8.11.78: le Fcc uccidono il procuratore Calvosa e la scorta
L’8 novembre 1978, a Patrica le Formazioni Comuniste Combattenti uccidono il procuratore di Frosinone Fedele Calvosa, l’autista e l’agente di scorta del magistrato. Nell’azione cade, colpito dai suoi compagni il militante irpino Roberto Capone. Ex militante di Potere Operaio, è un leader riconosciuto dei Collettivi autonomi irpini.
Nel tentativo di recuperare l’auto del commando è arrestato Paolo Ceriani Sebregondi, il leader riconosciuto del gruppo di fuoco meridionale. Padre economista e partigiano, la madre di origini nobili ma vicina alle ragioni del movimento. Dieci anni prima aveva militato nel movimento maoista “Servire il popolo” per poi approdare all’Autonomia operaia organizzata, e in particolare alla frazione che produceva il periodico “Rosso“.
Le sorti del commando, tra galera ed esilio
Due anni dopo Ceriani Sebregondi evade dal carcere di Parma. Lo arresteranno in Francia. Non sarà estradato grazie alla dottrina Mitterrand. Gli altri due compagni che partecipano all’attentato, Nicola Valentino e Maria Rosaria Biondi saranno invece condannati. Rispettivamente all’ergastolo e a 30 anni di carcere.
Li catturano dopo due mesi, in un covo br a Torino. Sono due studenti modello. Lei, figlia di preside, appena laureata in legge, ha 23 anni. Fidanzata di Capone, è alla guida dell’auto. Si farà tutta la galera senza mai chiedere benefici. Lui, figlio di pensionato, a 24 anni è laureando in medicina. La sua compagna, Maria Teresa Romeo, sarà arrestata a Napoli, dopo un agguato delle Br, contro un assessore regionale. Dopo 26 anni di carcere, Valentino esce e collabora con Renato Curcio al progetto editoriale di Sensibili alle Foglie.
Una breve storia delle FCC
Le Formazioni comuniste combattenti nascono nella crisi della rete militare dell’area di Rosso, lacerata dall’omicidio Custra e dalla sua gestione. Le FCC filiano dalle Brigate comuniste e si caratterizzano subito per una più marcata scelta della clandestinità, con forti analogie con le scelte strategiche di Prima Linea: la costruzione di un esercito proletario, inteso come rete di squadre combattenti territoriali in dialettica con una struttura centrale di direzione.
Tra l’estate del 1977 ed il novembre del 1978 le FCC si diffondono sul territorio nazionale in un intreccio i cui principali poli d’intervento sono Milano, Varese, Bologna al Nord e Roma e Avellino al Centro-Sud. Qui le Fcc sono costituite da una rete di operai soprattutto della FIAT di Cassino, da alcuni militanti delle disciolte Formazioni Comuniste Armate, da un gruppo di compagni irpini e dai Comitati Autonomi Operai dei Castelli romani.
I leader delle due aree sono Corrado Alunni e Paolo Ceriani Sebregondi. L’esperienza più matura si realizza alla Fiat di Cassino, dove fra il 1976 e il 1977, sono feriti due capi operai e sabotato una centrale elettrica che causa un black out totale di tre giorni.
Il primo omicidio a Cassino
Il 4 Gennaio 1978 è colpito il maggiore dei carabinieri in congedo e capo dei servizi di sicurezza della fabbrica, Carmine De Rosa. La rivendicazione è firmata Operai Armati per il Comunismo, sigla impiegata solo in questa occasione. Tra le altre usate rivestono una certa importanza le Squadre Proletarie Armate (o anche Squadre Armate Proletarie). Sono “organismi autonomi operanti nei comitati operai e nei quartieri con compiti locali di autoarmamento ed autofinanziamento”.
La sigla FCC appare per la prima volta il 18 gennaio 1978. Rivendica l’azione contro i carabinieri di guardia esterna al carcere speciale di Novara. Poi si sviluppa una fase di intensa collaborazione con Prima Linea.
L’alleanza fallita con Prima Linea
Il primo attacco della direzione unificata Pl-Fcc è un attentato il 31 gennaio a Bologna (dove spiccano le figure di Maurice Bignami e Barbara Azzeroni, provenienti da Potere operaio e da “Rosso”) contro l’abitazione dell’industriale Dante Menarini. La tregua autoproclamata nel sequestro Moro si volge in un’accelerazione militare.
