Il professor Semerari e gli affari con banda della Magliana e “neri”

«Sì, intendo rispondere. Io entrai in contatto con il gruppo della Magliana tramite il professor Aldo Semerari. Ciò avvenne prima del 1979, penso verso l’estate del 1978. La ragione del contatto mi fu spiegata da Semerari con la possibilità, nel futuro, di avere rapporti di reciproca collaborazione, in particolare per quanto riguarda il finanziamento. Era noto, comunque mi fu detto anche da Semerari, che le persone del gruppo della Magliana si interessavano prevalentemente di sequestri di persona, e si occupavano anche di droga.»

Davanti ai sostituti procuratori di Firenze Pier Luigi Vigna e Gabriele Chelazzi, che indagavano sugli attentati neofascisti ai treni, il «pentito» Paolo Aleandri parlava spedito. Ormai aveva deciso di dire tutto. Aveva trent’anni, solo qualcuno in più dei suoi «colleghi» dei Nar Carminati, Alibrandi e Fioravanti, ma politicamente apparteneva a un’altra generazione dell’eversione nera, quella che era rimasta in contatto con «i professori», con le derivazioni dei vecchi gruppi di Avanguardia Nazionale e Ordine Nuovo.

Aleandri veniva proprio dal movimento che aveva per simbolo l’ascia bipenne e che era stato sciolto dal ministro dell’Interno Paolo Emilio Taviani. Con Sergio Calore, un altro «intellettuale» cresciuto alla scuola dei Semerari, De Felice e Signorelli, aveva fondato «Costruiamo l’azione», un gruppo e un giornale che predicavano il superamento dei «limiti della destra» e una sorta di alleanza tra giovani neofascisti e rivoluzionari comunisti in nome dell’abbattimento del sistema, nella quale avevano più valore i concetti un po’ fumosi di combattimento e di rivoluzione che non le vecchie ideologie contrapposte.

Ma mentre dava il suo contributo a quel «laboratorio di idee», Aleandri assisteva e partecipava a contatti e progetti più concreti, tra Semerari e i criminali comuni: bombe e sequestri di persona in cambio di perizie psichiatriche di favore e appoggi processuali, proponeva il professore. Ma non tutto era così chiaro e semplice, né filava così liscio.

«Io conobbi varie persone del gruppo della Magliana», continuò Aleandri davanti ai giudici, «ma i nomi li ricordo solo di alcuni, altri potrei riconoscerne in fotografia. Rammento i nomi di Franco Giuseppucci, detto il Negro, che sembrava un po’ il capo o il coordinatore del gruppo; e poi Maurizio Abbatino, Edoardo Toscano, Marcello Colafigli… La maggior parte delle volte mi sono visto con questa gente nei pressi di un bar della Magliana, frequentato assiduamente da Giuseppucci. All’inizio dei rapporti ci eravamo visti una volta almeno presso lo studio di Semerari: c’era sicuramente Giuseppucci, con qualche altro che non ricordo. In un primo momento si andava avanti a livello discorsivo, progettando eventuali rapporti concreti che dovevano avvenire in futuro.

«Nel 1979, direi intorno alla primavera, Giuseppucci mi chiese di custodire un sacco, di quelli che si portano a tracolla, ma grande, nel quale c’erano delle armi della banda della Magliana… Giuseppucci mi fece intendere che aveva rapporti simili, cioè di custodia delle armi, con un gruppo di sinistra, ma non mi dette altri particolari.

«Ricordo che io divisi il contenuto del sacco in due parti: una parte, con delle pistole calibro 38 e una machine pistole, era custodita presso la casa di Italo Iannilli; l’altra la detti in deposito, ma facendo capire che non poteva essere usata, a Mario Rossi. Tutto ciò all’insaputa di quelli della Magliana. Iannilli custodiva anche materiale nostro, e successe che per cattiva organizzazione, alcune persone della destra presero, dal suo deposito, il materiale dato da quelli della Magliana. A questo punto, quando mi venne richiesta la restituzione del sacco, io non ero in grado di farlo perché mancava del materiale, e temporeggiavo nella speranza di poter ricostituire la dotazione che mi era stata data in custodia.

«Ci furono degli interventi su di me, affinché provvedessi alla restituzione, da parte di Pancrazio Scorza, che mi diceva di essere stato sollecitato da Carminati, preoccupato che questa cattiva gestione dei rapporti sciupasse la buona immagine che egli era riuscito a creare con quelli della Magliana.

