Considerazioni sul postcomunismo: una resa dei conti di trent’anni fa

Oggi Oreste Scalzone compie 74 anni. E, come è ormai buona abitudine, tiriamo fuori dal cascione vecchi testi di stretta attualità. Questo è giusto di 30 anni, per gli espliciti riferimenti al dibattito post-Bolognina e la grazia a Curcio. Ritrova una sua freschezza viste le tante chiacchiere che il centenario del Pci ha suscitato. Il testo pubblicato era un capitolo di Dies Irae, il primo dei libri incompiuti a cui abbiamo lavorato, lungo l’arco di un ventennio, fermandoci spesso sul rettilineo d’arrivo. A ogni modo, alla fine ci siamo riusciti, con Vademecum, che potrete scaricare dal link in fondo al lungo post

Ci sembra francamente indecente la pretesa di guadagnarsi la vita mettendo in scena – andata in bancarotta la compagnia degli “uomini supposti sapere” – una versione casareccia della lotta titanica contro il Tempo e il Destino in nome della fedeltà alla tradizione.

Coniugare cascami -maldicenti perché‚ ostici – di Nietzsche, Heidegger, Severino, Mircea Eliade o semplicemente dell’ultimo stracciaculo del “pensiero debole” con i calcoli elettoralistici, i remake delle feste de “L’Unità”, il culto di Berlinguer e lo spleen del “carrismo”, è operazione assai improbabile. Non fosse altro perché – Bignami per Bignami – il restyling riesce meglio ad anziane signorine da arsenico e vecchi merletti, e a signori con il monocolo alla De Lorenzo.

Invece di coltivare stati d’animo da canzone di Battisti (“In un mondo che non ci vuole più…”) e preparar giornali nello stato d’animo dei redattori della “Voce della fogna” – senza averne la struttura culturale jungheriana – se proprio vogliono ricominciare a far politica – dovrebbero utilmente leggere Carl Schmitt.

Mettono in scena la rivolta contro il senso mondo moderno ma non hanno il rigore tradizionalista di Freda. Sono vecchi marpioni progressisti e non possono pretendere credito da chi, come noi, stava dalla parte dei rivoluziona ri sterminati dallo stalinismo. Anche con la variante più estrema e paradossale delle vittime dello stalinismo, quei brigatisti stalinisti immaginari che sono giunti ad ammazzare Guido Rossa, credendo di incarnare stalinisticamente il principio del rigore rivoluzionario che era invece consustanziale alla delazione organizzata sistematicamente dal Pci. E non venga oggi Pecchioli a fare la semivergine. Se non bastasse Mastelloni, lo conferma Bocca.

Ora dovremmo commuoverci per il senatore Cossutta. Ricordate: fu il primo nel ’73 a dire che bisognava creare un clima rovente attorno agli estremisti. Per decenni ha pensato di schiacciarci con la sua pancia da cardinale stalinista. Oggi esibisce i suoi mal di pancia e noi dovremmo star li ad applaudire. Non possiamo – nè vogliamo – restituirgli la pariglia e tanto meno fare che ci avrebbe fatto se dall’anticamera fosse passato nella stanza dei bottoni. Ci basta che capisca, che si
ritiri a vita privata, che stia zitto. Ha accumulato prebende e privilegi sociali per cantare “Ecco s’avanza uno strano soldato” adesso pretende di intonare – sempre a gettone – “Piange il telefono”.

Più tenace – nell’infamia – il suo compagno Libertini. Ha ancora – mentre si tinge i capelli di rosso per riesumare i giovanili furori rivoluzionari che lo indussero a lasciare i socialdemocratici per i socialisti – l’improntitudine di schierarsi con la più infame “emergenza”, opponendosi demenzialmente alla grazia a Curcio e alla “soluzione politica” perché “bisogna far luce sui misteri del terrorismo”. Dovremmo accettare la logica sublime del contrappasso e abbandonarlo al nulla che è. Il silenzio si addice ai miserabili.

L’esorcismo, l'”esportazione del lutto” in luogo del ragionamento hanno gi costituito il “grado zero” dell’intelligenza critica e causato i guasti che sappiamo. E questo sciagurato vorrebbe ricominciare col “chi li paga?”. Almeno il cardinale Cossutta è l’epigono di quello “stalinismo operaio” che ha costituito un tragico malinteso, ma che aveva radici reali – purtroppo – nella Stalingrado d’Italia, nei Peppino Alberganti.

