a far traboccare edicole e negozi di cd musicali celtici e di ammennicoli vari non è un ritorno di «fiamma», ma il trionfo commerciale del new age. Lungo i Navigli è frequentatissimo il Ceiltic Shopa: immagini in cera di gnomi, fatine e abitanti del favoloso mondo della tradizione popolare nordeuropea, libri sulla religione druidica e scritti di autori neopagani accompagnati da cd. La presenza di gruppi che si ispirano alle tradizioni celtiche in Lombardia desta l’allarme del Gris (Gruppo ricerca e informazioni sette) che vi individua una diversa matrice culturale di destra:
Soprattutto in seguito all’affermarsi in campo storico di alcune tesi riguardo le matrici comuni dell’Europa e l’ancestrale cultura madre del nostro continente (si veda ad esempio l’opera di Nolte e della sua scuola), la convinzione che il collante culturale del nostro continente fosse la tradizione celtica è penetrato anche nel sentire comune.
In questo scenario il cristianesimo è considerato un usurpatore dell’autentica cultura europea, di cui sono fedeli espressioni le tradizioni nordiche. Con frequenza crescente, del resto, Bossi e la destra leghista attaccano la Chiesa: come istituzione politico-finanziaria puntello del potere romano, ma anche come avanguardia militante e baluardo ideologico della solidarietà ai dannati della terra (immigrati, tossicomani, prostitute e disperati vari) che l’egoismo sociale leghista vorrebbe spazzare via con piacere:
Se la chiesa si oppone alla Padania è possibile che si vada alla riforma. Rilanceremo il principio cuius regio, eius religio, l’idea della religione nazionale legata al principe, e rivendicheremo l’indipendenza dalla Roma cattolica oltre che dalla capitale.
I toni aspri anticlericali non alienano simpatie neanche nelle zone di maggiore insediamento, un tempo bianche, perché la polemica è in opposizione a un lontano potere politico romano e mai in
termini irreligiosi o antireligiosi. Così, quando all’inizio del nuovo millennio l’ennesima giravolta tattica riporta Bossi tra le braccia di Berlusconi, la difesa della famiglia e i valori dell’identità cristiana saranno al centro dell’agenda politica leghista. Anzi, il martellamento sull’opposizione storica tra celti e romani induce gruppi tradizionalisti di matrice evoliana (il Centro le rune di Chiavari) a una stizzita puntualizzazione: romani e celti hanno una comune matrice etnica indoeuropea e quindi un retaggio culturale, mitologico e religioso.
La riscoperta del celtismo in salsa padana spazia dal sacro dei simboli delle divinità naturali (il Sole delle Alpi, l’ampolla del Po) al profano dei giochi sportivi, dalla corsa con le gamelle al taglio del tronco, dal lancio del ferro di cavallo alla corsa della vichinga (con una ragazza caricata in spalla). Al di là di alcuni aspetti farseschi, resta la straordinaria capacità di costruire intorno a un programma politico approssimativo un intero sistema di miti e di riti, comprese le nozze celtiche a cui ricorrono dirigenti rampanti come Roberto Castelli e Roberto Calderoli per testimoniare la propria totale dedizione alla causa. Lo scontro tra «progetto Padania» e indipendentismo veneto è scandito dalla guerra delle bandiere, tra la biancoverde del «Sole delle Alpi» e l’orogranata del Leone di San Marco. Tutte buone, a ogni modo, per sostituire l’odiato tricolore.
Ogni occasione serve a diffondere il progetto indipendentista. Quando Mediaset organizza una sfilata di moda in Galleria, i leghisti milanesi s’inventano una riunione nella sede che affaccia sul
palco e bombardano il parterre di volantini che inneggiano alla Free Padania. Mike Bongiorno saluta lo sventolio delle bandiere verdi con il tradizionale «Allegria!» e un invito al bell’applauso. A
Calcinate di Varese nasce la prima scuola elementare leghista: quella pubblica era chiusa da due anni per mancanza d’iscrizioni e il sindaco di Varese, Aldo Fumagalli, fa il direttore didattico. Il personale è selezionato dopo un corso d’aggiornamento tenuto di sabato nella federazione provinciale, tra pensionate e maestre in cerca di occupazione. Tra i dodici iscritti ci sono due figli del senatur. Studiano dialetto varesino, motti contadini e storia e geografia della Padania. La prima dispensa di storia padana, pubblicata dall’Editoriale Nord, parla della «battaglia psicologica» dei celti, della sensibilità artistica dei veneti, del sistema economico degli etruschi. Non mancano riferimenti alla linguistica (degli umbri) e alla paleoantropologia (il cranio dolicocefalo dei liguri).
