Paola Tavella ci racconta Rossana Rossanda con otto storie
1. La mia assunzione
Io ero punk e siccome il colloquio era alle 8 del lunedì’ mattina non avevo modo di rimediare, comprai un cappellino verde di feltro a Porta Portese per coprire la cresta di capelli, una gonna di velluto a ruota molto carina, mi presentai puntualissima e lei, per anni, mi chiese come mai non indossavo più capelli, che mi stavano tanto bene. Ero talmente intimidita e emozionata che le davo del lei, e Rossana dopo avermi assunta fece una serie di telefonate a chi mi conosceva chiedendo: “Ma siamo sicuri che questa ragazza sia di sinistra? Mi ha dato sempre del lei, fra compagni non si usa”.
2. I suoi occhiali
Quando avevo una piccola scrivania nella sua stanza, lei perdeva gli occhiali e non poteva scrivere, allora prima o poi mi accusava velatamente di averli messi io da qualche parte. Veniva convocato Piero De Gennaro, capo assoluto della segreteria, insieme li cercavamo dappertutto come per una caccia al tesoro, mettevamo a soqquadro tutto il giornale, infine lei se ne andava furiosa per via della cecità e poi, il giorno, dopo si scopriva che li aveva lasciati sul comodino.
3. L’invito di Prada
Quando le arrivò al giornale un invito per l’inaugurazione del primo negozio monomarca di Prada a Roma, un evento superesclusivo, lei commentò: “Vedi, proprio quello di cui avevamo tanto bisogno” prima di fiondarlo nel cestino con lancio di precisione. Io lo recuperai, perché ero curiosa di quel biglietto in carta pregiata, e lei commentò: “Paola, tu non sei mai stata comunista mezzora in vita tua”, aveva perfettamente ragione e lo sapevamo da subito entrambe.
4. I consigli sentimentali
Quando ero giovane e flirtavo con tutti ma avevo un adorabile fidanzato ufficiale, benamatissimo da RR. Uno dei miei corteggiatori, con scuse di lavoro, entrava e usciva alla stanza mia e di RR più volte al giorno e mi ammiccava credendo che lei non vedesse, ma lei vedeva TUTTO e, dopo una settimana di questo andazzo, di punto in bianco disse: “Se una donna ha al dito un diamante farebbe meglio a non scambiarlo con un topazio”. Imperterrita, in quell’estate criminosa, l’ultima di Nicolini, uscivo con un prendisole giallo a aeroplani celesti che lasciava poco all’immaginazione. Commento di RR: “E’ interessante notare che nei paesi caldi per difendersi dalle alte temperature ci si copre, invece di svestirsi”. Poi, nelle infinite ristrutturazioni di via Tomacelli, lei finì nella stanza di Valentino (che si aggirava perennemente nei corridoi per non disturbarla) e io in un loculo senza finestra ricavato praticamente dentro un muro. Nel mio loculo potevo finalmente parlare sboccato con i colleghi e al telefono, lei però mi sentiva, quindi entrò e, ridendo, disse: “Paola Tavella, se ti esprimi in questo modo non ti sposerai mai, torna nella mia stanza e diamo questo buco al povero Valentino”. Per inciso, Valentino era sempre senza stanza per ragioni tipo questa, a meno che i vecchi non litigassero e quindi uno, o l’altra, non sparissero dal giornale per rappresaglia, e quindi Vale ereditasse una scrivania.
5. La sua generosità
Quando ero la sua segretaria e mi pagò il parrucchiere, mentre Dora tagliava lei le faceva dei segni di nascosto perché aveva un’idea precisa di come avrei dovuto pettinarmi, e infatti tagli deliziosi. Quando mi ha regalato un golfino di cachemire per Natale, avevo 22 anni e lei sapeva che potevo comprami niente. Quando mi invitava a pranzo, io ordinavo l’intero menu e lei riso in bianco. Quando mi ha insegnato a scrivere una lettera elegante, lezione mai dimenticata. Quando morì Rufus, il suo gatto di vent’anni, e poi si prese due gatti neri diabolici che imperversavano sulle scale del palazzo, quindi RR per attirarli faceva penzolare la cintura dell’accappatoio – per i due un richiamo irresistibile, chissà perché – nella tromba delle scale. Quando mi regalava soldi per andare al mare, e biglietti ferroviari per tornare a Genova, quando andammo a vedere Thelma e Louise a Parigi e uscì furibonda perché la fine non le piaceva, quando mi ubriacai la prima e l’ultima volta in vita mia e chiamai il giornale per dire che non riuscivo a alzarmi, rispose lei e consigliò un rimedio imparato a Cuba da Fidel Castro: buttar già d’un colpo un bicchiere di rum bianco, praticamente la via maestra per l’alcolismo.
6. Rossana e Valentino
In occasione della morte di Valentino Parlato, rischiai di perdere Rossanda sulla tangenziale mentre eravamo dirette a Rebibbia e pioveva. Grazie a Susanna Turco per averlo conservato perché fa ridere tanto.
Allora, di Valentino che è morto voglio ricordare una cosa che mi fa ridere, ridere tanto. Sarà un post per la famiglia pazza del manifesto, forse darà agli altri un’idea di chi era lui e come eravamo tutti.
