6 aprile 1978: si spengono a Licola i primi fuochi della guerriglia meridionale

Del blitz di Licola che smantella Primi fuochi di guerriglia mi sono già occupato un paio di anni fa. Vi rimando quindi a quel post per la cronaca e la storia mentre oggi vi ripropongo il contributo di uno dei protagonisti di quella bella storia, Lanfranco Caminiti, testo prodotto per il primo volume della saga degli Autonomi, edita da Derive e Approdi.

L’AUTONOMIA MERIDIONALE: TERRITORIO DI OMBRE, SOLARITA’ DELLE LOTTE.

La crisi dei gruppi extraparlamentari a metà degli anni settanta costringeva a un ripensamento del meridionalismo.

Se i gruppi più attenti alle questioni del lavoro operaio avevano inseguito la costituzione dei poli industriali (a Gela, Milazzo, Priolo, Taranto, Porto Torres) come luoghi di possibile coscienza rivoluzionaria, i gruppi marxisti-leninisti avevano puntato alla tradizione come presupposto di verginità, cercando radici contadine, saggezza antica, capipopolo (così a Cutro, Paola, Bronte, Lentini).

In entrambi i casi, oltre all’aver messo in moto processi enormi di lotte e partecipazione, c’erano schegge di verità e sapienza, ma anche un carattere di forte sovradeterminazione teorica o ideologica (che li aveva, per esempio, spiazzati e paralizzati durante i moti di Reggio Calabria).

Queste sovradeterminazioni avevano come oscurato i processi di conoscenza, le categorie dell’analisi. Bisognava tornare indietro per guardare e capire cosa avevamo sotto gli occhi. Ma, intanto, bisognava scuotere dall’intorpidimento tutta una sedimentazione di coscienze situazioni, militanti. Nasce così l’autonomia meridionale.

Il meeting all’Unical

A una prima rete di militanti che si era raccolta attorno al giornale “Comunismo”, si congiunge un’altra ragnatela più eterogenea di relazioni che si era data convegno all’Università di Cosenza nel ’76.

Argomenti e posizioni si sovrappongono in un bailamme dove tutto si tiene (dalla comune anarchica di Pellaro alle femministe di Vibo, dai dinamitardi di… ai musicanti di Verbicaro).

Il Settantasette comincia a Palermo

Nell’ottobre ’76 la facoltà di lettere di Palermo viene occupata da precari e studenti. In un’assemblea numerosissima viene posto al centro delle questioni il lavoro non-operaio, il senso della ricerca e delle scienze universitarie finalizzate al comando e allo sfruttamento, la necessità di avere diritti e uscire dalla marginalità. Comincia il ’77 italiano.

“[…] La dispersione dei militanti, l’assenza di circuiti stabili e rapidi di dibattito, di riflessione sulle lotte affidate al continuo spontaneo riprodursi senza mezzi organizzativi, la mancanza di poli come capacità di rappresentare tutto l’insieme della contraddittorietà e poi propagarla, l’assenza quasi totale dell’informazione; tra lotta e rappresentanza, esiste nel Meridione indifferenza. Il proletariato meridionale non ha voce, non ha comunicazione interna, non ha luoghi dove lasciare memoria facendola teoria […]. Appariva così prioritaria la necessità di conoscere il Sud, di farlo conoscere reciprocamente ai suoi militanti, di mettere in confronto decine di situazioni, di realtà testardamente in opposizione, svincolate da qualsiasi collegamento se non occasionale, mostrare, semplicemente, la presenza di irriducibilità di lotte fuori del quadro politicoistituzionale e soprattutto radicato nel proprio territorio […].

Organismi di massa territoriali, organismi di massa zonali, regionali, meridionali, diventa la pratica organizzativa di incontri.