Costui, invece, dopo aver girovagato in tutte le parrocchie della sinistra non rivoluzionaria e aver avuto “divagazioni trotzkisteggianti” cosa che fa escludere che “non sapesse”, si arruolò nei “carristi” e fu tra quanti – dando l’ostracismo a Lelio Basso – fecero del PSIUP una centrale della mistificazione. Un partito che faceva la sirena per i giovani ‘gauchisti’ ma viveva come puro apparato burocratico finanziato direttamente del PCUS e dalla fetta di tangenti sull’import\export con l’Est.

Ora empiamente parla di “responsabilità intellettuale” ma il “terrore” di cui accusa Curcio di essere stato complice è una bazzecola rispetto a ciò di cui è stato complice lui. E non certo per inconsapevolezza e passione – come tanti comunisti – ma – dato che a corrente alternata è
stato anche intelligente, e sempre attento al suo utile politico, – “a scopo di lucro”. Perchè l’interesse privato è anche quello di soddisfare – sul terreno dell’economia politica del narcisismo e del potere – le smanie da “piccolo padre”.

Ma c’è una cosa molto semplice che possono fare per riprendere diritto di parola nei movimenti. La smettessero di fare le carogne, con la paranoia stalinista sulla necessità di far luce sui complotti che sarebbero stati dietro alla lotta armata in Italia. Non si limitassero a firmare gli appelli per un carcere riformato ma si battessero per la scarcerazione non solo di Curcio ma di tutti i prigionieri politici. E se continuano a parlare di responsabilità morale peggio per loro. Cominceremo a chiedergli conto di tutto il sangue che hanno sulle mani per i silenzi e le complicità. Osceni questi signori. Come è -del resto- osceno il ceto degli intellettuali organici. Organici nel senso della composizione chimica.

Di queste canaglie – diceva Marx – tra prostitute e pappa è pieno il mondo. Molto spesso sono nullafacenti che invece di dedicarsi ai mestieri della gente normale – non avendo né arte né parte – hanno pensato di orientarsi verso una forma di prossenetismo sociale e pretendono ancora oggi che gli venga foraggiata questa scelta di vita.

Una compagnia che non ha la dignità di dire: adesso basta, abbiamo rappresentato così male i lavoratori – e a loro spese – sciogliamo la ditta e andiamo in pensione. No, vogliono ancora lo stipendio, ma per rappresentare la signorina Felicita con rosolio e pasticcini.

Per una volta saremo noi a citare Togliatti: “Via i pagliacci dal terreno della lotta”. Frase brutta ma efficace. Con la perentorietà dei simboli, la verit su questi “commessi viaggiatori” del carrismo e del cekismo che difendono a denti stretti la rendita di posizione di un simbolo che ha cristallizzato più di mezzo secolo di speranze tradite, la dice la raccolta alla rinfusa dei loro “Lari e Penati”.

Nella scissione berlingueriana tra conservatore e rivoluzionario c’è, come ‘fondo’ primordiale, il riflesso della doppiezza fra “uomo d’ordine” e “sovversivo” che ha marcato la costituzione soggettiva dell’ homo communisticus lungo tutta la prima metà del secolo, trovando la sua provvisoria sintesi nella filosofia della rivoluzione come stato d’eccezione.

Nella successiva versione togliattiana, nella pratica del patto costituzionale e della democrazia consociativa coerentemente tirata al limite i due poli della scissione e della “doppiezza” si riformulano e si dislocano: da un lato c’è una traccia della forma “rivoluzionaria” dell’ emergenzialismo decisionista – che ne rinverdisce logica, immaginario, simboli: lavoristi, autoritari, statalisti, “militaristi”; dall’altro lato c’è l’integrazione diretta – in posizione subalterna – agli interessi del blocco sociale dominante.

Chiedono che le responsabilità intellettuali siano pagate. Le hanno pagate tutti, pretendono di farle pagare a Curcio più dei 17 anni di galera che si è fatti e poi non avvertono il dovere di levare il disturbo e mettersi a scrivere libri di memorie.

