In morte del brigatista Raffaele Fiore, una persona gentile
Come ha scritto ieri sui social Pasquale Abatangelo, è morto l’ex BR Raffaele Fiore.
Così Davide Steccanella, l’avvocato cultore della memoria degli anni 70 e infaticabile narratore della lotta armata, coglie l’occasione sulla sua pagina Facebook per buttarsi avanti con il lavoro e fare pulizia dell’inevitabile tempesta di merda che si annuncia. Prima del suo post, però, vi voglio proporre una testimonianza di un compagno di fabbrica alla Breda, che ne restituisce un’immagine sorprendente. A scriverne, sempre su Facebook, è Chicco Galmozzi, poi fondatore di Prima Linea e avversario politico delle Brigate rosse ben prima della scelta della dissociazione e della dissoluzione organizzativa
È morto Raffaele Fiore. Vi sorprenderò ma era un uomo buono e gentile: anche quando fece uscire Moro dall’ auto gli si rivolse con “scenda Presidente”.
Eravamo insieme alla Breda. Era soprannominato Tarzan per la stazza e la forza fisica. Lui lavorava nel reparto “Torneria”. Un giorno, mentre io ero in pausa, dal mio reparto “Forgia” andai a trovarlo. Teoricamente era vietato spostarsi fra i reparti ma i capi per quieto vivere lasciavano correre. Lo trovai alle prese con un tempista che lo rimproverava per la lentezza con cui lavorava. Raffaele lavorava a un tornio parallelo di grandi dimensioni e per posizionare il pezzo pesante da lavorare si usava una gru pensile a mensola. Raffaele si mise a lavorare in fretta posizionando il pezzo a mani nude senza usare la gru. E disse al tempista: “vedi, se volessi potrei lavorare così. Ma non voglio. E adesso togliti dalle balle”.
Ciao Tarzan. Ci vediamo fra un po’.
La sua impronta e le ciance pistarole sulla Fiat 132
di Davide Steccanella
Probabile che presto si leggeranno le solite trite dietrologie perché il 16 marzo del 1978, arrivato la sera prima in treno da Torino, era uno dei dieci brigatisti che a Roma sequestrarono Aldo Moro, ed era sua l’impronta della manona sulla portiera della Fiat 132 con a bordo il sequestrato che darà la stura a numerose ipotesi complottistiche (Fiore era di una notevole mole). Nessun mistero, perché al posto suo, quel giorno in via Fani, potevano esserci altri brigatisti come lui, visto che erano gli anni Settanta e anche la sua storia personale è una tipica storia degli anni ’70.
Nato a Bari il 7 maggio 1954, come tanti emigrati di quegli anni (tipo quelli della famiglia lucana dei Parondi nel bellissimo film “Rocco e i suoi fratelli” di Luchino Visconti) era dovuto salire al Nord ancora minorenne per cercare un lavoro come operaio alla Breda di Sesto San Giovanni proprio negli anni in cui per la prima volta venne fatto credere a molti proletari come lui che una rivoluzione sociale era possibile.
Dopo una militanza nell’estrema sinistra, era entrato nella colonna torinese delle Brigate Rosse con il nome di battaglia Marcello, anche se per i suoi compagni sarà sempre “Cammello”, e la sua prima azione era stato il ferimento del capo-officina Fiat Antonio Munari del 22 aprile 1977.
Arrestato a Torino il 17 marzo 1979 insieme a Vincenzo Acella e condannato all’ergastolo, non si è mai dissociato e dopo più di 20 anni di galera ha ottenuto la liberazione condizionale lavorando in una cooperativa.
Si è sposato con Angela Vai, anche lei ex militante della colonna torinese e in seguito insegnante di danza terapia ai bambini, con la quale ha vissuto fino alla morte di lei avvenuta qualche mese fa.
Durante la militanza aveva diviso l’alloggio torinese con il futuro pentito Patrizio Peci, al quale si rivolgerà con una lettera inviata dal carcere alla rivista “Controinformazione” pubblicata il 18 giugno 1980 dal titolo “Rispondo al mercenario Peci”, dove scrisse: “È chiaro a chiunque che il mercenario Peci collabora con lo Stato non perché è entrato politicamente in crisi come si affannano a voler far credere i mass media. Non di un pentimento, non di una critica all’esperienza della lotta armata si tratta, ma più semplicemente di un volgare commercio, con il quale si illude di conquistare la libertà”.
Acquistata la libertà dopo pochi anni grazie alla legge sui pentiti, nel 1983 Peci si vendicherà nel libro “Io l’infame” pubblicato con il giornalista Bruno Giordano Guerri, parlando di lui in termini spregiativi, come farà nei confronti di tutti gli ex “compagni di lotta”, ivi compresa la sua ex fidanzata Maria Rosaria Roppoli e la futura moglie di Fiore, che appella con il nominativo sprezzante di Mangusta, sostenendo addirittura che l’arresto di Fiore sarebbe stato determinato da una soffiata per gelosie di potere dell’ex BR Nadia Ponti.