Un altro modo di organizzazione proletaria

La scoperta di centinaia e centinaia di militanti vivi, attivi, quotidianamente immersi nello spirito di lotta sui bisogni di tutte le frazioni proletarie, addestrati al lavoro capillare lento, addestrati allo scontro con padroni e padroncini, mafiosi e amministrazioni pubbliche, addestrati da sempre all’uso di tutte le forme di lotta, addestrati al continuo lavorio di costruzione, disgregazione, ricostruzione, era intanto la tangibilità offensiva alla normalizzazione istituzionale. La rottura di compartimentazioni gruppettistiche liberava disponibilità e aperture a un dibattito che ripartisse dalle concretezze, liberava la possibilità di dare indirizzo meridionalista. Si poteva leggere la storia delle lotte meridionali non come carenze, insufficienze, ma espressione di un altro modo di intendere organizzazione proletaria.

La storia del Sud non è fatta solo di improvvise esplosioni di rabbia, ma di un incessante lavorio di massa, di una capillarità di discussione proletaria, di un’estensione territoriale orizzontale che dai paesi, dai quartieri, le piazze, i punti d’incontro si coinvolge nei luoghi di lavoro, in una maturazione lenta ma sicura […].” Con Fiora scrivevamo così in “Scirocco”. Ma bisognava esserci. Voglio dire, bisognava proprio trovarsi lì in mezzo.

Una esperienza di nomadismo

Prendere la macchina di notte da Cosenza per arrivare a Palermo e sentire quelli dei Cantieri navali e poi ripartire per andare a Reggio, che era urgente sostenere la lotta dell’Omeca, e tirare d’un fiato fino a Taranto all’Italsider, fermandosi per strada dalle parti di Sibari, e fare una riunione all’Università di Bari, dormire poche ore e via verso Napoli, il pomeriggio un’assemblea al Politecnico. E’ lì che nacque la teoria dell’itineranza, del nomadismo. Cos’altro potevamo inventarci? Dovevamo essere pazzi.

E straordinariamente forti. I più stanziali erano i compagni di Napoli ma, si sa, loro vivevano in un continente di autosufficienza; i più dinamici i compagni lucani, loro erano quasi il centro dell’universo, in un niente erano a Taranto o a Napoli o a Cosenza, cosa potevano volere di più? E poi non era niente male muoversi tra una riunione e l’altra sulla costiera amalfitana o scendere al tramonto tra Maratea e Diamante o incontrarsi di notte alle luci di quel mostro di Bagnoli visto da Bacoli, non era niente male fermarsi nelle trattorie dei Quartieri spagnoli a discutere di comunismo, e polpo coi friarielli oppure prendere freddo e acqua sulla Basentana per stampare l’infinito numero zero ma, dopo, azzannare le salsicce lucane di cinghiale. Non era facile, questo sì.

Fare i conti con il gramscismo

Dovevamo risalire la china del fabbrichismo e dell’industrialismo che avevano imperato negli anni sessanta e settanta nella programmazione statale inquinando la sinistra tutta, persino quella rivoluzionaria.

Dovevamo riannodare il filo rosso dell’opposizione meridionalista, rovesciare come un guanto l’illusione dello sviluppo, scrostare con lavoro di gomito le aporie dei gruppi. Fare i conti con il gramscismo istituzionalizzato.

Riscoprivamo radici lontane (i briganti, i Fasci siciliani, il movimento indipendentista di Finocchiaro Aprile e l’Evis di Canepa, le occupazioni delle terre) per tornare a Marx, quel Marx che nel Sud, e qui in Italia, era sempre stato letto storicisticamente e positivisticamente, in Labriola, Croce, Della Volpe. Se c’era un posto dove il capitalismo mostrava la sua maturità, questo era il Sud.