La contraddizione del politico è che in teoria parla degli affari di tutti e invece è gestito con saperi e linguaggi separati. La rappresentanza – ci ha insegnato Spirito – è parte di questa contraddizione: lo accettiamo ma almeno applichiamo un minimo di moralizzazione. Se c’è una cosa che è ormai chiaramente sciolta è l’equivoco dall’espressione ‘politica rivoluzionaria’. E bisogna trarne delle conseguenze immediate sul piano del costume e del dibattito politico quotidiano.

Se sul piano delle libertà democratiche la doppiezza del Pci consisteva nel bifronte Togliatti-Secchia, nell’analisi dei gruppi sociali si manifestava, rispetto ai lavoratori, nel fatto che i suoi dirigenti erano omologhi agli altri funzionari di partito mentre capitalizzavano la speranza di liberazione di milioni di donne e di uomini.

Ormai non si può più riprodurre questo malcostume. E non è lecito che lo faccia nemmeno l’ultimo gruppuscolo minoritario.

Il problema è che se il Comunismo – quello dell’ormai abusata frase di Marx, ‘Chiamiamo comunismo il movimento reale…’ – viene difeso da personaggi simili, e li mettiamo tutti nello stesso mazzo, beh, allora tanto vale darlo per morto e sepolto. Se non ci fossero i pupazzetti di Rifondazione comunista quelli che vogliono seppellire anche la virtualità del comunismo nel museo degli orrori dovrebbero inventarli.

Se il comunismo rivoluzionario non come velleità e speranza patetica ma come virtualità da far vivere nel ventaglio dei futuri possibili ha una speranza, questa consiste nel recidere qualsiasi cordone ombelicale dal cadavere putrescente del comunismo politico, in tutte le sue manifestazioni e articolazioni.

Noi che abbiamo subito i loro cingoli nella nostra carne non ci faremo cogliere dalla vertigine cavalleresca per la semplice ragione che alcune cose le dicevamo quando non solo il Pci ma il 90% della sinistra extraparlamentare era in diversi gradi nazionalpopolare e stalinista e si dislocava rispetto alle diverse parrocchie statali e ai diversi Caudilli del comunismo politico.

Nulla oggi ci impedirà di dare in testa non già agli stalinisti immaginari, ai proletari, a quelli che hanno creduto che lo stalinismo si identificasse con la rivoluzione ma a quelli che di questo hanno campato.

Ce l’hanno detto per tanti anni, ora glielo diciamo noi: chi vi ha pagato in tutti questi anni? a chi giovano le vostre ciance maleodoranti? E anche i meno indegni tra loro dovrebbero abbassare la superbia. Sì, anche gli Ingrao di buona coscienza. Perché‚ essere uomini per tutte le stagioni ha un limite. Il poeta ora contesta “che il regime prevalso in URSS sia mai stato comunista” – (né Stalin, né Breznev del resto lo hanno mai sostenuto) – “Il comunismo della Luxemburg era altro” – dice – “quello di Gramsci anche…”.

Possiamo resistere alla tentazione del sarcasmo sui tempi della politica, non dell’elogio della memoria. Forza Ingrao, esercitala con buona coscienza. Parlaci di Karl Korsch e di Bordiga, di Ante Ciliga e di Eugenio Rizzi (e pure di Silone…), di Trezzo e Ravazzoli, di tutti i comunisti e i rivoluzionari annientati o ammazzati dai cominternisti. Parlaci di Acquaviva – ‘giustiziato’ dai cominformisti togliattiani – per aver detto le stesse cose.

Dicci, compagno, dicci – niente paura, non siamo a Mosca nel 1937, solo una parodia del tribunale dei luminosi giorni futuri, perché‚ in fondo siamo convinti che il futuro è buio e freddo, e profondo come il mare – cosa pensi di quegli “opportunisti di sinistra”, di quegli “oppositori di sinistra”: quando hai conosciuto il loro destino, spezzato tra una canna nera di pistola premuta sulla nuca e la sepoltura nella pattumiera della storia sotto le calunnie più infami?

