Prima Linea, l’omicidio Lorusso e la “campagna carceri”

Omicidio Lorusso

L’agguato

Nell’inverno 1979 Torino è una città scossa da violenze diffuse. Nei primi due mesi dell’anno sono 36 gli attentati e gli attacchi dai più vari obiettivi: agenzie immobiliari, scuole, circoli di partito, sedi dei giornali, incendi, rapine e pestaggi, bombe contro tre caserme dei carabinieri. Alle 7.20 del 19 gennaio, nel quadro di un’intensa campagna carceri, Prima Linea uccide il secondino Giuseppe Lorusso, nel piccolo slargo all’incrocio tra via Biella e via Brindisi. L’omicidio Lorusso è il culmine della campagna carceri che la sede di Torino sviluppa in pochi mesi con uno straordinario dispiegamento di forze

Sotto la sua abitazione lo attende il gruppo di fuoco composto da Maurice Bignami, Bruno Laronga, Fabrizio Giai e Silveria Russo, tutti a bordo di una 128 rossa. Dieci proiettili raggiungono Lorusso alla testa, al braccio sinistro, al torace, all’addome e l’agente muore sul colpo.

Un incidente dannosissimo per le Br

Il giorno dopo, una pattuglia intercetta brigatisti rossi intenti a bruciare pile di documenti in un prato. Nel conflitto a fuoco restano feriti due agenti, Francesco Sanna e Angelo Calì. Un episodio minore ma che innescherà una catena di sconseguenze notevoli per le Br. Così la raccontano così, in Anni spietati, Caselli e Valentini:

Un falò sospetto in un prato

La sera del 20 gennaio 1979, poche ore dopo il funerale di Giuseppe Lorusso, si apprestano a bruciare un cumulo di carte in una zona erbosa di via Paolo Veronese. Fiamme sospette, in una città abituata a diffidare di tutto. La volante 9, in pattuglia per Madonna di Campagna, accosta a fianco del falò. Ne scendono il caposquadra Francesco Sanna, 42 anni, e l’agente Angelo Calì, 22. In macchina rimane l’autista, Modesto Monia di 24 anni. Calì chiede i documenti; i due li porgono, ma non appena l’agente fa un passo verso di loro, sparano. Sanna è colpito all’addome e si accascia a terra, Calì è ferito alla coscia destra. Monia interviene, spara, ma i due sono ormai lontani.
Minacciano una coppia di fidanzati e rubano loro la macchina. Spariti. Ma per poco. Il mistero di una simile reazione è nascosto tra la cenere: i due stavano bruciando volantini firmati Brigate rosse. E poi un errore fatale: nella foga della sparatoria, i due uomini hanno abbandonato i documenti; uno è autentico, intestato all’incensurato Vincenzo Acella, torinese di 28 anni. Il giorno dopo i carabinieri risalgono all’appartamento di via Venarla 72/6, un altro covo. L’uomo che scappa insieme ad Acella (che si scoprirà essere uomo di punta della colonna torinese delle Br, autore materiale, tra l’altro, degli omicidi Berardi e Cutugno) è Domenico Panciarelli [in realtà Piero, componente della direzione nazionale. Si trasferisce a Genova, dove sarà ucciso un anno dopo nel blitz di via Fracchia, ndb]. Acella ha i giorni contati. Sarà arrestato il 17 marzo in un bar di corso Grosseto, insieme a un compagno che in un primo momento i giornali liquidano come «uno di Milano». In realtà si tratta di Raffaele Fiore, capocolonna delle Brigate rosse di Torino, l’uomo che ha sparato in faccia a Carlo Casalegno. Ora il numero uno, a Torino, è Patrizio Peci.

La campagna continua

La campagna carceri di Prima Linea prosegue con due azzoppamenti. Il medico Grazio Romano, ferito dalle Squadre armate proletarie di combattimento e la vigilatrice delle Nuove, Raffaella Napolitano.

Lo scontro politico in Pl

Nell’organizzazione si è ormai sviluppata una forte dialettica interna tra i “movimentisti” (Donat Cattin e Solimano) e i “combattentisti” (Segio e Bignami). A Torino si esprime una terza tendenza intermedia che intende diffondere il combattimento in misura martellante.  Visto l’imminente processo al nucleo storico di Pl torinese (Galmozzi, Scavino, Borrelli) la “campagna” prescelta è l’attacco alle strutture carcerarie. “In un’ottica – spiega Tanturli – che non si fatica a definire resistenziale e comunque speculare rispetto allo sforzo repressivo della controparte. Nel dispiegamento concreto degli attentati, nella loro natura non centralizzata e pulviscolare, nella volontà di esercitare un immediato contropotere è viva l’eredità del modello originario di Pl; la letalità di alcune delle azioni e l’irriducibilità del conflitto certifica invece il nuovo terreno di scontro maturato durante tutto il 1978”.