Contro la lamentazione meridionalista

“[…] Se c’è un tema irrilevante, è affrontare la ‘questione sviluppo’ su una codificazione economica elaborata su richiami statistici: percentuali disoccupazione/tassi di attività, erogazione di energia elettrica, reddito medio, tassi medi della ricchezza prodotta eccetera. Tutto ciò non rende conto dei rapporti di produzione e del modo dello stato di tessere la propria tela attraverso la cooperazione sociale […]. Si è detto, nella società tardocapitalista è difficile porre qualcosa al suo centro, probabilmente perché sopravvive a se stessa; ma, sicuramente, se si pone al suo centro il rapporto lavoro/capitale, questo non è che il simbolo di un processo di produzione di ricchezza che ha trasformato lentamente le sue condizioni. Ora, non è che il Sud sia stato la periferia di questo campo magnetico ruotante attorno al rapporto lavoro/capitale […].

La contraddizione lavoro/capitale si è prodotta trasversalmente, nella società, in ogni relazione, e solo per questo ogni relazione sociale è stata ricondotta, nella società, in ogni relazione, e solo per questo ogni relazione sociale è stata ricondotta, nella società tardocapitalista, nella cooperazione, nella produzione di ricchezza. Questo tipo di traslazione del rapporto di comando ha interessato il Sud. In altri termini, il potere politico, lo stato, hanno interpretato al Sud la stessa funzione conflittuale del rapporto lavoro/capitale […]. Il salto di qualità, passaggio volitivo della dialettica capitalistica, si espone nell’inversione di tendenza: dall’aumento del lavoro operaio all’aumento del lavoro non operaio […].

Nel Sud emergono radicali scompensi tra le diverse capacità lavorative nelle varie sezioni del processo lavorativo.La differenza fra la capacità lavorativa di un impiegato del Banco di Sicilia, dove sono stati posti i terminali, del lavoro bracciantile in Puglia, del lavoro nero nel centro di Napoli, del lavoro illegale dei contrabbandieri, del lavoro a domicilio nell’ordine dei nuovi processi di ristrutturazione del piano tessile in Calabria, del lavoro del tecnico dell’Olivetti di Marcianise, del lavoro operaio alla SIR, la differenza è misurata sulla differenza tra i tempi di lavoro necessari a ciascuna forza- lavoro a coprire quella parte di fatturato che corrisponde al suo salario. Ma per lo stato ha peso solo l’indistinta capacità lavorativa sociale […].

La ricchezza come comando sul lavoro

La ricchezza prodotta pertanto non solo non appartiene al lavoro sociale ma gli si contrappone come comando, nel processo lavorativo e pure nel tempo di riproduzione (tempo di non-lavoro), cioè nella vita. La contraddizione tra sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione si allarga. Essa non è più soltanto indice del paradosso tra una sempre maggiore capacità di ricchezza, che lo sviluppo delle forze produttive crea come possibilità, e la miseria, cui i rapporti di produzione costringono il lavoro; essa aggiunge a questo il nuovo paradosso di una ricchezza estranea, non perché non posseduta, ma perché nemica, verso cui lo sviluppo delle forze produttive è costretto. L’edile meridionale costruisce villette dove non andrà mai ad abitare e, accanto, carceri speciali dove potrebbe anche andare ad abitare; l’operaio della FaceStandard apparecchiature elettroniche per telecomunicazioni, che non ampliano e agevolano l’uso privato ma quello dello stato su questo […].

Le contraddizioni dello sviluppo

Il termine sviluppo o sottosviluppo ha passato il segno della presenza o meno di ricchezza, nelle forme del salario indiretto o in una conformazione territoriale e urbana socialmente fruibile come appagamento e comodità (non c’è centro urbano cui in estate non manchi l’acqua, a Taranto come a Palermo o a Sassari, e in inverno la luce; i virus stanno ovunque ma seminano stragi di innocenti solo a Napoli; non esiste, o quasi, rete ferroviaria per l’interno, se non servizi privati di pullman quando non addirittura camion di privati riattati per il trasporto del lavoro bracciantile; il biglietto del treno si paga alla stessa maniera tra Reggio Calabria e Battipaglia e tra Venezia e Milano ma nel primo tratto si viaggia in carrozze ex terza classe accatastati uno sull’altro, nel secondo su semivuote carrozze insonorizzate; l’autostrada Salerno-Reggio Calabria non si paga contrariamente all’Autosole, ma questa è in continuo riordino, le curve in dislivello per l’assetto di andatura, autogrill, luna-park, quella ha più buche della Luna e tra queste e le curve c’è di che garantire una selezione naturale per la sovrappopolazione del Sud; così la rete idrica, così tutto). Il benessere metropolitano ha accompagnato l’utopia capitalistica di sviluppo […].

