7 gennaio 2016, muore Paolo Pozzi, testa e cuore di “Rosso”
di Chicco Funaro per il Manifesto*
Ricordi. Militante di Rosso, fu arrestato e condannato all’interno dell’inchiesta del 7 Aprile. Dopo la prigione scrisse romanzi e saggi sugli anni Settanta
È morto a Milano Paolo Pozzi. Molti lo ricorderanno tra i principali imputati del processo 7 Aprile e di numerosi altri procedimenti contro l’Autonomia operaia milanese. Quest’anno avrebbe compiuto 67 anni. Nato a Fano, aveva compiuto nella sua città gli studi superiori. Con risultati tra i più brillanti mai registrati nella scuola marchigiana.
Iscrittosi alla Facoltà di Sociologia di Trento, ne era uscito laureandosi a pieni voti nel 1972. Trasferitosi a Milano, i suoi interessi politici e culturali si erano immediatamente rivolti all’esperienza del nascente Gruppo Gramsci. Una realtà formata da intellettuali e da militanti tra Milano e il Varesotto. Per dar vita a ipotesi di progetto e di intervento capaci di superare ideologismi e dogmatismi. E di allargare la ricerca politica e culturale, ma anche e soprattutto le lotte, a tutte le «nuove» tematiche della società e della persona.
Il suo ruolo in “Rosso”
Nel gruppo Gramsci Paolo si era occupato sin dagli inizi di «Rosso»: la rivista, che con tratto originale, a partire dal suo stesso nome/testata, una sorta di tautologia anche visivamente molto efficace, stava aprendo un dialogo e una discussione sempre più serrati con settori sempre più larghi del movimento di quegli anni. Con la confluenza tra il Gramsci e il gruppo di ex Potere operaio che faceva capo a Toni Negri, e la nascita dei collettivi di Rosso, Pozzi contribuì in larghissima parte alla vita politica ed editoriale del giornale, coordinandone non solo gli aspetti tecnici ma anche e soprattutto i contenuti editoriali, quasi sempre molto originali e dal taglio decisamente inconsueto per gran parte dell’immaginario politico di quegli anni.
L’originalità del progetto
“Rosso”, che adottò sempre un linguaggio spregiudicato e creativo, suscitò un notevole consenso anche per l’interesse non di maniera dimostrato verso tutte le forme di antagonismo nei confronti della società capitalistica e dell’organizzazione del lavoro, dal femminismo alla controcultura, e per l’appoggio concreto fornito ai movimenti del «proletariato giovanile» e a tutte le lotte per la liberazione e l’autovalorizzazione della persona. Di notevole taglio critico fu sempre la polemica incessante contro ogni tipo di riformismo e di compromesso, «storico» o no, tra Partito comunista e Democrazia cristiana.
Il giornale e il gruppo furono sempre impegnati a sostenere la necessità che l’Autonomia operaia dovesse sempre e comunque rimanere lontana da ogni progetto di costruzione di un partito. Nel dibattito sulle scelte di fondo che l’insorgere della lotta armata e delle formazione combattenti aveva messo in moto, Paolo non ebbe esitazioni e si schierò contro ogni forma di «clandestinità». Pur nell’incertezza di quel periodo, continuò a guidare le sorti della rivista fino all’autoscioglimento e alla fine politica di Rosso nel 1978.
Dal 7 aprile al ritorno alla “normalità”
Arrestato nel corso delle operazioni giudiziarie del «7 Aprile», sostenne con grande dignità e coraggio il carcere e, insieme ai suoi coimputati, le durissime battaglie processuali; ma anche il non sempre facile dibattito per il superamento della legislazione d’emergenza e il ritorno a una «normalità» nella vita politica e sociale. Dopo il carcere, si rese promotore di innovative iniziative imprenditoriali nel settore delle biblioteche e dell’archivistica. Scrittore di buona vena rievocativa, pubblicò tra le altre cose Insurrezione, romanzo breve dedicato alla Milano degli anni ’Settanta edito da DeriveApprodi.
Lascia una moglie, Laura, e una figlia, Irene.
*Numero del 9 gennaio 2016
Vitaliano Trevisan: il calvario di un dissidente
Gianni Sartori
Di Trevisan, pur conoscendolo di fama (inevitabile a Vicenza), in passato non mi ero voluto interessare più di tanto. A parlarmene erano state persone – buone, brave, colte, di sinistra e beneducate – ma, dal mio punto di vista, comunque “borghesi”. Scherzando, ma non troppo, lo definivo un “Mauro Corona” di pianura. Ossia un “personaggio” folcloristico, pittoresco e deviante quanto basta. Falsamente “autentico” e “genuino” come in genere piace appunto a certa borghesia progressista.
Solo pochi mesi fa, intervistando un vecchio compagno, impegnato da una vita non solamente nel “sociale”, ma nella lotta di classe (Luciano Orio), mi era stato citato in relazione agli incidenti (omicidi) sul lavoro. Nel suo “Works” (Einaudi editore) Trevisan denunciava apertamente quello che magari conoscono in molti, ma su cui in genere si preferisce stendere un velo pietoso. Ossia sul fatto che dai macchinari di lavorazione (laminatoi, presse, macchine utensili…) – per aumentarne la produzione ovviamente – spesso viene disinnescato il sistema di sicurezza. Con le ovvie conseguenze: arti amputati quando va bene, corpi maciullati nell’altro caso. In quantità – e qui ci sta – industriale.