La lite Donat Cattin – Laronga

Per Laronga «la campagna carceri resterà la sintesi più “riuscita” tra iniziativa di attacco centrale, combattimento territoriale e dibattito politico pubblico». Un giudizio tutt’altro che condiviso nel resto dell’organizzazione.  Donat Cattin ritiene una forzatura sbagliata privilegiare l’intervento sul carcere. In una riunione del comando nazionale svoltasi a Firenze dopo l’omicidio Alessandrini. Critica l’omicidio Lorusso, operazione azzardata, e litiga con Laronga. Donat Cattin ricorda che il documento di sette pagine su Alessandrini non menziona l’omicidio Lorusso. Perciò i “torinesi” si rifiutarono di diffonderlo. Laronga conferma l’esistenza di queste critiche rivendicando come

«Torino – spiega Laronga – verrà sempre più caratterizzandosi come sede “anomala” di Pl. Eretica rispetto alle indicazioni centrali. Incontrollabile e fuori dalle decisioni di un comando nazionale permanentemente in crisi. E ormai agonico dopo la rottura del rapporto con le Fcc. Ciascuna sede approfondisce aspetti particolari di un progetto che va differenziandosi di città in città. La teoria e la pratica dell’esercito di liberazione comunista non trova simpatia alcuna fuori da Torino. Il suo gruppo dirigente viene tacciato di “settarismo” e apertamente combattuto. Poiché si applica sul carcere in una città in cui il 73% della popolazione è legata alla grande madre Fiat».

La campagna carceri

La “campagna carceri” inizia con il ferimento dell’architetto Deorsola nell’ottobre 1978, anche se c’è già a fine ’77 un attentato al cantiere del nuovo carcere a Le Vallette. Ma si scatena all’inizio del ’79. L’obiettivo di intimidire il personale carcerario è raggiunto. Grazie alla «concentrazione di fuoco» realizzata. L’ omicidio Lorusso configura il definitivo salto verso una visione dell’omicidio politico ormai fisiologica e generalizzata. La voce proviene dal carcere. Detenuti lo indicano come componente di una “squadretta” di picchiatori. Pesa anche la facilità nella ricostruzione delle sue abitudini.

Anni dopo, Silveria Russo, addetta alla scelta degli obiettivi, nel memoriale di dissociazione traccerà un quadro diverso. Il nome di Lorusso «compariva insieme a quello di altri in vecchie schede in mio possesso, non so neppure risalenti a quando, con indirizzi e targhe d’auto. Nei controlli preliminari del materiale d’archivio, vedo la sua macchina posteggiata davanti alle Nuove. Una successiva verifica davanti alla sua abitazione conferma quello che volevo sapere. Così si sceglieva un “obiettivo” con poche informazioni neppure verificabili e con molta casualità». In  primo grado, invece, sia Russo sia Laronga sostennero che Lorusso era «notissimo per essere un componente della squadretta interna».

Le gambizzazioni

La campagna prosegue con i ferimenti ravvicinati del medico carcerario Grazio Romano (1 febbraio) e della vigilatrice Raffaella Napolitano (il 5). Nel primo caso si mette a rischio la vita del bersaglio, nel secondo spara un nucleo operativo di sole donne. Alle “torinesi” Russo e Azzaroni, si aggregano due militanti esperte di altre sedi: Ronconi da Napoli e Petrella da Firenze. Il testo postula «la fine del movimento femminista come movimento generico, ricco ma contraddittorio» e spiega come

il Gruppo di Fuoco composto di sole compagne, che ha colpito oggi, Raffaella Napolitano, è una scelta tattica con cui Prima linea ha inteso affrontare il problema per imporre nel movimento la discussione su di esso, per togliere le ambiguità che ancora persistono, per indicare una pratica corretta. Non c’è quindi nessun tentativo di fondare stereotipe “sezioni femminili” […], ma volontà politica di assumere anche questa contraddizione dentro un’ottica complessiva di potere, per ribaltarla in una logica di guerra e di attacco al comando nemico.

Gli altri attentati

La campagna si dispiega a tutto campo. È attaccata l’impresa edile “Navone” che opera al cantiere del nuovo carcere delle Vallette. Per imperizia delle membra gli esiti distruttivi sono superiori alle attese. Il 13 febbraio un gruppo di giovani irrompe e incendia gli uffici della ditta: il rogo incontrollato mette a rischio l’incolumità del figlio dell’impresario che, spaventato, abbandona i lavori.

Le ronde dedicano a uno stillicidio di piccoli attentati – in particolare danneggiamenti di auto – ai danni del personale carcerario. “Il fine – spiga Tanturli – di operazioni dalla semplice realizzazione e dai ridotti rischi è plurimo: irraggiare la minaccia di ritorsione nei confronti di una più vasta platea di agenti, mettere a frutto la disponibilità all’azione di gruppi di giovani del tutto inesperti, “gonfiare” le dimensioni dell’offensiva militare. Simili episodi sfuggono in gran parte alla stessa sanzione della magistratura ma vengono stimati in una ventina dalle testimonianze dei dirigenti di Pl”.