Le aree dell’emigrazione, toccate solo marginalmente da quel modello, zone “sottosviluppate” per antonomasia, misurano oggi la propria compartecipazione a questa fase dello sviluppo tardocapitalistico su una presenza di valore di comando-piano sociale, punti luminosi, segnalatori del ticchettio di un’attività sociale coordinata dallo stato. Questa è la misura attuale dello sviluppo […].

Il peso della macchina statale

Se al capitalista l’operaio interessa per otto ore al giorno, allo stato interessa per le restanti sedici e, nella misura in cui penetra fiscalmente la struttura del salario e finanziariamente quella dell’accumulazione, comincia a interessargli anche per quelle otto ore”. Sullo stato, quindi, avevamo rifocalizzato l’attenzione. Lo stato-impresa capace di valorizzare in consenso coatto e in comando la redistribuzione del reddito e costituire così un “patto sociale” molto più coeso del fare capitalistico. Per questo gli abbisognava la compartecipazione delle rappresentanze sociali (partiti, sindacati, associazioni di categoria, giù giù fino ai condomini). Ancora una volta il Sud era terra di laboratorio (a questo carattere di “sperimentazione politica” accennerà persino Andreotti in un’intervista a “il Corriere della Sera” del settembre ’95).

Il compromesso storico alla sicilian

In Sicilia, anticipando i governi di unità nazionale, era stata varata un’amministrazione regionale che incardinava democristiani e P.C.I., rieditando in forme nuove il “milazzismo”. Sarà il primo esperimento del “compromesso storico”. La sinistra riformista si era attrezzata teoricamente a questo ingresso nella stanza dei bottoni, formulando teorie dello stato che ne valorizzavano la capacità di assorbimento delle istanze sociali e di rappresentanza dei diritti di cittadinanza.

In realtà, tutto ciò era una superfetazione parassitaria di una onda lunga di lotte che stava rimescolando il Sud (che vedeva per la prima volta in Italia vittorie elettorali di sinistra al di fuori del triangolo Emilia -Toscana – Umbria) e ve le imbrigliava.

Spinte riformatrici, inerzie mafiose, sogni tecnocratici si sovrapponevano in un agire dello stato che era invece già determinato capitalisticamente. “[…] C’è un fondo di bicchiere comune ai diversi filoni del movimento operaio istituzionale, da Vacca che intende ‘promuovere una ricomposizione unitaria dei conflitti che i partiti soprattutto interpretano e mediano’, alla concezione ingraiana del   decentramento dello stato attraverso il tessuto corporativo dei partiti che si fanno strumento unitario di emancipazione delle masse, alla concezione trontiana dell’autonomia del politico per cui la classe operaia unica interprete del potere politico batte sui tempi, anticipandolo, il capitale, nella riorganizzazione della macchina statale arretrata rispetto alle esigenze di valorizzazione del capitale […].

Casmez e potere politico

La Cassa per il Mezzogiorno, in quasi trent’anni di vita, pur nelle sue incredibili svolte programmatiche e “strategiche” ha tuttavia interpretato una funzione continua e univoca: lo sviluppo del potere politico, intelaiatura delle relazioni sociali meridionali.

Lo stato mette in atto due tendenze parallele, convergenti alla socializzazione dello sfruttamento. La prima è quella interpretata dai tecnocrati, Saraceno, Pescatore, Peggio, Vera Lutz, Galasso, Novacco, Compagna eccetera che hanno elaborato la programmazione dello stato […].

