Officina e la brutalità sbirresca: non recidiamo un fiore
[Un pezzo di vent’anni fa in difesa di Officina, il centro sociale napoletano che sembrava sotto minaccia di sgombero e oggi è ancora là, nel cuore della più degradata periferia orientale di Napoli. Un’esperienza all’epoca promettente ma che poi ha finito per avvitarsi nell’autoreferenzialità e nel solipsismo]
I carabinieri entrano di soppiatto. Approfittano del cancello lasciato aperto dai ragazzi che stanno scaricando le casse di birra da vendere durante il concerto della sera. Si aggirano per i locali di “Officina” con atteggiamento arrogante. Uno chiede cosa sia quello strano odore, scambiando il Lysoform per hashish: ottusa malafede o inettitudine professionale?
E’ la decima interruzione di un’intervista partorita con fatica. Ha pochi anni in più Carla, ma ha un evidente rapporto matriarcale con gli altri compagni del centro sociale occupato. Per ogni problema che sorge è il referente naturale e così è per l’intrusione dei poco graditi visitatori.
La tensione è forte: è stato da poco sgomberato “La Ragnatela”, il centro sociale costruito negli scantinati del San Paolo da una banda giovanile dark che voleva restituire alla fruizione collettiva uno spazio urbano riservato dominio di tossici e maniaci ed ora, da ambienti giudiziari, monta il tam tam che tra poco sarà la volta dei ragazzi di “Officina”.
Sono venuti a dare un occhiata, dicono i militari in borghese, ma l’atteggiamento è di sfida: se avessero voluto togliersi una curiosità innocente, gli sarebbe bastato aspettare un paio d’ore, quando i cancelli del centro sarebbero stati aperti per uno dei concerti della settimana di mobilitazione contro la chiusura degli spazi sociali autogestiti.
Chiedono di identificare qualcuno dei presenti ma quando gli allungo i miei documenti si guardano bene dal verbalizzare gli estremi.
I ragazzi di “Officina” ci hanno fatto un po’ il callo alle rozze attitudini repressive di taluni elementi delle forze dell’ordine. Ne ho personale memoria e posso renderne puntuale testimonianza.
E’ già successo giusto un anno fa. Al termine di una manifestazione di lotta lo scambio di quattro schiaffi tra poliziotti e giovani del centro sociale (seguito dal pestaggio scientifico dei fermati prima del trasporto a Poggioreale) era stato trasformato dal Questore Mattera – che all’epoca godeva di ampio credito della stampa – in una fiammata guerrigliera. Non contento della grancassa scatenata artificiosamente, Vituccio aveva rilanciato l’allarme dalle colonne del più diffuso quotidiano napoletano, un quotidiano di ‘amici’: c’era un piano eversivo degli autonomi a Napoli ma le forze di polizia erano pronte a stroncarlo. Ci sforzammo di spiegare – garbatamente – al Questore che evocare pericoli inesistenti ha un effetto diversivo che distoglie risorse e intelligenza dai pericoli reali.
Pensavamo allora – non era ancora dilagata l’onda lunga di Mani pulite – che il monopolio legittimo della forza da parte dello Stato era messo in discussione non da 150 autonomi stracciaculi ma dal radicamento territoriale di una sessantina di clan camorristici che erano in grado in alcune zone di impedire il normale servizio di pattugliamento delle Volanti… Fosse capitato ora aggiungeremmo che il nemico marcia alla nostra testa e che l’attuale gestione della cosa pubblica è il più formidabile strumento di delegittimazione per via interna del sistema. Ora a Milano lo sgombero viene dato a quei partiti politici che da decenni occupavano senza pagare il fitto edifici pubblici. Un segno dei tempi
Il Questore era convinto che la politica fosse una cosa troppo seria per lasciarla agli addetti ai lavori: e ha pensato bene di continuare la sua opera benintenzionata di difesa dell’ordine democratico -anziché sollecitare le iniziative di polizia contro i mariuoli annidati nelle fila della pubblica amministrazione – mettendo sotto tutela un sindaco ‘stronzo’ e che ‘non capisce un cazzo’ (sono sue parole: io avevo una diversa considerazione dell’ingegnere Polese, e continuo ad averla, non fosse altro perché ritengo che uno è qualificato dai nemici che si sceglie e non dagli amici che si ritrova). Non rendendosi conto – il dottor Mattera, che per questo ci ha lasciato le penne – che se oggi esiste una virtualità di eversione dell’ordine democratico la matrice è proprio nel discredito diffuso tra la gente per le istituzioni rappresentative e i partiti che le occupano.