Il 19 febbraio Pl irrompe nei locali torinesi dell’agenzia pubblicitaria Manzoni per diffondere il bilancio dell’operazione. Si applaude l’effetto deterrente avuto su «l’atteggiamento del personale carcerario, che, quando non è tentativo di sottrarsi alla giustizia proletaria, è tendenza al favoritismo, è il frutto dell’offensiva rivoluzionaria scatenata contro di loro». Per il futuro sarà il «pieno appoggio delle sinistre» all’antiterrorismo a diventare l’obiettivo principe

Il processo al nucleo storico

Il giorno dopo si apre il processo ai militanti di Senza tregua (e di Pl) arrestati nella primavera 1977. Il documento esprime sostegno ai militanti detenuti ma fra le righe contiene annotazioni più sottili: «quella esperienza [Senza tregua] è stata superata dal salto di qualità che il movimento ha fatto». Ora occorre operare «all’interno della lotta proletaria una forzatura […] per l’assunzione di una dimensione politica complessiva, che alluda a una fase di guerra civile dispiegata». La diffusione del documento innesca nuove  polemiche fra le varie anime del gruppo, a partire dalla scelta degli imputati di partecipare al processo in forme conflittuali ma senza rivendicare apertamente l’appartenenza a Pl.

«I “torinesi” – spiega Donat Cattin – legavano il discorso sul carcere con la celebrazione del processo contro i compagni arrestati nel 1977 a Torino. Sul punto specifico ricordo che i “torinesi” spingevano perché di questo processo venisse fatta una gestione analoga al tipico processo di guerriglia delle Br».

No al processo guerriglia

Gli stessi imputati, fra cui erano compresi due dei componenti del primo comando nazionale e fondatori del gruppo (Galmozzi e Scavino), si fanno sentire con toni diversi, in un documento letto in aula all’inizio del processo. I detenuti non si applicano soltanto a rituali esercizi di critica della giustizia istituzionale e di analisi socio-economica. Ma sembrano mandare anche messaggi all’esterno. L’impianto concettuale ricalca quello delle origini di Pl. Allusione alla lotta armata e gusto del proclama si fermavano sempre un passo prima della rivendicazione esplicita

Una critica alle Br

La critica alle Br che pervade il documento può essere letta come un avvertimento mandato ai compagni liberi sulle forzature degli ultimi mesi:

la scelta ed il ricorso alle diverse forme di lotta […] non dipendono per noi da astratte scelte di principio. Ma […] dal grado di legittimazione che esse trovano nella coscienza e nella prassi di consistenti strati di massa. Noi ci siamo sempre e soltanto fondati su di una interpretazione rivoluzionaria degli sviluppi della lotta di massa […]. Mai, quindi, ad una interpretazione del ruolo soggettivo delle avanguardie come sostitutivo e con carattere di esemplarità nei confronti della lotta di massa. […] Per la rete dei quadri comunisti è fondamentale comprendere come il movimento di massa si sviluppa per linee interne. Con tempi e forme proprie rispetto alle quali a nessuno, spetta, per pura definizione, il ruolo di traduzione.

La tendenza dominante e la porta stretta

A conclusione del documento consolidate metafore contraddicono le tesi del ciclostilato di Pl che parlava apertamente di “guerra civile dispiegata”. I detenuti, pur confermando l’orizzonte programmatico e inevitabile della guerra civile di lunga durata, precisano:

Sia chiaro, perché non esistano equivoci. Non pensiamo che questa sia la situazione attuale, ma la tendenza dominante. La “porta stretta”, attraverso cui dovrà passare necessariamente chiunque (proletariato e borghesia) voglia risolvere a proprio favore lo scontro in atto. Ma ripetiamo ancora una volta che la guerra civile è un processo politico di massa. Mai una scelta soggettiva di una ristretta avanguardia.

Una sentenza garantista

È improbabile che i giudici sapessero cogliere le sottili discriminanti del discorso degli imputati. Eppure l’esito del processo fu sorprendente. Nonostante la consapevolezza diffusa che dietro “Senza tregua” si nascondesse Pl in formazione, e gli omicidi in serie attuati nel corso del giudizio. La Corte riterrà infondata l’accusa di banda armata e comminerà pene contenute.  Un colpo di coda di una giustizia garantista prima dell’avvento dell’emergenza terrorismo.

FONTE: Andrea Tanturli, La parabola di Prima linea. Violenza politica e lotta armata nella crisi italiana (1974-1979). Tesi di dottorato in Storia contemporanea, Università di Urbino

Ugo Maria Tassinari è l'autore di questo blog, il fondatore di Fascinazione, di cinque volumi e di un dvd sulla destra radicale nonché di svariate altre produzioni intellettuali. Attualmente lavora come esperto di comunicazione pubblica dopo un lungo e onorevole esercizio della professione giornalistica e importanti esperienze di formazione sul giornalismo e la comunicazione multimediale

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