Col primo piano quinquennale nascono Taranto, Gela, Priolo Ottana, Brindisi, Napoli, le 34 aree e nuclei di industrializzazione; con essi i fantapiani della politica di programmazione, tuttavia abbastanza legate alle mitologie del centrosinistra […].

L’altra tendenza è stata quella dei vestiti grigi, i biglietti in prima classe sui rapidi, le mani bucate, le mani tese, i traffici, le clientele, le minacce, quella dei Gioia, Lima, Mattarella, Frasca, Principe, Dell’Andro, Lattanzio, Matarrese, quella della stesura della grande rete del corporativismo dei partiti […].

Il comando sociale al Sud

Queste due tendenze hanno segnato, convergendo, come prospettava Moro, una maturazione del comando sociale dello stato al Sud.

Lo stato ha realizzato la necessità di trasformare il provincialismo delle proprie formazioni politiche secondo assi di ristrutturazione dominante: il politico (gestione degli enti locali e di tutti gli organi di decentramento istituzionale); il tecnocratico (legato ai piani di ristrutturazione e riorganizzazione sociale); il finanziario (per gli istituti di emissione, agevolazione, credito e finanziamento in genere); il militare (per la riorganizzazione di tutte le strutture locali di controllo); lo scientifico (per i piani elettronico-informatico, teste di ponte dello sviluppo delle alte tecnologie di controllo al Sud).

A quasi vent’anni dalle prime localizzazioni dei poli cosa emerge? Al di là della crisi della chimica e della siderurgia viene fuori una rete fittissima di drenaggio territoriale per la circolazione finanziaria nazionale e internazionale […].

Il ciclo finanziario meridionale

Il ciclo finanziario che si costruisce al Sud è in linea generale di questo tipo: il denaro viene immesso dallo stato con le leggi di finanziamento per le partecipazioni statali (IRI, EFIM, ENI), le leggi di finanziamento alla Casmez e alla Gepi; questi enti entrano in partecipazione con altri istituti  di credito su cui convergono i finanziamenti CEE attraverso la BEI e il fondo regionale, e gli investimenti privati nazionali e multinazionali, quindi si trasformano in iniziative produttive di beni e servizi mettendo collateralmente in moto attività di ricerca e controllo sociale […].

Lo stato non ha alcun interesse a rilanciarsi come capitalista reale, ma ha molto più a cuore monopolizzare la circolazione finanziaria sotto forma di offerta (nelle differenti vesti di prestiti finanziari, “leasing”, crediti, agevolazioni) all’impresa e sotto forma di domanda e commesse, da parte dei propri apparati, organismi ed enti territoriali, piuttosto che monopolizzare la proprietà imprenditoriale. Così, sposta il controllo giuridico dai rapporti di proprietà ai rapporti sociali in quanto rapporti di scambio: denaro e territorio diventano la base della giuridificazione della società […].

In una produzione sociale caratterizzata dal plusvalore sociale, dalla finalizzazione al valore di ogni aspetto della vita sociale, in cui il consumo privato appare obsolescenza aristocratica (questo è ‘comunismo del capitale’), la stessa figura dello scambio si trasmuta in trasferimento, così come muta la figura giuridica del contratto: il contratto privatistico si dissolve, trae la ragione di sé nel contratto sociale […].

Il nostro rifiuto del lavoro

Il rifiuto del lavoro (la libertà del non-lavoro) è così ipotesi e prassi del capitale nella progressiva messa in sovrappopolazione del lavoro umano attraverso la macchina e nella continua funzionalizzazione dello scambio alla produzione di valore. Una merce senza mercato è sempre stata l’ipotesi di lotta comunista. Un mercato senza merci, un mercato di valori, di segni, di transazioni astratte, di coazioni sociali è l’ipotesi-sogno del capitale-denaro sociale” (da “Diritto alla guerra”).

Le trasformazioni del lavoro (tornare a Marx) diventano fondativo per l’analisi. Il concetto di “proletariato meridionale” ci sembrava poco congruo.

