Roberto Sandalo, il terrorista uno e trino: la fase verde

[Questa è la terza puntata della storia di Roberto Sandalo, il terrorista pentito passato da Prima Linea alle camicie verdi per finire “lupo solitario” nella crociata antislamica. Le prime due puntate le potete leggere qui e qui]

Comunque anche se decisamente Sandalo, spostandosi in un’area di “estremismo di centro” ha cambiato vita, è rimasto, come emergerà drammaticamente l’anno dopo, convinto che l’uso della violenza politica, alla faccia del tanto proclamato pentimento, è legittimo. Tanto che l’ineffabile appassionato di armi ammette, in un’intervista a La Repubblica, messa in allarme dall’efficientissima rete di controinformazione di Martinez: “ ‘Sì, sono l’ex terrorista di Prima Linea ma sono anche uno che ha servito due volte lo Stato, prima come ufficiale degli alpini e poi dissociandomi e collaborando a mettere fuori piazza una banda di assassini. Non vedo perché io non possa fare politica mentre altri personaggi mai redenti siedono nei più alti scranni delle istituzioni’. E poi attacca, con un argomento francamente imbarazzante, Joe Fallisi, il tenore anarchico che lo ha smascherato insieme a Dacia Valent, l’ex europarlamentare comunista italo-somala approdata a posizioni di nazionalismo nero: ‘io non accetto critiche da lui perché non ha mai sparato un colpo’. Visto che Sandalo, per tutti i morti che ha provocato, si è fatto appena due anni di carcere, non può dire che la galera sia stata una tragedia per lui. No, per Roby il pazzo esiste solo ‘la tragedia di aver provocato la morte di qualcuno’”, una circostanza che, a suo giudizio, lo rende migliore e più importante dell’autore della “Ballata del Pinelli” che lui stesso, chissà quante volte, avrà cantato da ragazzino.

Eppure già nel 2006 era stato denunciato il suo ruolo di provocatore. La sua avventura, in quella che il procuratore di Verona Papalia voleva qualificare come l’organizzazione paramilitare della Lega, era stata ricostruita dal giornalista Claudio Lazzaro, in Camicie verdi, un film di 78 minuti uscito nel maggio 2006, che racconta «Misteri e segreti della Lega nord, dal celodurismo alla devolution». Emerge così la storia di una Lega pericolosamente sull’orlo della violenza, negli anni del secessionismo, tra metafore belliche e spacconate verbali. A raccontarla è un altro personaggio, Corinto Marchini, un ex senatore del Carroccio transitato dall’Autonomia operaia al vertice delle Camicie verdi. Sappiamo così di Bossi – ancora in buona salute – che chiede al capo della struttura di sicurezza della Lega, in un cinico gioco al massacro che si sarebbe spinto fino al progetto di un attentato a Borghezio per scatenare la piazza, di «tenersi pronto a sparare ai carabinieri». La struttura paramilitare era comunque, al di là dei giochi pericolosi dei vertici, inquinata da ex terroristi e uomini dei Servizi infiltrati. L’ex capo delle Camice verdi dichiara a Lazzari: «Lo dico ufficialmente per la prima volta. Bossi mi chiamò all’una e mezza di notte e credo che il magistrato Papalia abbia la registrazione. Mi disse di sparare ai carabinieri, che le Camicie verdi dovevano essere pronte a sparare. Io gli dissi che era pazzo, che cosa stava dicendo. Non era sua intenzione sparare ai carabinieri, però sperava che rispondessi di sì, così finivo in galera e lui si giocava la mia figura nelle piazze».

Parole forti, che Marchini precisa al Corriere della Sera: «Le parole esatte furono: ‘Le Camicie verdi devono essere pronte a sparare ai carabinieri’. In vista della dichiarazione d’indipendenza, Bossi mi chiese manifestazioni eclatanti, gesti estremi. Voleva che si bruciassero il tricolore, le effigi dei carabinieri. Una sera alcuni della Lega mi dissero che avevano ricevuto un ordine, a nome mio, di uccidere Borghezio. Serviva per farne un martire da usare nelle piazze. Una settimana prima del giorno fatidico fu revocato».

Borghezio conferma: «Se lo dice Marchini, che era esponente di spicco, sarà vero: non capisco perché se la debba inventare. Del resto, in quel periodo era pieno di agenti provocatori, di uomini dei servizi». Come Roberto Sandalo, appunto che divenne, in quella fase, uno dei responsabili delle Camicie verdi finché non fu proprio Borghezio, sorpreso dalla rapidità della carriera, a smascherarlo. La vendetta è un piatto che va servito freddo. Così Sandalo, all’epoca, accusò Marchini dell’omicidio D’Antona, il consulente del ministero del Lavoro ucciso dalle nuove Brigate Rosse alla fine del millennio. Quanto all’espulsione, l’ex pentito smentisce:“Non sono mai stato cacciato. Con altri 82 militanti della Lega nel gennaio del 1999 ci siamo allontanati dal partito perché Bossi aveva rinunciato alla secessione in cambio di denaro”».