A due gambizzazioni contro dirigenti di impresa, subito dopo l’esecuzione del presidente dc, ne seguono altre due. Una guardia di polizia, Roberto Demartini, a Torino, il 17 maggio e un capo officina dell’Alfa Sud, a Pomigliano d’Arco, il 22 giugno e un sabotaggio a un traliccio dell’Enel a Cassino, il 26 giugno. Alcune di queste azioni sono rivendicate con la sigla Squadre Armate Proletarie (SAP), altre congiuntamente dalle FCC e da PL.
Dopo l’estate del 1978 e lo scioglimento del comando unificato, anche le FCC si dividono e, dall’ala più sensibile alle tesi di PL, prendono vita i Reparti Comunisti d’Attacco. Il gruppo del Sud, responsabile dell’attacco contro Calvosa aveva invece avviato un confronto con le Brigate rosse
Chi è Paolo Ceriani Sebregondi
Figlio di Fulvia Dubini e Giorgio Ceriani Segrebondi, importante figura della resistenza milanese, laureato in fisica elettronica, insegna alla Sapienza di Roma quando, il 18 novembre 1978, è arrestato e gravemente ferito mentre cerca di recuperare l’auto utilizzata dal commando delle FCC per l’attentato di Patrica al Procuratore di Frosinone Calvosa.
Qualche giorno dopo compare su la Repubblica un’intervista di Carlo Rivolta a sua madre, che racconta che Paolo: «Era andato a stare a Vibo Valentia come un bracciante, scegliendo di vivere con 50.000 lire al mese per trovare così un’identità di classe diversa. Non era tra quelli che magari lottavano per il proletariato vivendo in case di lusso, non negandosi nulla di quello che la loro origine sociale gli aveva concesso».
Due condanne all’ergastolo
Condannato in primo grado a 10 anni per partecipazione a banda armata, in appello verrà condannato all’ergastolo sulla base delle dichiarazioni di Marco Barbone del quale il suo legale, avvocato Alberto Pisani, come si legge nell’articolo dell’Unità del 6 dicembre 1980, aveva detto alla Corte: «Il suo volto è pulito e sbarbato, ma le sue mani sono lorde di sangue». Verrà poi condannato a un secondo ergastolo per l’omicidio di Carmine De Rosa.
La fuga e la vita in Francia
Il 24 maggio 1980 evade dal carcere di Parma calandosi con una corda dalla finestra e l’Unità, riprende il gossip delle sue origini nobiliari, titola: “Dai salotti buoni al fiancheggiamento del terrorismo”, citando il fratello Stefano, a sua volta coinvolto nella vicenda della stampatrice trovata nella tipografia romana delle BR di Via Foà.
Nel maggio del 1987 è arrestato a Parigi insieme alla compagna Paola De Luca e a Vincenzo Olivieri, ma l’anno dopo la Corte francese negherà all’Italia l’estradizione perché la condanna (omicidio a scopo di terrorismo) riguarda u reato che non esiste nel codice penale francese. In una nota del 9 febbraio 1994 il capo della polizia Vincenzo Parisi segnala al Ministro Nicola Mancino l’esistenza di una «cellula per la costituzione del partito comunista combattente organizzata dal circuito clandestino francese» e tra i nominativi di “soggetti pericolosi” si indicano quelli di Paolo Ceriani Segrebondi e Paola De Luca.
FONTE: Davide Steccanella/Gli anni della lotta armata
Gli anni di piombo ad Avellino
Nonostante l’ostentata aura di decoro borghese, però, Avellino si è ritrovata, un paio d’anni prima di quel 1980, addirittura al centro delle cronache del terrorismo. Alle 8.45 dell’8 novembre 1978 a Patrica, provincia di Frosinone, un commando delle Formazioni comuniste combattenti su una Fiat beige affianca la 128 di servizio del procuratore della Repubblica di Frosinone, Fedele Calvosa.
Alle origini della strage
Il magistrato ha cinquantanove anni ed è originario di Castrovillari; qualche giorno prima emette un mandato di comparizione nei confronti di diciannove operai di una fabbrica tessile della zona accusati di violenza privata. Forse non immagina di aver firmato così la sua condanna a morte. Il 4 gennaio un commando delle Formazioni ha già ucciso Carmine De Rosa, maggiore dei carabinieri in congedo e capo dei servizi di sicurezza alla Fiat di Cassino. Il 16 marzo c’è l’agguato di via Fani, il rapimento di Aldo Moro e l’assassinio degli uomini della scorta, il simbolo di sangue di un anno che si sarebbe chiuso con un bilancio agghiacciante: 38 morti, 44 feriti, 781 agguati, 1862 attentati.