Non ti mettiamo in conto Machno e Durruti, e soprattutto i marinai di Kronstadt – “Chi ha ucciso più comunisti? i comunisti, ovviamente” diceva il tuo compagno Pajetta – ma dovrai pur deciderti a ricordare che qualcuno l’aveva detto. Allora eri un ragazzino ma è possibile che nessuno ti abbia spiegato che al plenum dell’Internazionale nel 1926, l’ingegnere Bordiga aveva detto in faccia a Stalin cose tali sulla struttura economica e sociale della Russia del socialismo in un solo paese, che avevano provocato come unica risposta “che Dio vi perdoni”? A questo è arrivata la sistematica opera di rimozione e di cancellazione dalla storia del vostro partito del suo primo segretario?

Uno non se la può cavare sempre scoprendo che “l’auto critica è cosa da preti”. Lukacs non la pensava così quando nelle riunioni di cellula a Mosca faceva l’elogio – e scatenava – la purga. La poesia è troppo e troppo poco, ci vuole un segno concreto della disponibilità ad una ricerca senza rete, per non lasciare il sospetto di voler fare oggi gli esteti del controcorrente – pretendendo il monopolio della nuova estetica – con le stesse modalit con cui si schiacciavano i “pidocchi” sotto il peso dell’infinita sapienza del puer forte et malitiosus, delle certezze derivanti dalla riuscita dell’esperimento, e dalla variante italiana, orgogliosa dei suoi Concetto Marchesi, e dunque abbigliata nella forma di ragionevole ideologia, della ragion di Stato staliniana.

Oggi riscoprono due splendide frasi di Marx. La prima è quella che definisce la “comunità umana” come la forma in cui “il libero sviluppo di ognuno è condizione e manifestazione del libero sviluppo di tutti” – frase che le vulgate marxiste hanno sempre contraffatto, arrovesciando i termini tra “tutti” e “ciascuno”.

La seconda è quella ormai celebre scritta mille volte nelle testate dei nostri giornali (da Quaderni Rossi a Classe Operaia a Potere Operaio e poi nei successivi fogli più o meno samiszdat): “Il comunismo non è un regime, uno stato di cose da instaurare. Chiamiamo comunismo il movimento reale che distrugge e oltrepassa lo stato presente delle cose…”.

Per questa frase scambiata per una provocazione spontaneista i nostri compagni hanno preso le sprangate dei traumatologhi delle squadracce – diciannoviste e staliniste assieme – di quelli che “Stalin-Beria-Ghepeù”, agli ordini dei Capanna e dei Cafiero con i quali gli onorevoli Magri e Castellina hanno diretto partiti, scissioni e confluenze.

Bisognerà pure dare un segno di trasparenza, e togliere dall’indice i Tronti, i Negri, i Cacciari, i Piperno o gli Scalzone di quegli anni e di quelle anticipazioni. O si continua con la solita puzza sotto il naso?.

A questa schiera di piccoli intellettuali malformati e mal riusciti bisogna contestare anche il diritto di parola. Parlino, ma a loro spese, e per sé, senza arrogarsi la rappresentanza degli interessi dei lavoratori. Noi non ci sentiamo né vedovi né orfani. Siamo anzi più liberi e abbiamo voglia di ricominciare 30 anni dopo 20 anni dopo.

E’ andata così. Dominato dalla necessità – che si è materializzata nella sconfitta della rivoluzione in Germania e in Europa – il tentativo di Lenin di riannodare il filo rosso del progetto rivoluzionario di Marx riempiendo la parte non costruita del suo cantiere con una teoria politica è finito come è finito. Ma siamo ancora oggi d’accordo con Tronti: non avremo mai abbastanza disprezzo civile per chi considera Marx e Lenin dei cani morti e rimprovera al primo di aver cercato la rivoluzione in ogni angolo e al secondo di averla perseguita nel luogo e nel momento sbagliato. Eppure si tratta di rivendicare una assoluta libertà della ricerca sulle tare e le aporie che – avendo già addentellati in alcune cadute hegeliane o darwiniste dello stesso Marx – hanno segnato tutto l’edificio dei marxismi politici.

Partiamo da quello che consideriamo un imbroglio volontario, il concetto della dittatura della libertà applicato al giacobinismo. Pensiamo che Marx ed anche Lenin parlando di dittatura del proletariato non avessero in mente una teoria illiberale dell’autocrazia o del totalitarismo. Semplicemente tendevano a sottolineare l’aspetto di dittatura del capitale che c’era dietro le forme politiche del dominio borghese.