Nello stesso periodo – significativa coincidenza – transita per la Lega un altro personaggio, Francesco Marra che pur non essendo mai stato processato per terrorismo è accusato dal fondatore delle Brigate rosse Alberto Franceschini di essere l’unico partecipante al sequestro Sossi mai identificato. Per altro con un ruolo significativo: «Marra e altri – secondo Franceschini – la notte del 25 aprile 1972 bruciano le auto di alcuni fascisti, a Quarto Oggiaro e al Lorenteggio. Poi Franco partecipa ad alcune rapine per finanziare le Br. Nell’autunno 1972 compie la sua prima azione armata importante: con me e altri compagni irrompe nella sede dell’Ucid, l’associazione dei dirigenti cristiani, dove sequestriamo, leghiamo e fotografiamo i presenti. Nel 74 Marra partecipa all’assalto armato alla sede dei Comitati di Rinascita Democratica [Comitati di resistenza democratica è il nome esatto, nda] di Edgardo Sogno. Ma la sua azione più importante resta il sequestro Sossi. Io in quell’azione ho avuto un ruolo di dirigente, ero quello che interrogava il prigioniero, come Mario Moretti fece poi per Aldo Moro. Nel gruppo che partecipa al sequestro Sossi, composto da 19 persone, avevamo voluto inserire tre “proletari”: Maurizio Ferrari, Alfredo Bonavita e Francesco Marra. Marra, il “compagno Rocco”, è quello che materialmente afferra Sossi nel momento del sequestro e lo caccia sul furgone. È, come sempre, uno dei più estremisti, dei più violenti. Poi Marra partecipa alla preparazione dell’azione per liberare Curcio dal carcere di Casale Monferrato. Non prende parte all’azione, il 17 febbraio 1975, perché proprio allora esce dalle Br. Era normale, per noi, in quegli anni, che qualcuno dicesse: non me la sento più, voglio uscire, torno alla mia vita. È successo a decine e decine di compagni. Molti uscivano, molti entravano».

E non è tutto. Secondo il senatore Flamigni, grande esperto dei misteri d’Italia, Marra è qualcosa di più, un infiltrato-agente provocatore: Paracadutista addestratosi in Sardegna all’uso di armi e esplosivi, in contatto con ambienti neofascisti e apparati di sicurezza, F Marra si è da poco iscritto al Pci quale ‘referenza’ per poter entrare nelle Br: infatti giustifica i suoi trascorsi di parà e la sua abitudine militare affermando di essersi arruolato nell’esercito e addestrato militarmente proprio su incarico del Pci (…) Interrogato solo nel 1997, nell’ambito di un’inchiesta sul terrorismo nero, 23 anni dopo il sequestro Sossi, Marra ha negato di avere mai fatto parte delle Br, pur ammettendo di avere conosciuto molti brigatisti, fra cui Curcio e Franceschini; ha invece ammesso di avere lavorato per la polizia politica, tramite il commissariato milanese Ps di Musocco (cui competeva il quartiere di Quarto Oggiaro, dove ‘Rocco’ gestiva un negozio e dove le Br erano radicate)

Dopo la pubblicazione del libro, nel 1998, la fase più acuta dal secessionismo leghista, l’inviato del “Diario”, Gianni Barbacetto, lo va a trovare a bottega e ne racconta così la sorprendente conversione, dal sol dell’avvenite al sole delle Alpi, “ma sempre contro lo Stato”: «Siamo in cella, al fresco». Il cartello, scritto a pennarello ed esposto sul banco, avverte la gentile clientela che – dato che il pomeriggio è caldo – sarde, branzini, orate e calamari sono in frigorifero. Qualcosa sul banco è rimasto: gamberi, salmone, platessa e il pesce spada, il più consigliato ai clienti. Franco Marra è sempre quello di venticinque anni fa, solo un po’ brizzolato. Struttura robusta, anche se non alto, mani forti, occhi chiari. Parla per lo più in milanese, decanta le qualità della sua merce (soprattutto lo spada), elogia i risultati dell’Inter. I clienti arrivano, scambiano una battuta, ordinano merluzzo o gamberi o calamari. Offre anche un bicchiere di vino bianco, Franco, in bicchieri di plastica trasparente con stampato in verde il Sole delle Alpi. «Sì, sono leghista. Siamo tutti leghisti, qui». La moglie, con la stessa coda di cavallo bionda di venticinque anni fa, aggiunge: «Siamo sempre contro lo Stato». Un cliente, milanista, tra l’ordinazione e il conto gli espone un sogno: una squadra padana, ma che giochi con i colori del Milan. «Eh, il Milan… In Padania vorrei conservare almeno la maglia rossonera…». E Berlusconi? «Devono metterlo in galera e buttare la chiave», gli risponde secco Franco, che per la Lega ha fatto anche il rappresentante di lista quando hanno eletto Formentini sindaco di Milano: in una sezione elettorale di Quarto Oggiaro, estrema periferia della città”. [3 – continua]

 

Ugo Maria Tassinari è l'autore di questo blog, il fondatore di Fascinazione, di cinque volumi e di un dvd sulla destra radicale nonché di svariate altre produzioni intellettuali. Attualmente lavora come esperto di comunicazione pubblica dopo un lungo e onorevole esercizio della professione giornalistica e importanti esperienze di formazione sul giornalismo e la comunicazione multimediale

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