Con la radicalizzazione del movimento scatta la repressione. A ogni clamorosa azione segue un blitz. Tre giorni dopo la proclamazione dell’indipendenza della Padania a Venezia, il 18 settembre
1996, la Digos perquisisce la sede federale di via Bellerio a Milano. L’obiettivo è la scrivania di Corinto Marchini, capo delle camicie verdi lombarde: i dirigenti resistono con la forza e protestano perché l’ufficio perquisito era di Maroni. L’ex ministro degli Interni si distingue per combattività e così, paradossalmente, finisce in ospedale per le botte ricevute dai suoi ex «dipendenti», che dopo alcune ore di fronteggiamento si decidono a caricare. Gli indagati sono due: Marchini ed Enzo Flego, il leader veneto delle camicie verdi.
Le imputazioni sono pesantissime: attentato alla Costituzione e all’unità nazionale, associazione segreta. Gli scontri in sede daranno vita a un processo per resistenza e oltraggio che vede in primo grado la condanna a otto mesi degli onorevoli Maroni, Borghezio, Davide Caponini e dei dirigenti leghisti Piergiorgio Martinelli e Roberto Calderoli. Bossi, arrivato come al solito in ritardo, a scontri iniziati, ha un piccolo sconto: sette mesi. Il pm aveva chiesto un anno, non ritenendo calci e pugni (anche due poliziotti erano stati medicati in ospedale) esercizio del mandato parlamentare o dell’attività politica dei partiti, diritti costituzionalmente garantiti. Ma alla fine dell’iter processuale il leader sarà assolto.
Il secondo blitz è a ridosso del summit delle Procure (e di una grande manifestazione leghista a Milano), il 21 novembre 1996. L’esito di diciassette perquisizioni (sequestrati documenti, agende,
camicie verdi, gadget vari e volantini) per associazione di carattere militare (la Guardia nazionale padana) scatena la furia (Maroni) e il dileggio (Bossi) del vertice leghista. L’ex ministro degli Interni, ancora col dente avvelenato per le botte prese, chiede l’allontanamento di Papalia dalla magistratura: «Sono io il capo della Guardia nazionale padana. Perché non mi indaga?» Guiderà poi una delegazione d’imputati, come avvocato, dal procuratore. Insieme a una task-force di legali leghisti elabora un esposto al Consiglio superiore della magistratura che segnala un’incompatibilità
ambientale. Tra i materiali sequestrati al vicesindaco di Volongo (Cremona), Angelo Corini, responsabile della Brigata Vipera della Guardia nazionale padana, ci sono venti copie del testo del coro del Nabucco e una Gazzetta ufficiale della Comunità europea. Il senatur la prende a ridere, sul Va’ pensiero arrestato. Ma i lividi attacchi a Papalia, «il giudice più terrone che ci sia», resteranno una costante della propaganda leghista. Poche ore dopo le perquisizioni Borghezio presenta un’interrogazione beffarda ai ministri degli Interni e della Giustizia per sapere
se al Governo risulti che tale testo sia da considerarsi una pubblicazione sovversiva e, quindi, passibile di sequestro e se analoghi provvedimenti sono da attendersi presso i più importanti teatri dell’opera siti nel territorio padano.
Gli indagati rischiano fino a dieci anni di carcere. Sono quadri intermedi lombardo-veneti: c’è il responsabile comasco della Guardia nazionale padana, Luciano Grammatica, il veronese Marcantonio Brigantin, un catechista d’Induno Olona (Varese), Stefano Cavallin. All’operaio Riccardo Paggi, fiduciario della Valtellina, sequestrano schede manoscritte di adesione, al responsabile mantovano delle camicie verdi un fucile Flobert regolarmente denunciato.
Massimo Carpeggiani s’indigna: io non sto neanche nella Guardia nazionale padana (il responsabile della Bassa è l’onorevole Uber Anghinoni). La distinzione non è capziosa ma frutto di un’ossessione
statalista: l’unico paragone comprensibile è con il fascismo (tra milizia del Pnf e polizia di stato). Le camicie verdi sono il servizio d’ordine del Comitato di liberazione della Padania, la Guardia il
corpo di sicurezza del governo padano.
(2-continua)
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