Tendevano a dire che dietro le forme le più diverse c’era la detenzione della totalità del potere della decisione, e quindi, come c’era una dittatura capitalistico-borghese dietro le forme del liberalismo così nella transizione il proletariato, la classe operaia avrebbe dovuto esprimere le forme della sua dittatura. Non c’è necessariamente una teoria dell’autocrazia, proprio perché‚ viene chiamata dittatura borghese anche quella che si esercita in forme liberali o democratiche.

La matrice risiede in tre questioni. La prima è il problema del rapporto libertà reali – libertà formali. Se non si costituisce un processo ampio, sociale nella lunga durata e capace di estendersi a livello transnazionale e virtualmente mondiale di un modo di produzione e di socializzazione che esca dalla regole dell’economia e contenga elementi di superamento di quella dimensione umana utilitaristica – a cui le teorie economiche del capitalismo danno risposta – se non si sperimenta la possibilità di uno scarto ma si comincia dall’abolire la complessa architettura delle garanzie delle libert si mette certamente mano ad un salto nel buio.

Se non c’è un enorme laboratorio teorico e sociale di sperimentazione alternativa si finisce per restringere le condizioni del passaggio alla presa del potere da parte di una macchina partitica e costringendo il discorso rivoluzionario dentro la strettoia di un’idea cospirativa, da colpo di stato.

E siamo già alla seconda obiezione, al rifiuto dell’emergenzialismo e della teorizzazione dello stato di eccezione che da questo punto di vista è un discorso obbligato ed è un vicolo cieco.

Così come l’ecocrisi ha evidenziato i limiti del produttivismo del movimento operaio e l’ecologismo ne ha sviluppato la critica pratica l’emergere di questo riduzionismo politico – già prima delle macerie attuali – è stato messo a fuoco dal femminismo.

La strettoia politica dell’idea di rivoluzione era tale da imporre una paradossale tematica dei due tempi che finiva per rinviare al domani le trasformazioni radicali dei rapporti sociali che invece si ponevano con urgenza immediata e molecolare. E in questa radicalità la variabile del femminismo – al di là dei suoi contenuti e dei suoi soggetti – ha lasciato una traccia estremamente interessante.

Il terzo nodo è il concetto di classe. Ora molti si esercitano – con grande volgarit – a liquidare con Lenin e Marx anche la lotta di classe. E’ chiaro che quando si critica l’ideologia della lotta di classe nei paesi del socialismo reale si intende criticare quella perversione stalinista che era la teoria dell’accentuarsi della lotta di classe – condotta dall’alto dallo Stato – in termini di purghe.

Il problema non è degli ignoranti che vorrebbero liquidare la lotta di classe. I fatti stessi si incaricheranno di smentirli. Il problema vero è che nello scientismo – già in parte presente nella mirabile meccanica razionale marxiana – che ha preso il sopravvento nell’edificio dei sistemi marxisti il concetto di classe è ontologizzato, se ne fa quasi una metafisica.

E’ evidente che il concetto di classe come quello di sesso o di nazionalità o di etnia è un’astrazione determinata. Le operazioni di concettualizzazione servono a comprendere e ad agire, ma qui si finisce nella volgarizzazione ideologica di pensare che le classi esistano a peso e che sia questo l’unico modo possibile: un delirio metafisico.
Certo, l’apparenza è materialistica ma sta al materialismo critico come lo scientismo sta alla scientificità. Uno degli elementi che questa perversione porta con sé‚ è l’estremo cinismo rispetto alla dimensione personale delle libertà individuali, che concorre poi a determinare la cultura statalista dell’annullamento dell’individuo.

Per ricordare

Un regalo: il pdf di Vademecum

Ugo Maria Tassinari è l'autore di questo blog, il fondatore di Fascinazione, di cinque volumi e di un dvd sulla destra radicale nonché di svariate altre produzioni intellettuali. Attualmente lavora come esperto di comunicazione pubblica dopo un lungo e onorevole esercizio della professione giornalistica e importanti esperienze di formazione sul giornalismo e la comunicazione multimediale

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