3 ottobre 1967: finisce la fuga di Notarnicola e Cavallero

Tutto finì il 25 settembre 1967; l’ultima azione, in quattro. Dopo piazza Rivoli avevamo arruolato Adriano Rovoletto, insuperabile come autista; quella volta portammo anche una nuova recluta: Donato Lopez.

Fu la sua prima azione, ma anche l’ultima. L’assalto alla banca di Milano fu di una grande perfezione tecnica, ormai eravamo dei veterani. Solo che dopo, per caso, fummo intercettati dalla polizia: sparatorie, morti, feriti, uno dei nostri, Rovoletto, catturato.

Le prime ore di fuga senza pensare

Riuscimmo ancora a sganciarci, Piero e io, e rimanemmo latitanti otto giorni, braccati dappertutto. Ce ne rendemmo conto con angoscia e per noi fu l’ora della verità. Eravamo ricercati da tutti: polizia, cittadini, uomini, donne, tutti contro di noi. Che sconfitta, anche se venti milioni di taglia erano una potente molla che eccitava l’istinto di caccia. Eravamo soli, in campagna, fuori da ogni contatto umano.

Dentro di noi stava prendendo corpo la certezza che le nostre ore erano contate, ci consideravamo già finiti.

Le prime ore furono assorbite dalla fuga, non ci fu tempo per pensare e parlare. Quando finalmente riuscimmo a trovare un posto dove sostare con calma, per riprendere le forze, cominciai a riflettere. Tutto appariva buio, per il momento, ma in fondo avevo motivo di nutrire ancora qualche lievissima speranza. «E’ andata male» dissi a Piero.

Le mie illusioni, il silenzio di Piero

«Ma cosa pensi? Possiamo ancora farcela? Abbiamo ancora degli amici, abbiamo tutti quei soldi. E’ difficile raggiungerli, metterci in contatto, però dobbiamo studiare il modo di riuscirvi. Quel denaro che abbiamo messo da parte per finanziare l’attività politica ora potrebbe salvarci…».

Piero non rispose subito. Eravamo in un boschetto di pioppi, lungo il Tanaro, in una casupola di cacciatori. Tutto intorno a noi era pace e quiete. Era un bellissimo settembre, ma a un chilometro di distanza, sul ponte che portava ad Alessandria, vedevamo i posti di blocco dei carabinieri.

A Milano era andata male, ma nonostante tutto noi due eravamo riusciti a venirne fuori; avevamo preso un treno operaio a porta Genova. A Mortara uno della “madama” ci aveva visti, avevamo fatto appena in tempo a scendere. C’erano due suore: prendemmo le loro valigie e le accompagnammo fuori dalla stazione mentre stavano arrivando dei carabinieri. Era ormai notte, in una cittadina sconosciuta, anche il nome era… inospitale.

Un passaggio in auto nella nebbia

Non potevamo girare per le strade deserte, prendemmo la via della campagna. Dopo, un poco a piedi, un poco a bordo di un’auto sulla quale due giovani di Olevano ci avevano dato un passaggio, potemmo allontanarci da Mortara. Con cortesia e ingenuità si erano fermati, vedendoci a piedi, nella nebbia.

Era una strada che portava al loro borgo; quando li vedemmo fermarsi un poco avanti a noi, e aspettare, ci prese quasi un accidente, poteva avere conseguenze molto gravi; ma riuscimmo a mantenere i nervi a posto, ci facemmo accompagnare in paese e li lasciammo andare. Prendemmo il treno per Alessandria.

La mia proposta iniziale era stata di tentare la strada del sud, se fossimo riusciti ad arrivare in Calabria, lì difficilmente ci avrebbero beccati. Se non ci fosse stato quell’intoppo a Mortara, forse ci saremmo riusciti. Avevamo perso altre ore preziose; pensavamo che se avevano bloccato una cittadina, chissà come il nostro treno, che proveniva da Milano, sarebbe stato ricevuto ad Alessandria!