Ci intestardivamo non soltanto a mostrare come la produzione di plusvalore coinvolgesse ormai ogni recesso di attività lavorativa si svolgesse al Sud (e quand’anche fosse di riproduzione e assistenza, come proprio questo costruisse consenso e comando), ma come i caratteri di questa produzione (dove convivevano forme feudali accanto ad avveniristiche tecnologie) stessero ormai a significare i caratteri generali nuovi, la cartina al tornasole del rapporto lavoro/capitale, proletario/stato. “[…] Il lavoro nero, precario, marginale, l’enorme area della sottoccupazione […] se lo stato-Sud struttura alcune zone produttive muovendosi verso la piccola e media impresa, e poi verso l’automazione della grande non modificando la dimensione occupazionale del lavoro operaio, anzi (pur considerando i nuovi investimenti il tasso di incremento dell’occupazione è sempre e comunque inferiore all’immissione nel mercato di forza-lavoro giovanile) espellendo lavoro operaio, non fa che spostare la forza-lavoro verso altre zone del processo lavorativo sociale dove, viceversa, il capitale non è assolutamente in grado di produrre comando […].

A proposito di lavoro nero

Il lavoro nero si divide in lavoro “operaio” e lavoro “non-operaio”. Il lavoro nero operaio può essere altamente tecnologizzato (è il caso di alcuni settori a domicilio che compendiano la lavorante tessile con telaio automatico in casa, riparazione e produzione domiciliare di alcuni pezzi di impresa meccanica ed elettromeccanica, lavoro casalingo del tecnico disegnatore eccetera); oppure può consistere in lavoro per conto terzi, tutte quelle attività (manutenzione, edilizia, lavorazioni particolarmente rischiose, nocive), che la grande impresa scorpora dal proprio ciclo, per declinare responsabilità economiche su settori di lavorazione verso le quali non è in grado di produrre un salto produttivo (produzione di omicidi bianchi all’Italsider); oppure può consistere in lavoro artigianale (ricamatrici, guantaie, maglieriste, cucitrici e altri infiniti lavori come la lavorazione dei fiori finti, scarpe, divise) fondato sul massimo prolungamento della giornata lavorativa e, poi, coordinato da grandi imprese di commercializzazione per l’estero o per le catene di distribuzione.

Il lavoro nero non-operaio è anch’esso eterogeneo e si tratta di lavoro che si sviluppa a ridosso del terziario, come superfetazione di attività di commercio e servizio più o meno illegali ed extralegali, cucite alla riproduzione (servizi abusivi, contrabbando, vendita ambulante, corsi di recupero); lavoro part-time o stagionale o a termine, comunque precario, ed è il modo come si va indirizzando il rapporto di lavoro nel terziario superiore: assunzioni regionali (uso amministrativo-meridionale della legge 285), concorsi, ricerca, enti e servizi, programmazione in genere, dislocamento “territoriale”.

Chiudono il cerchio le svariate (ma sempre esistenti) forme di lavoro precario, stagionale, o a domicilio, nero, nell’agricoltura e i settori a essa collegati: dal lavoro “a domicilio” del contadino che lavora per la Cip-Zoo, alle raccoglitrici di olive di Nicastro, ai braccianti forestali dell’Opera Sila, al bracciantato in genere in tutte le zone agricole, fino al doppio lavoro di quasi tutti i contadini-operai pendolari di zone agricole intorno ad aree industriali, fenomeno delle Puglie. L’ampio spettro di queste forme di lavoro, affatto dominanti sul territorio meridionale anche prima della “rivoluzione tecnologica” della piccola e media impresa, va oggi osservato nell’ottica delle soluzioni tardocapitalistiche al processo lavorativo, soluzioni, alcune passive, tutte

interattive, non certo residuo di forme precapitalistiche (anche si tratti delle ricamatrici o delle raccoglitrici di olive). Da questo punto di vista è indifferente graduare un misuratore di intensità di sfruttamento, tra le varie forme di lavoro nero-precario e le altre attività lavorative.”