Nel 2006 Raffaele Fiore ha rilasciato una lunga intervista al giornalista Aldo Grandi, pubblicata l’anno dopo da Rizzoli con il titolo “L’ultimo brigatista”, e compare tra i quattro ex BR intervistati nel documentario francese “Brigades rouges (les)” di Mosco Boucault del 2011. Nel 2014 una sua intervista a “Oggi” venne strumentalizzata per un finto scoop dai cultori della dietrologia, determinando una sua secca smentita agli storici Marco Clementi e Paolo Persichetti pubblicata sul sito di quest’ultimo “Insorgenze” (ripresa da Contropiano.org) e dal titolo “In via Fani c’eravamo solo noi delle Brigate rosse”.
Nei suoi quotidiani articoli su quello che chiama il “cold case” (sic!) del processo in corso ad Alessandria, il prode Andrea Galli de “Il Corriere della sera” ha adombrato, contro ogni logica e contro ogni evidenza probatoria, che alla sparatoria alla Cascina Spiotta di 50 anni fa fosse presente anche lui, in un recente articolo dal titolo “Quelle vacanze non giustificate dell’operaio terrorista”. Questa in breve è stata la sua storia, anche se ci sarà sicuramente chi, pur non avendolo mai incontrato, si sentirà in dovere di scriverne un’altra, perché come noto in Italia, i conti con quel periodo non abbiamo mai saputo, o voluto, farli.

Persichetti: Fiore, la classe operaia va a via Fani
Una recensione al libro di Grandi
La storia di Raffaele Fiore, l’ultimo brigatista, raccontata ad Aldo Grandi, è una di quelle che fa impazzire complottisti e cultori dei misteri di Italia. Un operaio meridionale a via Fani e poi nell’Esecutivo delle Brigate rosse. Come è possibile? Alla fine tentano pure di metterlo in mezzo, forzando un’intervista su via Fani in cui tentano di fargli avallare le presenze “estranee” quando banalmente aveva detto che non conosceva gli irregolari della colonna romana presenti nel commando. Hanno scelto la persona sbagliata …
Mai pentito, mai dissociato, una lotta armata mai rinnegata: questo è Raffaele Fiore. È la prima volta che racconta, che parla. Alle sue spalle c’è un ergastolo. Ora è in libertà condizionata a Sarmato, in provincia di Piacenza, dove lavora per la Cooperativa Sociale Futura. Fiore è un uomo alto, pesante, quasi goffo, con un gran nasone. Lo ascolti e pensi che abbia sbagliato vita. Lo ascolti ancora e pensi che la rifarebbe.
C’è un determinismo storico nei suoi ricordi, una sorta di copione da cui – sembra – non si può fuggire. L’infanzia povera a Bari vecchia. La fabbrica come emancipazione. L’arrivo alla Breda di Milano. Il lavoro come prigione, l’operaio massa che sogna di diventare protagonista della storia, il sindacato puro e duro come scuola di ideologia, il clima del tempo, la curiosità verso i compagni che fanno la rivoluzione, l’arruolamento nelle Brigate rosse, i compagni arrestati e quelli che muoiono, la prova del fuoco, l’assassinio, l’arma che uccide il vicedirettore della Stampa Carlo Casalegno e il ritorno a casa come nulla fosse. La carriera nella colonna torinese, l’arrivo a Roma per massacrare la scorta di Moro, l’arresto, il carcere, il silenzio e una vita senza perdono. La certezza di aver perso, ma di avere ancora delle ragioni: «L’Occidente è una civiltà in decadenza. Sul piano dei valori non ha nulla da dare, non è un modello esportabile o da copiare. Una variante della cultura occidentale, quella identificabile con l’impero sovietico, è implosa. Il sistema americano difficilmente imploderà, al massimo esploderà, ma ci vogliono nuovi sogni perché ciò accada, meno pindarici dei nostri».
L’errore delle Br fu pensare di interpretare un sentimento comune, quasi a dire: la storia è dalla nostra parte. Fu questa illusione a dannare Fiore: «Ritenevamo che i concetti che diffondevamo trovassero rispondenza tra coloro a cui erano destinati. Lo sentivamo. Il nostro agire lo percepivamo come corpo estraneo rispetto all’insieme del movimento».
Ecco. Questa è la chiave che porta al terrore. Spari alla divisa, al nemico, e cancelli l’uomo: «Finisci per massacrare il tuo universo emozionale». Trent’anni dopo, sostiene Raffaele Fiore, chiedere perdono è quasi inutile: «Io non ho mai voluto avere rapporti con i familiari delle vittime perché lo ritengo inutile e ipocrita. Che cosa puoi dire a una persona a cui hai rubato gli affetti?»
Fonte: Vittorio Macioce, Il passato indelebile dell’ultimo brigatista, Il Giornale
Fiore faceva parte della colonna di Torino….