Alessandria circondata dai posti di blocco

Ora l’unica soluzione era scendere a Valmadonna, frazione di Alessandria, e poi andare a piedi alla stazione, e prendere il treno che da Torino andava al sud. La polizia cercava qualcuno che scendeva dai treni provenienti da Milano, non qualcuno che entrava in stazione. Ci trovammo in una zona della quale non eravamo pratici; tentammo di raggiungere Alessandria: niente da fare, posti di blocco su tutte le strade, i ponti, gli incroci obbligati.

Camminammo tutta la notte, impossibile passare. Ormai era scattato l’allarme. Tutta la polizia era mobilitata, i giornali, la radio, la televisione avevano diffuso la notizia, le fotografie, non restava altro che trovare un posto in cui sparire e attendere che si calmassero le acque. E riuscimmo a trovarlo, sebbene non fosse facile, in una delle zone più popolate d’Italia.

Ora potevamo avere un po’ di calma per fare il punto della situazione. Piero confermò: «Per gli amici, i soldi, le armi, bisognerà trovare il modo di arrivare a Torino. Ci vorrà del tempo, bisognerà aspettare che tutto si calmi, ormai. Siamo infognati qui, non abbiamo scelta, è una lotta contro il tempo. Avevi ragione, al sud sarebbe stato diverso, avremmo potuto restarci dei mesi senza essere segnalati, poi ci saremmo messi in contatto con gli amici. Ora invece la situazione è capovolta».

Immobili a due metri dai carabinieri

«Possiamo farcela anche qui, con tanta fortuna, e con tanta capacità di resistenza: per ora non possiamo saperlo, in seguito vedremo. Se riusciremo a superare il periodo più acuto delle ricerche, forse potremo prendere contatto con quelli che conosci, recuperare il denaro e poi andare al sud. Là studieremo il da farsi. D’altronde gli amici potranno anche aiutarci in altro modo, non credi?». Piero annuì.

Non ci restava che aspettare. La cosa più urgente era trovare cibo e acqua. Risolvemmo anche questo problema, per quel tanto che bastava a stare in piedi. Per alcuni giorni tutto andò liscio. Ma era una zona battuta dai cacciatori. Alla fine qualcuno ci vide, non ci riconobbe, ma ormai non era più prudente rimanere.

Si avvicinava il finesettimana: chissà quanti altri ne sarebbero venuti. Tentammo di andarcene di giorno, ci sembrava che tutto fosse tranquillo, ma alcuni ragazzi segnalarono la nostra presenza, piombarono sul posto i carabinieri, facemmo appena in tempo a penetrare in un boschetto.

Dietro di noi c’era il fiume: aspettammo con le armi in mano. I carabinieri arrivarono a un paio di metri da noi, non osarono entrare nel boschetto, se ne andarono. Dopo l’arresto seppi che parecchie segnalazioni precise erano giunte sulla nostra presenza nella zona; ci rendemmo conto che non potevamo più rimanere sul posto, avrebbero potuto tornare in forze e non avremmo avuto scampo.

Tre giorni di marcia nei campi

Decidemmo di andarcene, di notte, attraverso la campagna e le colline. Fu una marcia massacrante. Dopo tre giorni, a tappe, raggiungemmo il casalese. Avevo continuato a tirare la marcia, mi premeva arrivare al più presto in qualche posto – come a esempio Casale – che conoscevo, per cercare di mettermi in contatto con quella gente che avrebbe potuto tirarci fuori dai pasticci.

Avevo una meta e ciò mi impediva di sentire troppo la stanchezza e la fame. Piero era meno desideroso di andare avanti, se ne fregava, era indifferente; diceva che la questione era fare passare più tempo possibile perché le acque si calmassero.

Il due ottobre eravamo a Villabella, era mattino, ci videro e ci riconobbero. Comperammo da mangiare e riprendemmo la strada dei campi.