A proposito di violenza e di illegalità

Nel corso dei mesi la questione della violenza, dell’affrontamento con lo stato, assunse caratteri precipui, come dappertutto. Ma vivevamo in un territorio dove l’illegalità e la violenza contro lo stato erano acqua fresca, educazione adolescenziale, e non richiedevano forzature. Epperò, illegalità e violenza avevano connotazione individuale, abilità singola, mai capaci di trasformarsi in scienza della lotta. E laddove assumevano caratteri organizzativi diventavano criminalità, sapere mafioso. Anche il rifiuto della politica aveva spesso il senso del suo opposto, una delega di poteri ai professionisti della politica.

Così, era chiaro che non avremmo voluto mai puntare a una funzione separata dell’azione di sabotaggio, dovevamo immaginare, far immaginare, la possibilità di una costruzione collettiva, di una decisione collettiva della forza. E insieme, era chiaro che dovevamo costantemente alienarci da noi stessi, impedirci di essere vissuti come ceto politico, seppure alternativo.

Riscuotere delega era facile al Sud, costruire movimento e democrazia molto più complesso.

Il nostro discorso sulla guerra

Ci sembrò che la radicalità stesse tutta in un discorso sulla guerra.

“[…] L’autodistruzione, l’obsolescenza di tutti i frammenti di organizzazione proletaria non significano incapacità a mantenere costanza di posizione rivoluzionaria ma, proprio all’opposto, un senso artigiano dell’uso, di utilità dello strumento organizzativo impedendone ogni sua vita separata, ogni suo porsi come lineare rappresentanza del complesso manifestarsi della dinamica dei bisogni, ogni funzionariato a oltranza. Indice di maturità, di democrazia comunista che non intende riprodurre dentro il comportamento rivoluzionario la distinzione tra cittadino e lavoratore, tra politico ed economico […].

Sull’asse del rifiuto del lavoro coatto germoglia il rifiuto della pace coatta. Rubiamo la guerra! Rubiamola alla separazione, all’alienazione. Ora la teoria rivoluzionaria è tutt’intera critica della politica, teoria della guerra. L’attività concreta della soggettività di guerra va caricata contro l’astrazionelavoro.” Dopo il convegno di Bologna del settembre ’77, a cui partecipammo in maniera distratta e fuori dai giochini notturni dei gruppi, ma che sfruttammo per un pomeriggio d’incontro separato fra tutti i militanti meridionali lì presenti, il lavoro politico si fece più logorante. Troppe cose si sovrapponevano e ci sentivamo come schegge scagliate lontano. Testardamente ci infiliamo nell’imbuto.

Qualche brandello di storia sfigata

Riusciamo a fine gennaio ’78 a fare un’assemblea meridionale alla facoltà di medicina a Palermo. Una marea di gente. C’erano appena state le lotte dei lavoratori agricoli nella piana di Battipaglia, l’occupazione delle case a Salerno, per la prima volta dopo anni i fascisti erano stati cacciati dall’Università di Messina, e poi Napoli, Palermo. Erano tutti là. E tutto ancora sembrava tenersi. Meno noi.

Al ritorno dal convegno i compagni di Potenza vengono fermati, perquisiti, trattenuti. E’ l’inizio della sfiga. A Napoli scoppia un ordigno tra le mani di un compagno. Arresti, terra bruciata.

Dopo pochi giorni, dopo uno scontro a fuoco attorno a via Mezzocannone altri compagni vengono incarcerati, e la repressione imbocca la via della desertificazione. Siamo seguiti, spiati, tampinati persino su tratti d’autostrada. Poi, gli arresti annunciati di Licola, e poi ancora, e poi ancora.