I colpi di mitra raggiungono per primo l’autista del magistrato, Luciano Rossi, 24 anni. L’agente Giuseppe Pagliei, 29 anni, non riesce nemmeno a estrarre la pistola ed è annientato. Fedele Calvosa cade sotto la scarica successiva. Sul parabrezza dell’auto la decalcomania “Gesù proteggimi”. Sul terreno vengono contati ventuno bossoli.
I componenti del commando
Uno – per fuoco amico, è la versione accreditata, mentre le Formazioni sostengono che si tratta della risposta di una delle persone della scorta – colpisce a morte anche un componente del gruppo di terroristi. Roberto Capone, ventiquattro anni, avellinese, studente di Sociologia all’università di Salerno. L’identità è dedotta dai documenti nel portafoglio. Il suo corpo è abbandonato dai compagni in una strada poco lontano. Da Paolo Ceriani Sebregondi, responsabile anche dell’uccisione di Carmine De Rosa. Proviene da una famiglia dell’alta borghesia cattolica romana, in seguito sarà ferito e catturato in uno scontro presso Latina. Da Nicola Valentino, 24 anni, studente di Medicina. Da Rosaria Biondi, ventitré anni, studentessa di Giurisprudenza. Valentino e Biondi di Avellino, come Capone. Insospettabili, facce pulite, ragazzi che si possono incontrare per strada e con cui scambiare quattro chiacchiere. Militanti dell’extrasinistra ma non oltre.
Le piccole violenze autonome
Roberto Capone era stato fermato dalla polizia per aver protestato in occasione di una manifestazione organizzata dalla Dc locale per commemorare il commissario Luigi Calabresi. Vero che dal 1975 al 1977 in città si registrano attentati con bombe incendiarie. Verso la sede democristiana, la questura, l’Unione industriali e contro i magazzini Standa, uomini delle forze dell’ordine e sindacalisti subiscono intimidazioni.
Un giovane militante di Autonomia operaia è bloccato per essersi vantato dell’incendio dell’auto di uno di loro. Però poi viene assolto e lo stesso pubblico ministero derubrica la sua vanteria a sbruffoneria da provincia. Per altro, le indagini scattate dopo via Fani toccano pure l’Irpinia e riguardano esponenti del locale Potere operaio. Ma nessuno neanche lontanamente pensa che la quieta e assonnata Avellino possa aver partorito un gruppo di terroristi.
Un irpino nelle Brigate Rosse
Un avellinese nelle Brigate rosse c’era già. Alfredo Bonavita, nato ad Avellino nel 1948 da una famiglia che lui stesso definisce poverissima, emigrato nel 1964 a Borgomanero e lì nel novarese operaio elettrotecnico, già iscritto alla Cgil e al Pci, si dimette nel 1969 dopo aver stabilito un contatto con Giangiacomo Feltrinelli ed entra a far parte del nucleo fondativo e della colonna torinese delle Br assieme a Renato Curcio, Mara Cagol, Maurizio Ferrari e Fabrizio Pelli.
Dal 1971 è in clandestinità, partecipa ai sequestri di Ettore Amerio, dirigente Fiat, di Bruno Labate, sindacalista della Cisnal, e del giudice Mario Sossi. Dall’ottobre 1974 è nel comitato esecutivo dell’organizzazione e a novembre viene arrestato mentre ruba un auto in compagnia di Prospero Gallinari. Processato, non avendo mai ucciso o sparato è condannato a 11 anni di carcere che sconta senza godere di alcun beneficio di legge. In galera è il primo dissociato nella storia delle Br.
Il 14 giugno 1981 “L’Espresso” ha in copertina una sposa con il velo in testa a seno nudo. Il titolone è Sposarsi è meglio. Nuove mode: il matrimonio. All’interno compare la lettera aperta che Bonavita ha consegnato ai giudici di Roma: “Caro Curcio, io mi arrendo. Arrenditi anche tu”. Contiene una profonda autocritica e costituisce un segnale importante specie quando afferma: “È da vigliacchi continuare a tenere per se stessi i propri dubbi, esorto quindi i compagni a dissociarsi e condannare pubblicamente questa pratica e a fare di tutto per evitare altri lutti, altre ‘sentenze’, altre inesattezze”.
“Roberto vive nei nostri cuori”
Qualche giorno dopo i fatti di Patrica, sui muri che circondano la Villa comunale di Avellino compare la scritta “Roberto vive nei nostri cuori”.
“Erano ragazzi che tutti consideravano di buone, anzi di ottime famiglie. Camminavano tranquilli per il Corso fino alla domenica precedente. Ma all’improvviso hanno sparato, ucciso in nome di ideologie folli, di progetti farneticanti, sanguinari. È stata una frustata per tutti. Non serve dire che è successo altrove, che noi non c’entriamo. Non è così. Forse altri ragazzi si apprestano a percorrere la stessa strada. Forse non è finita qui” scrive Franco Festa, nel suo romanzo noir Il respiro del male del 2012.