L’ultimo rifugio: un casello abbandonato

Arrivammo a un casello ferroviario abbandonato, entrammo, non si poteva più andare avanti senza essere visti da qualcuno, era giorno fatto. «Siamo fregati», disse Piero. «A quest’ora la polizia sa che siamo da queste parti, arriveranno a centinaia, magari con i cani, ci troveranno». «Eppure non possiamo andarcene di qui», risposi. «Nei campi ci sono i contadini, i cacciatori, siamo obbligati ad aspettare la notte».

La sera eravamo ancora lì, nessuno era venuto. Ma non eravamo riusciti a dormire, il posto era troppo vicino alla strada. Ci parve che i nostri timori fossero infondati ed era vero. Le indagini si erano indirizzate da un’altra parte. Era necessario un po’ di riposo e passammo la notte nel casello. Fu l’ultima notte di libertà.

Era durata otto giorni la nostra latitanza; ci cercarono dappertutto, fecero rastrellamenti, posti di blocco, arresti in massa di pregiudicati, l’operazione costò centinaia e centinaia di milioni allo stato. Se avessimo avuto un minimo appoggio, ce l’avremmo fatta anche stavolta. Ma pagammo il prezzo del nostro isolamento; ogni giorno che passava prendevo coscienza di questo fatto, riflettevo su tutto quanto, cominciavo a capire.

Condannati dal nostro isolamento

Avevo voluto marciare da solo, e questo era il risultato. Senza legami con nessun movimento politico, anche indiretto, ci eravamo chiusi in noi stessi, i miei compagni si erano addirittura persi in un individualismo esasperato. Mi venivano in mente le invettive di Piero contro la classe operaia, colpevole di non fare la rivoluzione: alla fine era arrivato a rifiutare persino la sua stessa classe.

Chiunque non prendeva in mano il mitra subito era un traditore, un vigliacco; ripeteva queste cose anche mentre eravamo latitanti. Dovetti convincerlo, con lunghe discussioni, che forse non tutto quello che diceva era giusto, forse eravamo stati noi ad andare troppo avanti, e avanti nel modo sbagliato, ora ne subivamo le conseguenze, era inutile prendersela con gli altri, tutti ci erano nemici, era vero, ma era anche colpa nostra, continuavo a ripetergli.

E dovevamo cercare di cavarcela o di morire con dignità, ma senza far pagare i nostri errori ad altri, a quelli della nostra classe. Respinsi così ogni proposta di usare la violenza contro i poveracci che ci venivano a tiro, autisti, cacciatori, contadini; i poliziotti erano un’altra cosa.

Ma noi non eravamo dei veri criminali

Alla fine Piero cominciò a capire, almeno da un punto di vista umano, che non potevamo comportarci in un certo modo. Qualsiasi cosa avessimo fatto eravamo sempre diversi dai fascisti, dai borghesi e dai criminali prodotti dalla borghesia.

Questo dovevamo ricordarlo, nonostante tutto; forse nel combattimento con la “madama” avevamo colpito qualcuno, anche prima era già successo, in momenti di estrema tensione o per errore, ma questo non significava l’intenzione di uccidere. E così rinunciammo anche a quelle che potevano essere le ultime possibilità di salvarci.

Magari non ce l’avremmo fatta lo stesso, tuttavia dei veri criminali avrebbero tentato; l’ergastolo era certo, e anzi, nel bilancio era probabile lasciarci la pelle, dunque non c’era niente da perdere nel tentativo, tranne che il rispetto della nostra coscienza. Per tutta la fuga ci attenemmo a questa linea di condotta.

Le ragioni della durezza di Piero

I primi giorni Piero aveva tentato di imporre una sua linea, impostata a un’estrema durezza. Solo dopo ne avrei compreso il perché: io sentivo il fallimento politico, ma credevo di avere ancora una possibilità di recupero; lui sapeva che eravamo finiti, che non c’erano speranze; tutto era bruciato alle nostre spalle.

