Quattro Giornate di Napoli: quando la plebe divenne popolo

Combattenti delle Quattro giornate di Napoli

di MASSIMILIANO AMATO/ Condirettore Critica sociale

Di tutti i rivolgimenti avvenuti a Napoli in quasi tremila anni di storia, quello che si determina tra il 27 settembre e il primo ottobre del 1943 ha, sotto molteplici (e contrastanti) aspetti, indiscutibili elementi di esclusività. Le Quattro Giornate di Napoli non sono paragonabili né al moto di popolo esploso il 7 luglio del 1647 contro il sistema fiscale imposto dal viceré spagnolo, e nemmeno alla cacciata dei Borbone che dà vita alla brevissima e sfortunata parentesi costituzionale della Repubblica Napoletana, tra il febbraio e il giugno del 1799.

La rivolta di Masaniello

Nel 1647, in una prima fase, non vi fu un’aperta ribellione alla Spagna ma piuttosto un attacco al blocco di potere condotto nel segno dell’antifiscalismo. Le case assalite e incendiate dai rivoltosi napoletani appartenevano soprattutto a funzionari regi che erano anche nobili di Seggio, grandi finanzieri, personaggi che partecipavano dell’indotto del sistema fiscale e che si occupavano della sua amministrazione e gestione, rappresentanti “popolari” coinvolti nel sistema di potere centrale.

Una miscela estremamente interessante in cui comparivano gli strumenti visibili della pressione fiscale, ma anche l’odio della plebe verso i “nuovi ricchi”. La rivolta napoletana del luglio 1647 non fu solo un movimento plebeo. Il sottoproletariato urbano ne costituì la base di massa, ma la direzione del moto fu assunta subito da avvocati, piccoli magistrati, membri delle istituzioni rappresentative “popolari” di Napoli.

1799: la rivoluzione delle élites

Se le élites cittadine ebbero un ruolo di regia della rivolta di Masaniello, nel 1799 la particolarità della situazione napoletana trasformò in sovversivi avvocati, medici, giovani delle professioni liberali, dei ranghi della nobiltà cadetta formata nei nuovi collegi militari e chierici destinati alla carriera ecclesiastica. In entrambi i casi l’humus antropologico su cui germogliò la rivolta ricalca il modello della gramsciana “rivoluzione passiva”, che d’altronde Antonio Gramsci aveva raccolto, con la mediazione di alcuni testi più recenti, dall’opera di Vincenzo Cuoco.

Con due aggravanti riferite al 1799: l’ingenuità dei rivoluzionari – da Cuoco in poi sottolineata da quasi tutti gli studiosi di quella esperienza, e la drammatica diaspora intellettuale innescata dalla feroce repressione sanfedista e borbonica. Nel 1647, a una vera e propria autonomia da Madrid si arrivò solamente alla fine di ottobre, quando fu proclamata la “Real Repubblica Napoletana con obbedienza al re di Francia”. Questa fase della rivolta si chiudeva il 7 aprile 1648 con il ritorno trionfale degli spagnoli a Napoli.

Nel 1799, la restaurazione ebbe caratteri particolarmente cruenti, arrivando a ridefinire in profondità la geografia sociale della città, che sarebbe rimasta sostanzialmente immutata anche dopo l’Unità.

Napoli sotto il fascismo

Per capire cosa fosse invece la Napoli del 1943 è necessario inquadrare cosa essa era stata nel ventennio precedente. Una storiografia abbastanza consolidata sottolinea la persistente, sostanziale debolezza del Pnf napoletano e dei suoi dirigenti, tradottasi in una costante subalternità ai prefetti (e quindi al regime) dei federali succedutisi alla guida del partito dal 1921 al 1943.

Nel lungo periodo, questo elemento avrebbe annacquato in misura significativa la “fascistizzazione” della città, tra le grandi realtà urbane della Penisola quella che maggiormente conserverà una propria autonomia dal progetto di “nuova civiltà” perseguito da Mussolini. 

Una tendenza che si dispiega compiutamente per tutti gli anni Trenta, quando nonostante l’attenzione che il fascismo riserva alla più grande città del Mezzogiorno, riassumibile nella trovata di “Napoli porto dell’Impero”, il millenario fatalismo napoletano fa premio, spesso smontandola, sulla propaganda.

La ricerca del consenso e la fronda

Il regime si sforza di estendere l’area del consenso solleticando la piccola borghesia e i ceti proprietari e professionistici con l’alienazione di beni municipali, la concessione di appalti e le nomine in consigli d’amministrazione di grandi e piccoli enti pubblici, ma l’approfondirsi della distanza tra ricchi e poveri seguito al rincaro del costo della vita e all’indebolirsi del potere d’acquisto delle classi meno abbienti alimenta progressivamente scetticismo e disillusione in vastissimi strati della popolazione.

La visita di Hitler in città, il 5 maggio del 1938, rappresenta il momento di massimo fulgore del fascismo napoletano. Ma, come spessissimo accade, l’apogeo coincide con il punto dal quale comincia il declino. A cui contribuisce anche una consistente fronda interna, che comincia a manifestarsi già ai Littoriali del 1937 culminando nella fondazione da parte dello squadrista Domenico Mancuso della rivista “Belvedere”, dagli accesi toni anticapitalisti e pregna di richiami al fascismo degli inizi e al mito della “rivoluzione interrotta”.