Patrica, la morte di Roberto Capone, il gruppo di fuoco con Nicola Valentino e Rosaria Biondi mostrano che gli anni di piombo non hanno periferie lontane. Tutto può avvenire ovunque. Avellino non è l’oasi di niente.
Gli arresti di Rosaria e Nicola
Rosaria Biondi e Nicola Valentino vengono arrestati il 29 gennaio 1979 a Torino. La Corte di Assise dell’Aquila li condanna all’ergastolo. Le udienze sono particolarmente tese. Come tutte quelle dei processi per terrorismo in quel periodo. Il loro atteggiamento in tribunale appare di chiusura netta e rigida, di freddezza spietata. Quando si celebra l’appello, nell’autunno 1980, Valentino grida a Patrizio Peci, chiamato a testimoniare, parole terribili: “Ti ricordi quando tuo padre scannò un dobermann? Ti faremo fare la stessa fine”. Da parte sua, Biondi rincara: “Creperai come un cane, carogna, bastardo”.
“È colpa dei padri. Non abbiamo fatto nulla per migliorare questa società. Siamo stati capaci soltanto di parole. E le parole ai ragazzi non bastano” è il tormento di Ferruccio Capone, il padre di Roberto. I genitori di Rosaria Biondi chiedono increduli una perizia psichiatrica per la figlia. Non la riconoscono in quelle vesti. Il padre di Nicola Valentino continua a ripetersi: “In che cosa ho sbagliato?”.
L’attentato a Pino Amato
Nel giugno 1979 il giovane sposa in carcere la sua compagna, Maria Teresa Romeo. Avellinese, venticinque anni, insospettabile e non sottoposta ad alcuna sorveglianza particolare dopo l’assalto al giudice Fedele Calvosa. Il suo nome balza in primissimo piano il 19 maggio 1980. A Napoli, nel centralissimo vico II Alabardieri, alle 9.40. La Fiat 131 blindata su cui viaggia l’assessore regionale al Bilancio, il quarantanovenne Pino Amato, democristiano e stretto collaboratore del ministro Vincenzo Scotti, è presa d’assalto. Amato muore subito.
Il suo autista, Ciro Esposito, risponde al fuoco colpendo uno dei terroristi. Si tratta del romano Bruno Seghetti, l’uomo che guidava la vettura su cui venne caricato Aldo Moro il 16 marzo 1978 dopo la strage di via Fani. Seghetti riesce a fuggire con gli altri tre del commando: il napoletano Salvatore Colonna, il torinese Luca Nicolotti e l’avellinese Maria Teresa Romeo. Compongono la colonna “Fabrizio Pelli” delle Brigate Rosse, si apprende dalla rivendicazione.
La polizia intercetta il gruppo per le strade di Napoli e la corsa si conclude a Santa Lucia, alle spalle del palazzo della Regione. Seghetti, Colonna, Nicolotti e Romeo si arrendono: “Siamo militanti delle Brigate Rosse, ci dichiariamo prigionieri politici”. È il primo commando brigatista catturato durante un’azione e costituisce anche la prova dell’avvenuta confluenza nelle Br di altre formazioni.
Le condanne, l’espiazione delle pene
Romeo viene condannata all’ergastolo e durante il processo, iniziato il 23 giugno 1980, rifiuta di deporre. La condanna, per l’intero commando, trova conferma in appello e Cassazione. Irriducibile come Rosaria Biondi e Nicola Valentino, coinvolta anche nel procedimento contro la colonna napoletana delle Br – dove ha un ruolo un altro irpino, Antonio Chiocchi, poi dissociatosi –, Maria Teresa Romeo non si difende mai. Con Nicola Valentino il matrimonio si esaurisce.
Lui entra nella cooperativa “Sensibili alle foglie” fondata da Renato Curcio. Usufruendo dei benefici di pena previsti per gli ex terroristi, dà forma alla sua creatività d’artista partecipando in semilibertà a mostre che si svolgono pure ad Avellino, nella palazzina Victor Hugo, a metà anni ’90.
L’iter della pena, evidentemente attenuata, si conclude anche per Rosaria Biondi e Maria Teresa Romeo. Fanno altro, lavoro sociale, con una chiusura netta su quel passato. È memoria intima e ancora dolente. Ad Avellino, da tempo, non c’è più chi si interroghi sul perché delle loro scelte.
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