Oggi è all’ordine del giorno, anche al Sud – e lo dimostrano i risultati elettorali da Reggio a Castellammare a Isernia – la messa in discussione non solo di una maggioranza che non ha più i numeri per governare ma la legittimità di un regime che ha ormai attraversato, nella più ampia coscienza popolare, il punto di non ritorno verso l’implosione.
Sì, è vero, ha ragione il senatore Cossiga: la degenerazione del sistema partitocratico nella Piovra onnivora del consociativismo lottizzatore e predatorio è figlio naturale dell’anomalia italiana, del compromesso storico permanente che interdicendo per ragioni geopolitiche ai comunisti l’accesso al governo garantiva comunque loro una cospicua partecipazione agli utili della torta dello Stato sociale. Ma è altrettanto vero che la mutazione genetica, la trasformazione del processo da degenerativo a metastatico, va tutta iscritta dentro gli orribili anni Ottanta, nel dilagare delle ideologie e nelle pratiche del rampantismo yuppie, nel trionfo dell’idea della Politica come pura gestione del potere.
In questi ultimi mesi al ritorno sulla scena dell’opposizione sociale con una pericolosa operazione di aggiotaggio mass-mediatico si è voluto giustapporre il fantasma dei naziskin come emergenza prossima ventura. Per criminalizzare e al tempo stesso marginalizzare talune forme di violenza che erano invece interne alla tradizione della lotta dura di parte operaia e proletaria (si pensi al lancio dei bulloni ai comizi sindacali!): apprendisti stregoni. Il conflitto aperto è nelle società mature un formidabile stabilizzatore sociale. In particolare nella società dello spettacolo funziona anche nella forma della messa in scena. Così figlioli prediletti del sistema partitocratico, come Segni e La Malfa, costruiscono le loro più o meno straordinarie fortune rappresentandosi come i paladini di una domanda di pulizia profonda che sale dalle viscere della società mentre la sinistra resta del tutto immobile e paralizzata di fronte allo smantellamento degli ultimi capisaldi dello Stato sociale.
Nella piena dell’onda degli anni Ottanta, l’esperienza catacombale dei centri sociali autogestiti ha rappresentato un germe di pensiero critico, la manifestazione della virtuale possibilità di resistere all’aggressione delle culture dominanti da parte delle minoranze marginali. Così mentre i cialtroni di Palazzo si ingrassavano mungendo le vacche grasse dei megafinanziamenti a iniziative di dubbio spessore culturale e spettacolare, in mille realtà locali si lavorava a esperienze di autorganizzazione e autoproduzione. La stessa scelta degli spazi occupati è assai significativa ed enuclea con nettezza una critica radicale della attuale gestione delle risorse urbane. Se i ragazzi della Ragnatela sono andati ad occupare uno spazio abbandonato dentro un monumento allo spreco – e infatti sono decine i politici e gli imprenditori inquisiti per lo scandalo di Italia ’90 – gli occupanti di “Officina” hanno scelto una fabbrica dismessa – un’officina di aggiustaggio motori – già da 15 anni, monumento alla destrutturazione sociale ed economica della zona industriale.
E l’hanno trasformata in uno straordinario luogo di aggregazione giovanile – dentro il deserto umano e sociale della periferia orientale di Napoli.
Ora sembra che ci sia un padrone del fabbricato che vuole rientrare in possesso del manufatto. Non si sa chi sia, ma è certo che esiste e un magistrato starebbe per accingersi a emettere l’ordinanza di sgombero.
Qualche domanda è lecita. Per farne che cosa? Qualcuno gli ha concesso una licenza edilizia? Qual è la destinazione d’uso, in un’area che vede a poche centinaia di metri migliaia di vani – per uso abitativo e di servizi – ancora sfitti nel Centro Direzionale? Intorno alle aree industriali dismesse si è sviluppato, con l’avanzare del processo di destrutturazione produttiva lungo tutto l’arco dell’ultimo decennio, un ricco dibattito urbanistico che ha spesso posto l’accento sulla necessita che questi spazi vadano piuttosto recuperati alla fruizione collettiva ma non certo destinati alla rendita fondiaria e alla speculazione edilizia.
In un’area urbana orrenda, dove crollano le occasioni di lavoro produttivo e l’unica offerta di fruizione del tempo libero per i giovani è lo spaccio di massa dell’eroina, “Officina” rappresenta un avamposto di resistenza sociale all’avanzata del Nulla, di opposizione alla catastrofe mentale ed ecologica che è l’inevitabile risultato del dilagare della crisi economico e sociale nel tessuto canceroso della periferia metropolitana. Non recidiamo il fiore spuntato nell’asfalto.
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