«Io in quel periodo stavo maturando l’idea di ritirarmi, e quindi i rapporti con gli altri del mio gruppo si erano deteriorati. A causa di questa particolare situazione, non mi fu possibile ricostituire la dotazione: quindi a un certo punto, a ridosso dell’estate del 1979, venni sequestrato da gente della Magliana, episodio che finora non ho riferito per vari motivi, e che comunque mi vedeva solo come parte lesa».

I «bravi ragazzi» s’erano liberati delle armi, consegnandole ad Aleandri, perché avevano saputo di possibili arresti contro la banda, e non volevano farsi trovare con pistole e mitragliette a disposizione. Nei primi mesi del ’79, Abbatino e i suoi amici entrarono e uscirono da Regina Coeli, ma all’inizio dell’estate erano di nuovo in libertà. E certo non furono contenti di sapere che il borsone con le armi affidato a quel giovane fascista amico di Semerari davanti alla stazione di Trastevere era andato perso. Sentivano puzza di bruciato, chiesero conto al. «professore» che promise di interessarsene, ma non potevano lasciar cadere la cosa senza conseguenze.

Un giorno di agosto, Abbatino e un altro paio dei suoi si trovavano in tribunale, per parlare con un avvocato. A un tratto vide Aleandri, quello che, ormai ne erano sempre più convinti, aveva rubato le loro armi. All’istante, senza avere un piano preordinato, decisero di sequestrarlo per costringerlo a restituire pistole e mitragliette. Lo seguirono, uno di loro preparò la bendatura attaccando due pezzi di cerotto all’interno delle lenti di un paio d’occhiali da sole, e appena furono fuori dal tribunale circondarono Aleandri, lo presero alle spalle e lo spinsero nella Renault 5 con cui erano arrivati.

Con gli occhiali da sole incerottati, il giovane neofascista non capì dove lo stessero portando: si accorse solo che l’auto correva e stava uscendo di città, perché da uno spiraglio sulle lenti credette di riconoscere una strada di periferia. Di reagire, ad Aleandri non venne nemmeno in mente: sapeva bene di che cosa erano capaci quelli. Piuttosto si mostrò condiscendente, e ripeté ancora una volta che non era colpa sua se le armi erano sparite. Ma quelli non vollero saperne: «Adesso ti teniamo un po’ con noi, e vediamo se le ritroviamo».

Lo portarono ad Acilia, in un appartamento dove spesso quelli della Magliana andavano a «pippare» la cocaina. Ormai erano quasi tutti schiavi di quella polverina bianca. Quando si spostavano da una città all’altra in aereo, succedeva che dovevano infilarsi nelle toilette degli scali anche due o tre volte in pochi minuti, col rischio di destare sospetti ed essere controllati, per tirare la cocaina di cui non potevano fare a meno.

Aleandri fu rinchiuso in una camera da letto con la finestra sbarrata, da cui non arrivavano i rumori del traffico, ma voci di bambini. L’ostaggio vedeva i suoi rapitori sempre e solo con un cappuccio in testa, e ce n’era uno piccolino, con l’accento sardo, che ogni volta gli ripeteva: «Fosse per me, ti avrei già dato ai maiali».

Ma per il momento, a quelli della Magliana Paolo Aleandri serviva vivo: rivolevano le armi, e comunque dovevano sapere che fine avevano fatto. Ogni tanto gli portavano il telefono, perché − sempre davanti a uno di loro − chiamasse qualcuno e cercasse di far saltar fuori quel borsone. Il fascista tentò di convincere i suoi amici almeno a mettere insieme un po’ di pistole e mitra, in modo da proporre ad Abbatino e compagni uno scambio con un quantitativo di armi equivalente a quelle scomparse.

A uno dei soliti bar, a circa una settimana dal sequestro, si presentò Massimo Carminati insieme a Pancrazio Scorza e Bruno Mariani, altri due «cani sciolti» della destra eversiva, i quali proposero ad Abbatino lo scambio: se liberavano Aleandri, loro gli avrebbero portato un altro stock di armi.

Un paio di giorni dopo, Abbatino e tre dei suoi si presentarono alla stazione Trastevere con l’ostaggio, Mariani e gli altri neofascisti con due mitra Mab modificati e due bombe a mano tipo ananas. Pistole non ce n’erano, ma i «bravi ragazzi» ritennero ugualmente vantaggioso lo scambio, soprattutto per i due mitra. Così Aleandri poté tornare a casa sua.

