Omicidio Calabresi. Le contraddizioni di Marino non evitano le condanne
Dal libro di Aldo Cazzullo “I ragazzi che volevano fare la rivoluzione (1968-1978)” la parte finale del capitolo sull’omicidio Calabresi.
«L’articolo sulla morte di Calabresi lo scrissi io» dice Adriano Sofri. «Quelli che l’hanno chiamato “una rivendicazione occulta”, magari falsandolo (gli hanno inventato di sana pianta il titolo: Giustizia è fatta, e continuano a citarlo così), non sanno che allora furono in molti, in Lotta continua, a ritenerlo “opportunista”, perché avrebbe dovuto approvare esplicitamente l’omicidio.
Nessun doppio livello in LC
«Non c’è mai stato un doppio livello in Lotta continua, una distinzione tra livello ufficiale e livello clandestino. C’è stato senz’altro qualcuno che ha fatto rapine proponendosi di accumulare armi o strumenti per il giorno in cui si dovesse resistere o sopravvivere a un colpo di Stato, finché − assai presto − li si è fatti smettere. O c’è stato chi si organizzava per far fronte agli scontri con i fascisti, o con la polizia.
Molti di noi avrebbero potuto fare queste cose: forse una rapina io non l’avrei fatta, forse sì. Altri no: Marco Boato non si sarebbe mai sognato né di farla né di tollerare che qualcuno la facesse, o di prendere sul serio qualunque illegalità, allora come oggi. Molte altre persone che stavano in Lotta continua ritenevano plausibile un’attività destinata a salvaguardare da una messa fuori legge, o dalle aggressioni. Il confine fra ciò che era ammissibile e ciò che non lo era veniva fissato via via, attraverso l’esperienza, gli errori, il pericolo, la scoperta dei cattivi effetti che tradivano le buone intenzioni.
Queste cose riguardavano, sia chiaro, una gran parte di militanti non solo dell’estrema sinistra, ma anche del Pci. Bisogna ricordarsi di un’Italia in cui Sandro Pertini, presidente della Camera dei deputati, vedendo dalla finestra due auto della polizia, venute a fargli da scorta, confessava francamente di aver pensato a un colpo di Stato.
I nostri fermarono le derive
Alcuni nostri militanti si fecero più esperti di quei problemi della “forza”, del servizio d’ordine, perché dovevano occuparsene: ma proprio loro diventarono − assai precocemente − i più esperti nel tenere a bada le scorciatoie “militariste”. Altri, che si convinsero che bisognava dare mano politicamente e praticamente alla “lotta armata”, dovettero trarne la conclusione che in Lotta continua non avrebbero potuto farlo, e se ne andarono. Questo avvenne a più riprese. Ora si vuole invertire le cose, immaginare grottescamente una direzione di Lotta continua che fonda un suo braccio armato clandestino e lo incarica di fare tre rapine, quattro pestaggi e un omicidio. Questo è un delirio postumo e vendicativo.
Prdrazzini agì da solo
«Il ragazzo Maurizio Pedrazzini non salì le scale di casa Servello perché qualcuno gli aveva detto di farlo. Credo che fosse una sua idea, ai suoi occhi di allora generosa, che il Padreterno volle tenere nelle dimensioni benedette di un pasticcio. Quando l’ho conosciuto, l’ho trovato una brava persona, onesta e, per quel lontano episodio, fortunata: è probabile che non avesse intenzione di fare davvero del male. Se quella fosse stata la linea di Lotta continua, sarebbe potuta andar “male” una volta, due volte. L’invenzione di un’organizzazione clandestina da un omicidio solo è pura follia. Se Lc fosse stata incitata o autorizzata da me a passare a quel piano, la storia di tutti noi, e dell’Italia, sarebbe stata terribile.».
Il 2 luglio 1988 (ma al processo in un primo tempo posticiperà la data al 19 luglio) Leonardo Marino si presenta ai carabinieri di Ameglia per trattare «alcuni problemi abbastanza delicati»: in particolare «un grave fatto accaduto a Milano nel ’72». È il delitto Calabresi. Marino sostiene di aver rubato e guidato la 125 «beige» (in realtà blu), scelta perché priva di bloccasterzo (particolare che sarà confermato dalle indagini), su cui viaggiava il killer di Calabresi, «Enrico» (Ovidio Bompressi), e di aver agito su mandato di Pietrostefani, confermato da Sofri.
Tutte le contraddizioni
Se la prima parte della confessione di Marino, quella sulle rapine e il nucleo duro del servizio d’ordine, ha trovato più di un riscontro, la seconda, quella sulla preparazione e l’esecuzione del delitto Calabresi, presenta più di un punto oscuro e contraddittorio.
Pietro Pappini, l’automobilista che seguiva la 125 blu, raccontò nel ’72 di aver visto il killer scendere dall’auto dopo che Calabresi era uscito di casa, mentre, nel racconto di Marino, Bompressi attende sotto il portone di via Cherubini fingendo di leggere un giornale. Uno studente divenuto poi capo dei vigili urbani di Massa, Roberto Torre, sostiene di aver incontrato Bompressi nella tarda mattinata del 17 maggio al Bar Eden di Massa, mentre, nel racconto di Marino, Bompressi è ancora alla Stazione Centrale di Milano alle dieci.
Quanto al colloquio dopo il comizio, su cui si basa la condanna di Sofri come mandante del delitto, Marino non ricorda la pioggia che cadeva quel pomeriggio a Pisa, e in un primo tempo afferma di essere ripartito subito per Torino, e soltanto dopo che Sofri glielo ricorda riconosce di essere andato a trovarlo la sera a casa di sua moglie, Alessandra Peretti.
L’iter giudiziario
Il 2 maggio 1990 i giudici della Corte d’Assise di Milano emettono la prima sentenza di condanna: ventidue anni a Sofri, Bompressi e Pietrostefani, undici a Marino. Un anno dopo la Corte d’Appello ribadisce la condanna. Ma le sezioni penali riunite della Corte di Cassazione ravvisano nella sentenza «gravi vizi logici e metodologici». Il processo è rimandato alla Corte d’Appello, che il 21 dicembre 1993 assolve tutti gli imputati. Il giudice relatore scrive la motivazione del verdetto in contrasto con la decisione della corte: è una «sentenza suicida», per costringere la Cassazione ad annullarla. Il processo è da rifare.
L’11 novembre 1995 la Corte d’Appello di Milano condanna Sofri, Bompressi e Pietrostefani e proscioglie Marino per avvenuta prescrizione del reato: le attenuanti dovute alla confessione hanno prevalso sulle aggravanti. Il 22 gennaio 1997 la V Sezione penale della Cassazione respinge il ricorso degli imputati, la sentenza diventa definitiva. Due giorni dopo Adriano Sofri varca il cancello del carcere Don Bosco di Pisa, lo stesso dove ventinove anni prima era andato a reclamare la liberazione dei compagni del Potere operaio. Ovidio Bompressi lo segue subito. Giorgio Pietrostefani è a Parigi: lo raggiungerà qualche giorno dopo.
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