Un giorno, nel bel mezzo del processo 7 aprile, dovevo accompagnare Rossana Rossanda per un colloquio a Rebibbia. Pioveva, non si trovavano taxi, allora Vale ci imprestò la sua 500. L’automobile di Vale era in condizioni abominevoli. Rossana sedeva al posto del passeggero con le labbra strette, taceva cupamente e guardava l’orologio. Imbocco baldanzosa la tangenziale est e improvvisamente, nel bel mezzo di una curva, la portiera dalla parte di Rossana si stacca e atterra con un crash spaventoso contro il guardrail. Entrambe lanciamo un grido di orrore, ma non posso fermarmi o saremo travolte. A quei tempi non esistevano le cinture di sicurezza, quindi Rossana si aggrappa alla maniglia sopra la ex portiera per non essere sbalzata fuori. Arrivate a Rebibbia lei, bagnata fradicia, mi congeda dicendo: “Non stare ad aspettarmi. Piuttosto che risalire sulla macchina di Valentino preferisco rimanere in carcere”.
Faccio alcuni chilometri poi mi fermo in un bar e telefono al giornale. Occupato. Di nuovo: non risponde nessuno. Finalmente risponde la centralinista e mi mette in attesa. Quando mi riprende chiedo di Valentino. Cade la linea, richiamo. Mi faccio infine passare il mitico e onnipotente segretario di redazione, Piero De Gennaro. Gli espongo i fatti. Lo prego di parlare lui con Valentino. Piero impreca in cinese ma dice si. Risalgo sulla macchina e ci trovo dentro due gatti. Lotto con i gatti ed essi hanno la meglio. La macchina però non riparte più. Non so che fare, non ho una lira, aspetto. E, mentre aspetto, vedo passare un’auto blu con a bordo non so quale deputato che per fortuna aveva dato un passaggio a Rossana. Lei sedeva dietro, regale, con la borsa sulle ginocchia. Mi scaravento fuori dalla macchina morta di Valentino e sbraccio. Rossana abbassa il finestrino di un millimetro e sibila: “Sali”. Salgo, torniamo al giornale. Valentino mi viene incontro di filato. Penso: “Sono finita” e comincio a farfugliare: “Vale, ecco, vedi, la tua macchina….”. Vale alza la voce (gli costava uno sforzo immane): “Paola che cazzo fai, a che ora arrivi, ci sono le tue pagine aperte!” e infila la porta, diretto verso l’ascensore e il bar Antille. Poi si volta e aggiunge: “La portiera era rotta, Rossana avrebbe dovuto avere l’intuito di non aprirla”.
Unico commento di RR all’accaduto, giorni dopo: “Dobbiamo cercare di voler bene a Valentino”.
7. Sotto a chi taglia
Quando chiudevamo in tipografia il numero sul ventennale del ‘68 e lei se ne fregava delle lunghezze, allora scendeva Piergiorgio Maoloni con i lucidi arrotolati intorno al polso e diceva: Rossana è lunga di quasi un metro, ora ci vuole un volontario che prenda coraggio, salga da lei e le dica che diamo una sforbiciata, non sarò certo io. Fuga precipitosa degli astanti, terrore, numero aperto sui banconi, tipografi imbestialiti, qualcuno andava a cercare Valentino ma lui non era alle Antille.
8. Il nodo 7 aprile
Ricordo di Rossana numero otto, quando al giornale faceva diventare tutti pazzi con il processo 7 aprile e il teorema Calogero, ma aveva ragione lei. Aveva completamente ragione lei. Ebbe pochi compagni di strada, sia pure straordinari, ma la faceva arrabbiare e soffrire l’insofferenza e talvolta l’aperta ostilità di chi Autonomia l’aveva detestata sempre e vederla bastonata, in gabbia e nelle carceri speciali, non dava fastidio più di tanto. Lì c’era una questione politica essenziale per la democrazia, la libertà e le garanzie, per la storia sovversiva della nostra generazione, una violenta rottura della tradizione politica cui lei apparteneva, Rossana vedeva quella, la teneva a fuoco senza distrazioni e tirava dritto, con il mento alzato e le labbra serrate, perché RR per la politica soffriva e lottava come altre per un amante: disperatamente, generosamente.
Conobbe i sovversivi incarcerati, gli intellettuali colti e affascinanti e pure gli scalmanati, che talvolta poi coincidevano (non sempre). E le interessavano – erano rivoluzionari comunisti, come lei ma diversi da lei, tanto che poi, quando furono liberi, ebbero liti leggendarie – e andava a trovarli nelle galere, ai processi alle gabbie ogni giorno. Me la ricordo in partenza per la Svizzera sulle tracce del pentito Fioroni, nell’atrio di via Tomacelli, in giacca di pelle, pantaloni a sigaretta, cappello Borsalino, bella come Meryl Streep, l’unica che potrebbe interpretare RR in un film in mancanza della Garbo.
In questa foto ha un abito nordafricano bianco e azzurro che portava in piena estate, tornando dal mare che le piaceva tanto, detto “il vestito di Miriam Makeba”
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