«Non ci disse mai che fine avessero fatto le armi che gli avevamo consegnato», ricorderà Abbatino, «limitandosi sempre a dire che erano andate perse non per colpa sua. La vicenda non comportò un nostro distacco da Semerari, in quanto la sua assistenza professionale ci era comunque vantaggiosa, ma né lui chiese più “favori” di tipo criminale, né noi eravamo disposti a trattare su tale terreno.»

1 aprile 1982: la camorra uccide Aldo Semerari

(…) A presentare il professor Semerari a quelli della banda della Magliana era stato «lo zanzarone», Alessandro D’Ortenzi. A quei ragazzi che sembravano disposti a tutto il criminologo «nero» propose un patto: lui li avrebbe assistiti con perizie di favore in caso di arresti, in cambio loro dovevano piazzare bombe in giro per Roma e sequestrare le persone che lui avrebbe indicato. Abbatino e Selis risposero che non se ne faceva niente, ma con Semerari rimasero in contatto, al punto che divenne lo psichiatra di fiducia della banda. Fu a forza di frequentarlo che si resero conto di quanto il professore fosse un doppiogiochista e di come la sua vita fosse appesa a un filo.

«Ci eravamo accorti», ha spiegato Maurizio Abbatino, «poiché egli non ne faceva mistero e anzi se ne vantava, che nell’ambiente della malavita organizzata giocava spavaldamente su più tavoli. In particolare, avendo appreso da lui stesso che forniva prestazioni professionali tanto alla N. C. O. di Raffaele Cutolo quanto alla Nuova Famiglia di Umberto Ammaturo, commentammo più volte fra noi che lo stesso correva grossi rischi.»

Avevano visto giusto, quelli della Magliana, e nella trappola in cui rischiava di cadere Semerari era finito prima di lui il suo amico e collaboratore Antonio Mottola. Uno dei napoletani a Roma, Corrado Iacolare, ne raccontò i particolari a suo cugino acquisito Claudio Sicilia, il quale li svelerà ai giudici cinque anni più tardi: «Iacolare mi disse che il Mottola curava delle perizie per Umberto Ammaturo, che era a capo della Nuova Famiglia e quindi in contrasto con Raffaele Cutolo. Poiché il Mottola era riuscito in base a delle perizie da lui redatte a far scarcerare l’Ammaturo, o comunque a rendere prossima la scarcerazione dello stesso, per semplice vendetta e per fare in modo di togliere all’Ammaturo futuri appoggi venne deciso, in una riunione tenutasi a Roma in un negozio di mobili di proprietà di un certo Giorgi, di eliminare il Mottola.

«Il Mottola», continua Sicilia, «un tempo era stato vicino a un altro medico legale, il professor Semerari. Quest’ultimo poi si avvicinò al clan di Cutolo. Iacolare mi disse che a compiere l’omicidio, oltre a lui stesso, erano stati Pasquale Scotti più altre persone. Sapendo che il Mottola avrebbe seguito senza fare alcuna difficoltà qualsiasi persona che si fosse presentata a nome di Ammaturo, loro dissero così e Mottola fece entrare in casa senza difficoltà lo Iacolare e gli altri. Il Mottola iniziò a capire qualche cosa quando il gruppo era già sceso in strada o stava uscendo di casa. Uno del gruppo si era impossessato, dentro l’abitazione, di una pistola con relative munizioni, sottraendola da una collezione di armi del Mottola, o comunque da un posto dove questi teneva le armi: come venne sottolineato dallo Iacolare, il Mottola venne ucciso con la sua stessa pistola.»

Il riavvicinamento a Cutolo dopo l’assassinio del suo amico Mottola, non servì a salvare Aldo Semerari. La sua testa, staccata di netto, fu trovata in una bacinella di plastica sul sedile anteriore di una Fiat 128 parcheggiata in una strada del centro di Ottaviano, il primo aprile 1982. Il corpo del criminologo, mani e piedi legati, era chiuso dentro il portabagagli.

FONTE: Giovanni Bianconi Ragazzi di malavita

Ugo Maria Tassinari è l'autore di questo blog, il fondatore di Fascinazione, di cinque volumi e di un dvd sulla destra radicale nonché di svariate altre produzioni intellettuali. Attualmente lavora come esperto di comunicazione pubblica dopo un lungo e onorevole esercizio della professione giornalistica e importanti esperienze di formazione sul giornalismo e la comunicazione multimediale

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