La IX maggio e i funerali di Bracco

Un vero e proprio laboratorio di futuri oppositori sarà, di lì a poco, la rivista “IX Maggio”, sulla quale muoveranno i primi passi esponenti di rilievo dell’antifascismo: Renzo La Piccirella, Giorgio Napolitano, Luigi Compagnone, Francesco Rosi, Aldo Masullo, Massimo Caprara, Antonio Ghirelli, Anna Maria Ortese, Luciana Viviani, Maurizio Barendson, Antonio Guarino. Né va taciuta la grande partecipazione popolare che si registra, il 20 aprile del 1943, ai funerali di Roberto Bracco, drammaturgo che non si era mai piegato alle minacce o alle lusinghe della dittatura mussoliniana. Ma, ovviamente, a sgretolare definitivamente ogni residuo di credibilità del regime sarà la guerra, con il pesante carico di distruzione (più di 100 bombardamenti) e lutti che essa riverserà sulla città.

L’anestetizzazione delle Quattro Giornate di Napoli

Se questi sono i dati di contesto, essi ancora non delineano a sufficienza la natura delle Quattro Giornate, spesso lette come estranee alla storia nazionale. Una “rivolta inafferrabile” incompatibile “con le rivolte sociali coeve e passate”, anche “quelle dei ghetti americani”. Per Claudio Pavone, una sommossa “pro aris et focis” di lazzari senza éthos politico (come la ricordava lo stesso Benedetto Croce), che, nella storia della città, “per la prima volta si trovano dalla parte giusta”.

“Lazzari” non è molto lontano, anche semanticamente, dal termine “plebaglia” usato da Hitler per definire gli insorti: un pregiudizio sopravvissuto alla guerra e perfino all’antinazismo, se nel 1961 il direttore dell’austero “Stern” definì la rivolta napoletana contro le truppe di occupazione tedesca “la ribellione allo straniero oppressore, nella città dei mandolini e delle pizze, null’altro che un parapiglia tra papponi e prostitute”.

Il tentativo di anestetizzazione politica compiuto a danno della più grande tra le prime insurrezioni popolari antifasciste e antinaziste dell’autunno 1943 va avanti per decenni, oscurando la fittissima trama resistenziale che tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre del 1943 dipana i propri fili per i vicoli, le strade e le piazze dell’antica capitale del Mezzogiorno.

Il comandante Zvab

Federico Zvab fu il comandante delle Quattro giornate di Napoli (foto dal blog di Giuseppe Aragno)
Federico Zvab fu il comandante delle Quattro giornate di Napoli (foto dal blog di Giuseppe Aragno)

I quattro giorni di insurrezione furono preceduti dall’attività svolta da bande armate – costituite da napoletani, antifascisti sbarcati in città dalle isole di confino e prigionieri alleati liberati – che avevano iniziato a resistere fin dall’armistizio. Erano state queste iniziative di lotta che avevano innescato le brutali rappresaglie tedesche, le quali a loro volta fornirono il carburante che alimentò la ribellione popolare.

Uno dei protagonisti delle Quattro Giornate sarà il comandante partigiano Federico Zvab da Sesana, sloveno compaesano di Danilo Dolci. Figlio di un socialista, Zvab aveva aderito adolescente al Psu, il partito di Turati e Matteotti, rimanendo profondamente colpito dal barbaro assassinio di quest’ultimo. Miliziano delle brigate internazionali in Spagna durante la Guerra Civile, riparò successivamente in Francia, dove però fu rinchiuso in un campo di internamento. Ne fu espulso dal governo del maresciallo Petain, che lo consegnò ai fascisti.

Dopo il carcere a Genova e a Trieste, fu spedito al confino a Ventotene e ebbe per compagni di stanza Ernesto Rossi e Riccardo Bauer, entrando in contatto con Umberto Terracini, Sandro Pertini, Eugenio Colorni, Mauro Scoccimarro, Pietro Secchia. L’aggravarsi delle condizioni di salute, minata dalle ferite riportate in Spagna e dalle percosse subite nelle carceri fasciste ne consigliò il ricovero agli Incurabili, dove, durante le Quattro Giornate, creò una vera e propria rete militare. Restò socialista fino alla morte, nel 1988, ricoprendo ruoli di dirigente nella Camera del Lavoro di Napoli.

Il ruolo degli antifascisti

Ma la natura politica delle Quattro Giornate è dimostrata anche da altri dati raccolti dalla storiografia più recente. Allo scoppio della rivolta contro i tedeschi, il 27 settembre, i gruppi di antifascisti erano 26, sparsi per la città e la provincia. Mobilitarono oltre 500 combattenti, diretti dal comando operativo sistemato in Piazza San Gaetano, il cui capo indiscusso era proprio lui: il giramondo socialista sloveno che, dopo la guerra, avrebbe scelto Napoli come sua città di elezione.

E’ stato calcolato che l’11% circa degli insorti era costituito da antifascisti di lunga durata e dalla loro rete amicale e familiare. Chiunque sappia come funziona un’organizzazione può riconoscere in questa la percentuale media su cui si assesta un gruppo dirigente con la sua struttura organizzativa. Cifre che per decenni non hanno trovato spazio nelle ricostruzioni storiografiche, ma che messe in fila, una dietro l’altra, contribuiscono a delineare una trama inequivoca e, a suo modo, originale per la stessa storia di Napoli. Le Quattro Giornate come momento in cui, nella storia della città, alla plebe senza progetto si sostituisce il popolo. Che in quella esaltante insurrezione fissa il proprio atto di nascita.  

Ugo Maria Tassinari è l'autore di questo blog, il fondatore di Fascinazione, di cinque volumi e di un dvd sulla destra radicale nonché di svariate altre produzioni intellettuali. Attualmente lavora come esperto di comunicazione pubblica dopo un lungo e onorevole esercizio della professione giornalistica e importanti esperienze di formazione sul giornalismo e la comunicazione multimediale

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*

*

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.