Moretti: Moro e io, due uomini nella prigione del popolo
La quarta puntata del “memoriale” Moretti (in realtà è la vecchia intervista autobiografica con Rossana Rossanda e Carla Mosca) sul sequestro Moro è incentrato sul rapporto umano che si crea tra il rapitore e l’ostaggio nelle lunghe ore quotidiane trascorse insieme a discutere di politica
Qual è la prima cosa che dici al prigioniero appena lo porti nel box?
La dice lui, quando vede la bandiera rossa con la stella a cinque punte sulla parete dietro il letto: «Ah, siete voi, lo immaginavo». La bandiera è un rituale obbligato: dobbiamo fargli una fotografia sul suo sfondo, da mandare ai giornali, come di consueto, con il primo comunicato.
E la prima cosa che gli dici tu?
Gli chiedo come sta. Vedo che non è ferito, ma devo sapere se ha qualche malattia che richiede cure particolari. È molto importante: un cardiopatico o un diabetico hanno bisogno di diete e di medicine indispensabili. Risponde che sta bene e di non soffrire di malattie particolari. Non ha superato lo shock, ma se è per questo siamo in due. Sono tra i più vecchi nelle azioni di combattimento, ma non mi sono abituato mai alla paura, né alla lacerazione di momenti come quello in via Fani. So che parlare di cose comuni aiuta a ritrovare la calma, gli chiedo che cosa mangia, risponde che mangia poca carne, qualche formaggio, molte verdure. I minestroni sono la costante della sua dieta, gli piacciono e lo accontentiamo senza difficoltà. Mangia con appetito, ma poco.
Mi chiede se ho trovato le sue medicine, in una delle due borse ce ne sono moltissime, gliene do con parsimonia, in realtà m’è parso che non ne avesse bisogno davvero, era un po’ una mania. Nella tasca del paltò ha una fiaschetta di whisky, gli chiedo come mai perché non ha davvero l’aria di un alcolizzato. Dice che gli serve per gli abbassamenti di pressione: ma non ne avrà mai bisogno, e non ne chiederà mai.
La verità è che fisicamente sta bene. Una volta ne parliamo e mi dice, sorridendo con ironia, che quella situazione gli fa bene alla salute: soffre di un disturbo agli occhi, la luce del giorno gli crea delle difficoltà, lì dentro può regolare l’intensità dell’illuminazione e, mi dice, non ha mai visto così bene come adesso. Chissà se c’era una metafora nelle sue parole.
Come provvede alla pulizia personale?
Quando occorre gli vengono portati dei catini.
Non ha mai camminato?
No. Si alza, si sgranchisce le gambe, ma non si è mai mosso da lì dentro. Non possiamo permettercelo e lui non lo chiede mai, capisce. Il poco che chiede gli viene dato. È un uomo davvero frugale. Segue gli orari che vuole, perché a parte i momenti in cui io c’ero e discutevamo non c’è nulla su cui si deve regolare: come ho detto, scrive molto.
L’interrogatorio, chiamiamolo così, quando è cominciato?
Non subito. Devo prima scrivere il comunicato e non ho ancora ripreso fiato, sono inzuppato di sudore, il cuore mi è schizzato su fino in gola. Avrei bisogno per un po’ di non pensare a niente: un’operazione come questa ti distrugge anche fisicamente, lo senti appena cade la tensione.
Lo scrivi lì?
Sì, non devo lasciarmi andare. Mi concentro sul volantino, i contenuti sono già stati discussi con il Comitato Esecutivo, la bozza l’ho in testa. Butto giù il testo, capisco che è un po’ raffazzonato, ma dobbiamo immediatamente rivendicare l’azione e caratterizzarla, altrimenti ci toccherà rincorrere le interpretazioni degli altri. Insomma scrivo il comunicato, non è granché, mi sento anche un po’ grottesco mentre lo stendo là in cucina, ma se in queste tragedie uno non riesce a ridimensionarsi perde il senso della realtà. Il comunicato lo passo a Morucci assieme alla foto di Moro e sullo sfondo la bandiera. Avevamo deciso che fosse Morucci a dare i comunicati alla stampa.
La forma l’hai improvvisata in quel momento?
È una regola tassativa: i comunicati sulle azioni si scrivono soltanto ad azione effettuata. Una volta a Milano la polizia ha trovato in una base la rivendicazione d’una azione che si doveva fare due giorni dopo: non solo è saltato tutto ma ci è toccato anche gestire un’azione non fatta. Da allora non abbiamo più scritto niente prima; naturalmente il contenuto è sempre concordato con l’Esecutivo. Su questo primo comunicato non c’è tanto da pensare: è la “campagna di primavera”, è l’operazione Moro, la più importante delle azioni armate che estenderemo in tutto il paese. L’Esecutivo è riunito in permanenza, per controllare e decidere il da farsi momento per momento.
Dove si riunisce? Quanti sono?