Lessi il libro e verificai quanto mi aveva segnalato Luciano.
Ma scoprii anche altro.
Intanto il fatto che – come il sottoscritto anche se in anni diversi – Vitaliano Trevisan aveva lavorato come facchino alla Domenichelli nei turni di notte.
Anzi, avevo anche colto una variante. Da parte sua non considerava il lavoro, notturno ricordo, particolarmente gravoso e parlava di turni di otto ore.
Personalmente, confrontandolo con altre mie esperienze simili (nelle celle frigorifere, alla Veneta- Piombo, traslochi…), lo ricordavo comunque abbastanza pesante. Anche perché all’epoca di giorno cercavo di frequentare l’università, al punto che ricordo di essermi appisolato più di qualche volta in piedi, appoggiato al carrello.
E poi, mi sembra proprio di ricordare, nella prima metà degli anni settanta i turni erano di dieci ore, non di otto. Con una “pausa- pranzo” (un panino portato da casa) di venti minuti, mezz’ora.
E’ possibile naturalmente che in seguito (seconda metà degli anni settanta, quando toccò a Trevisan scaricare e stivare) le cose fossero cambiate. Come avvenne – questo lo avevo verificato di persona – nel settore traslochi (grazie anche all’impiego di elevatori che permettevano, per esempio, di non dover portare sulle spalle, da soli, pesanti frigoriferi per diversi piani di scale).
E poi in “Works” raccontava a sua esperienza in un territorio che conosco bene, il Basso Vicentino.
Quel pezzetto di Riviera Berica sdraiato ai piedi dei Colli Berici che operatori turistici, Pro Loco e amministrazioni comunali si ostinano a descrivere come bucolico, con paesaggi (ormai è un classico, non si nega a nessuno) “mozzafiato”. Nonostante la pianura sia quasi completamente cementificata (oltre che inquinata, vedi la A31) e sui Colli proliferi di giorno in giorno la metastasi delle villette degli “amanti della Natura”. Costruzioni talvolta semiabusive (depositi attrezzi con colonnato e piscina, case di 2-3 cento metri quadri dove prima c’era soltanto “el staloto del mas-cio”…) a spese del paesaggio e degli ecosistemi.
Ma comunque qualcosa c’era – e c’è – a mozzare letteralmente il fiato: gli innumerevoli capannoni dove languiscono segregati a migliaia i polli da allevamento. E la puzza – come scriveva chiaramente Vitaliano – si sente, eccome. Anche da lontano.
Anche senza volersi soffermare sulla sacrosanta compassione per quelle povere creature imprigionate (rileggersi in proposito quanto scriveva Eugenio Turri sugli analoghi allevamenti nei Lessini), pensiamo soltanto a cosa sta accadendo proprio ora in Veneto con l’epidemia di aviaria e lo sterminio di milioni di volatili.
Avevo pensato che magari, prima poi, avrei potuto parlarne direttamente con lui (sia della diversa percezione dei turni alla Domenichelli che della situazione ambientale nel Basso Vicentino). Un’occasione persa ormai.
Ma quello che più mi rode è il modo in cui sembra se ne sia andato. Dopo un ricovero psichiatrico formalmente “volontario”, ma in realtà sotto il ricatto di un TSO.
Ora, mi chiedo, è mai possibile che una persona con il suo livello culturale, con un così alto grado di consapevolezza (esistenziale, politica…) derivata dall’esperienza vissuta, non certo dagli studi accademici (anche se la sua preparazione letteraria era ottimale) sia stato trattato in tal modo?
Non so se – come ha scritto in questi giorni un intellettuale vicentino – Trevisan fosse veramente da considerarsi come il maggiore tra gli scrittori attuali della Penisola. Ma sicuramente è lecito interrogarsi in proposito. E uno così, su cui ora tutti spandono lacrime e tessono lodi, è stato rinchiuso come un pericoloso demente?
Non so. In questo momento mi vengono in mente altre persone (Majakóvskij Pavese, Debord, Paolo Finzi…) che hanno compiuto scelte estreme, analoghe forse a quella – almeno sembrerebbe – del Trevisan. Travolte forse dal disgusto per la mediocrità, la miseria spirituale di un mondo che incatena i dissidenti e imbavaglia i poeti (talvolta non solo metaforicamente) imbalsamandoli poi da morti.
Così come mi vengono in mente “Qualcuno volò sul nido del cuculo” e la tragedia (l’assassinio si può dire?) di Mastrogiovanni.
In fondo anche Vitaliano Trevisan era un soggetto scomodo, indigesto, non compatibile. Magari letto, apprezzato, recensito e premiato…ma comunque alla fine segregato e umiliato.
Niente di strano se uno come lui (un intellettuale, ma anche “uomo d’azione”) avesse deciso di mandare il mondo, questo mondo, a fare in culo.
Gianni Sartori