La doppia spirale del Sud

Ora, guardando il presente, mi sembra che con gli anni si è avvinghiata una doppia spirale sul Sud: quella della lotta alla mafia (e alla criminalità in genere) che ha finito con il sovrastare ogni altra contraddizione; e quella della volgarizzazione di temi cari al meridionalismo, che noi avevamo solo reinventato (e dico l’autogoverno, l’autonomia, il federalismo regionale, la democrazia territoriale, il secessionismo contro la rappresentanza delegata e astratta del potere politico, l’antiassistenzialismo corruttore, l’imprenditorialità, inventiva legata al territorio), diventati un coacervo di piccole banalità giocate contro il Sud (identificato come buco nero della circolazione di denaro, proprio quando è il contrario grazie al suo risparmio), aizzate contro il Sud. Svincolarsi da questa doppia spirale non è possibile se si mantiene solo un gioco a somma zero, rinfacciando cioè allo stato l’avere foraggiato la mafiosità oppure rovesciando in antinordismo il proprio orgoglio ferito. Sono strettoie terribili da cui è meglio stare lontani.

La classe politica bigotta del Sud

Di sicuro la via dei processi giudiziari a politici e mafiosi, delle operazioni di polizia, del controllo militare per il controllo del territorio meridionale, anche se vincente adesso, è sorprendentemente fragile con scarso consenso e senza prospettive tranne un continuo e sospetto autoriprodursi. Si è costituita una classe politica al Sud (che è quella dei giudici e dei militari) bigotta. E incontrollabile. Pure, le loro linee di governo del territorio somigliano a quelle che gestiscono adesso città come New York (e R. Giuliani viene dalla “lotta alla mafia”), la Los Angeles dopo rivolta, Tokio, Rio.

Non è peregrino pensare che vi sia un rapporto diretto tra il totale disinteresse che suscitano i problemi del Sud nella classe politica d’adesso come un segnale di deriva di immaginazione – e l’interlocuzione esclusivamente militare che lo stato vi mette in campo. La focalizzazione delle attenzioni è tutta al Nord, e verso lì ci si ingegna, perché lì s’è espressa rottura, ribaltamento. La verità è che non c’è adesso alcuna soggettività politica meridionalista. Noi sbagliamo per eccesso di virtuosità.

La complessità delle questioni del Sud

Se è vero che è già segno di senilità il sopravvalutare la propria giovinezza e quanto vi si è fatto, la sottovalutazione ne sarebbe all’opposto il segno d’una perenne adolescenzialità. Stare altrove significa riperticare la complessità delle questioni del Sud, ritinteggiare le sue sfumature a colori forti.

La crisi definitiva dei poli, la guerra civile dentro la classe politica, le mutazioni della presenza dello stato, l’enorme ricchezza e risparmio accumulatisi negli anni della droga, la panne dei progetti di informatizzazione e terziarizzazione, il diffondersi devastante (proprio perché senza filtri) della televisizzazione della società, i caratteri d’un lavoro che sempre più assume il tono della potenzialità e non riesce a strappare un reddito, la ripresa dell’emigrazione oggi con il software nella valigia di cartone invece della soppressata, e un esplodere d’immigrazione per i lavori servili e della terra, tutto ciò richiede un nuovo sforzo di elaborazione, di lettura, di intervento. Ma è un fatto: non si è mai dato processo di modernità e di liberazione, di avanzamento, di conquista di benessere capaci di scandire la storia di questo paese, dalle municipalità all’idea di nazione, dalla conquista dei diritti dell’uomo alla fine delle monarchie, dalla nascita dei movimenti operai e socialisti alla fine dei totalitarismi, che non abbia avuto nel Sud i suoi luoghi propri.

Qui bisognerà tornare a scornarsi.

Ugo Maria Tassinari è l'autore di questo blog, il fondatore di Fascinazione, di cinque volumi e di un dvd sulla destra radicale nonché di svariate altre produzioni intellettuali. Attualmente lavora come esperto di comunicazione pubblica dopo un lungo e onorevole esercizio della professione giornalistica e importanti esperienze di formazione sul giornalismo e la comunicazione multimediale

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