Giusto quelli che devono prendere le decisioni e comunicarle alle colonne e, in senso inverso, portare al centro il parere di tutti i compagni delle colonne. Quattro o cinque persone sono sempre bastate: in quel periodo siamo Azzolini, Micaletto, Bonisoli e io. L’operazione Moro è nota nei dettagli soltanto ai compagni che la realizzano – neanche all’intera colonna romana – oltre naturalmente all’Esecutivo.
La base per riunirci è messa a disposizione dal Comitato rivoluzionario della Toscana (si chiamano così le colonne non concentrate su una sola città). Si trova alla periferia di Firenze, facile da raggiungere dal Nord e dal Sud, a metà strada da tutto. Ma nel corso dei cinquantacinque giorni ci sposteremo a Rapallo. In Liguria siamo meglio organizzati e Rapallo è il più frequentato dei comuni rivieraschi anche d’inverno. Ci si può andare senza dare nell’occhio.
La prima volta vi siete riuniti a Firenze?
Sì. Abbiamo battuto lì il comunicato su una Ibm con la testina rotante, quella pallina – allora era una novità – che può essere applicata a tutte le macchine da scrivere di quella marca. Una scelta neanche tanto pensata, ma che si rivelerà importantissima. Infatti decidiamo una cosa pazza: ogni comunicato sarà diffuso contemporaneamente in ogni città in cui abbiamo una presenza, in modo da dare un’immagine di forza, mettendo in campo tutta l’organizzazione, neanche un compagno deve rimanere fuori. Sempre la stessa testina, sempre gli stessi caratteri, sempre le stesse modalità di diffusione per tutti e nove i comunicati.
Funziona così: io scrivo la bozza, l’Esecutivo rifinisce, vengono tirate quattro copie identiche, partono immediatamente e arrivano, praticamente nello stesso istante, a «Il Messaggero» di Roma, «La Stampa» di Torino, il «Corriere della Sera» a Milano, «Il Secolo XIX» a Genova. Può parere da matti, in uno scontro militare di quella portata. Ma diventa il nostro marchio di fabbrica, quello che dà autenticità a ogni comunicato, impossibile barare. E se i giornali decidessero un black-out, la propaganda ce la faremo da soli: il testo viene ripreso e ciclostilato dalle varie colonne, che lo distribuiscono in migliaia di copie tramite la rete d’appoggio che abbiamo in fabbrica e nei quartieri.
Non vi abbiamo mai rinunciato, neanche quando controllo e repressione sono pesantissimi. I giornali non hanno censurato i nostri comunicati – nella società moderna non è possibile – ma la mobilitazione che si determina nel far circolare un volantino clandestino è la ragione dell’esistenza del volantino. In questo modo conquistiamo nuovi compagni, verifichiamo se abbiamo appoggi e consensi o no.
Il comunicato n. 7 del 18 aprile, che dà Moro per morto e gettato nel lago della Duchessa, non ha questa distribuzione.
No, ovviamente, perché è falso. Basterebbe lo stile per accorgersene. Tutto di quel comunicato è falso. Non c’è da discutere tanto è palese, c’è da ragionare sul perché, con quella marea di esperti, nessuno sembri accorgersi che nel comunicato che sarebbe più drammatico, quello decisivo, non una virgola somigli ai comunicati Br, nulla nella diffusione ricordi i comunicati precedenti. Ma andiamo!
Il comunicato l’ha scritto Chichiarelli.
Un sacco di gente si è vantata di questa prodezza, ex anarchici, mestatori legati ai servizi, mitomani di ogni genere. Non so chi sia stato, non ha importanza. Importa che tutti sanno che è falso ma lo usano come se fosse autentico. La mistificazione permette una conclusione annunciata, quasi la sollecita: «Chiudiamo al più presto questa faccenda, seppelliamo un cadavere e non parliamone più». Quando Scalfari pubblica a nove colonne che Moro è stato ucciso, fa le prove generali sull’opinione di un epilogo che tutto l’establishment auspica. Così si preme anche su coloro che vorrebbero tentare strade diverse: nessuno ci si azzardi, tanto è così che va sicuramente a finire.
Hai scritto i comunicati sempre in via Montalcini?
Sì, oppure in treno mentre vado all’Esecutivo. Non sono grandi comunicati. Ci muoviamo con frenesia e ciascuno con troppe incombenze. E poi, per dirla fuori dai denti, molte cose mi si chiariscono soltanto parlando con Moro. Noi non conosciamo il potere, possiamo aver fatto delle analisi corrette sulla struttura della fabbrica e sullo stato, ma dei meccanismi del potere vero non sappiamo niente. Solo chi è dentro il gioco ne possiede le chiavi. È Moro che mi insegna un po’ a capire, mi parla in maniera esplicita, anche molto colloquiale, di quella che per lui diventa subito una battaglia con la Dc, e che alla fine perderà. Siamo su fronti opposti ma riusciamo a ragionare insieme su quel che succede, io gli fornisco delle informazioni, qualche giornale. Gli bastano pochi particolari, a volte una battuta, per capire. Conosce perfettamente quell’universo in agitazione.
Come ti si rivolge? Come ti chiama?
Non mi chiama. Una volta sono arrivato con mezza giornata di ritardo da Rapallo perché la riunione dell’Esecutivo s’era prolungata oltre il previsto, e aveva chiesto a Prospero come mai il suo «collega» non si era fatto vivo. All’inizio mi dà del lei, ma dopo qualche giorno mi dà spesso del tu. C’è un rapporto che si crea fra gli uomini anche nelle situazioni più incredibili.
Ti ha mai visto in faccia?
Mai. Quando entro nel box metto una specie di passamontagna, di cotone, leggero, ma fastidioso. Non solo perché il ruolo rimanga impersonale: chi parla sono le Br e basta. Ma anche per sicurezza: se alla fine lo avessimo liberato, era necessario che non potesse riconoscere nessuno. O mettevo un cappuccio io o dovevamo tenerlo bendato. È chiaro che mi incappuccio io.
Usi sempre il termine “conversazione”. Ma voi Moro lo avete processato, il processo lo avete sbandierato ai quattro venti, anche se non ne avete detto nulla in concreto.
Ma no, non è stato un processo, anche se scrivevamo così nei comunicati. Già allora quel linguaggio mi appariva tremendo. Rileggendoli a posteriori, mi sono chiesto non tanto come avevamo fatto a scriverli – non li rinnego, un senso lo avevano, eccome… Certo non ne ho conosciuto uno, di compagno, che sia entrato nelle Br perché conquistato dalla lettura di una Risoluzione strategica. Anche se poi se l’imparava magari a memoria. Ti ripeto, processo è una terminologia povera, forzata, una scimmiottatura del tribunale borghese. Non siamo mai stati capaci di fare un processo.
Ricordo quando abbiamo sequestrato Mincuzzi, un dirigente dell’Alfa Romeo che seguiva le trattative all’Intersind. Lo teniamo in un capannone fuori Milano, gli contestiamo le condizioni di lavoro, gli orari, i ritmi, i temi della lotta all’Alfa in quel momento. Sono accuse aspre, ma dopo cinque minuti ci troviamo a discutere: lui difende l’oggettività del meccanismo produttivo, contesta le nostre contestazioni.
Siamo su posizioni inconciliabili. Ma a un certo punto, lui, che ha gli occhi bendati e un naso gonfio così perché s’è beccato un pugno dibattendosi mentre lo facevamo salire sul furgone, mi fa: «Ma me lo spieghi perché non sei venuto a casa mia a discutere di queste cose?». Avrà anche avuto interesse a sdrammatizzare, però quella battuta conteneva una verità. Con Moro poi… ma che processo! La violenza sta nella situazione in cui si trova, è in certo modo oggettiva. Ma accusa e difesa si giocano sul piano storico, non c’è rituale che le possa rappresentare. Il resto è un parlare fra due uomini da sponde opposte, cerco di farmi capire, cerco di capire. Siamo dentro un conflitto terribile, mortale, l’esito dipende anche da quello che diciamo.
Come è stato il rapporto fra voi?
Non è semplice da spiegare. In situazioni come questa si creano rapporti né univoci né lineari. Fra noi era dominante la politica, ma eravamo anche due persone che stavano assieme per molte ore; e allora si opera una sorta di scissione, una schizofrenia fra il ruolo – lui il presidente della Dc e io il dirigente delle Br – e gli uomini che siamo, più complicati e meno riducibili in una definizione.
Davanti a me c’è un uomo abbandonato dai suoi, e che non sa darsene ragione. Ha uno spasmodico attaccamento per la famiglia, c’è un nipotino piccolo di cui si preoccupa molto a causa di una fragilità che vede nei genitori. Si sente responsabile di quel piccolo, lo ama moltissimo, ne parla in continuazione. E lo capisco, per forza; da qualche parte anch’io ho Marcello, l’ho lasciato che era appena capace di camminare, chissà come viene su, che cosa gli succede, ogni volta che ci penso sto male.
Non ci assomigliamo, Moro e io, ma so quel che gli passa dentro. E poi ho davanti un uomo che mi fa pietà, nel senso virgiliano della parola. E qualche volta anche un po’ rabbia, lo ammetto: ma insomma, sei il presidente della Dc, governi il paese da quando neanche andavo all’asilo, non puoi dire che “tieni famiglia” come uno qualunque. Sì, è un rapporto contraddittorio. C’è qualcosa che appartiene a entrambi, una dimensione di sofferenza – così diversi e nemici, riusciamo a provare simpatia uno per l’altro. Altrimenti non so cosa saremmo.
Naturalmente c’è la politica. A chiedergliene conto non sono io, ma le Brigate Rosse, gli muoviamo accuse durissime, non tocca a me essere indulgente e nemmeno potrei. Lui lo capisce, capisce presto che la nostra intransigenza si deve anche al muro che ci si oppone dall’altra parte. Capisce che siamo in una spirale che renderà ineluttabile il peggio, che siamo a un passaggio tragico nella vita del paese, e nessuno avrà la forza di evitarlo. Lo capisco anche io e anche a me fa paura. (4-continua)
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