Per lui si trattava ormai solo di un puntiglio: durare il più a lungo possibile, in giorni e in ore, e vender cara la pelle. Riuscii comunque a farlo ragionare in modo diverso e non facemmo del male a nessuno.

Venne il tre ottobre. Ci svegliammo prima dell’alba. Eravamo intirizziti dal freddo, con le ossa rotte. «Prepariamoci, è ora di andarcene», dissi svegliandolo. Brontolò un poco. Cercò di nicchiare: «Non possiamo metterci in viaggio, non abbiamo neppure l’acqua». Era vero e non sapevamo dove e quando trovarla.

L’unica soluzione era tornare a Villabella, conoscevamo già il posto. «Se non è venuto nessuno finora è stato perché non erano sicuri che fossimo noi. Magari avranno pensato che abbiamo preso il treno per Casale, chissà…». «Andiamo allora, fin ch’è buio». Una passeggiata di due chilometri ci sgranchì le gambe, ci scaldò i muscoli.

E Piero si rabbuiava sempre più

Arrivammo in paese, fummo notati da qualcuno. Prendemmo l’acqua, tornammo al casello. Lungo la strada discutemmo sulla situazione: ormai era quasi certo che ci avevano riconosciuti. Al casello dovevamo tornare per riprendere la borsa contenente il cibo e altro. Ma stava facendosi tardi. Vedevo che Piero si rabbuiava sempre di più, era molto teso.

Aveva cominciato a essere irritabile a mano a mano che ci avvicinavamo a Casale, la sera prima aveva anche proposto di tornare ad Alessandria. Ora, dopo che ci avevano visti, gli stava tornando l’espressione di otto giorni prima, a Milano. Non parlò più fino al casello.

Andammo al piano superiore, cominciai a preparare la borsa. Lui si sedette e accese una sigaretta: «Che cosa fai?». «Ce ne andiamo». «Dove?». «Mah, a Casale. Cominciamo intanto a uscire di qui, abbiamo ancora una mezz’oretta prima che escano i contadini. Dobbiamo arrivare a Casale, non c’è molto; di lì cercheremo di telefonare ai tuoi amici, no?». «E’ inutile, è tutto inutile», rispose Piero. «Come?…».

“Siamo fottuti, non ci resta che morire …”

«Qui o a un chilometro di distanza, a Casale o ad Alessandria, è tutto la stessa cosa, non fa differenza. Siamo fottuti, non c’è niente, non c’è soluzione, non esiste nulla di ciò che credi, nessuno che ci possa aiutare, capisci, ora?». «Ma che cosa dici?».

«Quel che ho detto, nient’altro. Sono stanco, stanco morto, non c’è motivo di muoversi, non c’è una meta, morire qui o un po’ più in là è la stessa cosa… siamo al punto in cui non c’è più nemmeno una ragione valida per mentire». Lo ascoltavo allibito. «Può darsi che vengano, come può darsi che no. Sono stanco, stai un poco tu alla finestra, guarda la strada, avverti se arrivano!

Se per caso anche stavolta non hanno creduto alle notizie dei paesani, magari hanno pensato a un falso allarme, stasera ce ne andremo, andremo dove deciderai tu, per me ormai tutto è indifferente». Mi pareva di capire e al tempo stesso mi rifiutavo ancora di credere, chiesi ancora spiegazioni. «Tutte storie, erano tutte storie… cosa vuoi che anche adesso continui a raccontare storie? Non ci sono soldi, non ci sono amici, ci siamo solo tu e io, e tutto il mondo contro di noi».

Il gelo, poi la rabbia fredda

Mi sentii gelare. Poi mi venne una rabbia fredda, ma mi mancò perfino la forza di bestemmiare. In quel momento capii che tutto era veramente finito. Ma dentro di me qualcosa si ribellò: non era così che poteva finire, tutto era assurdo, avevo lavorato per anni per costruire qualcosa, ero andato a Milano prima e a Genova poi per creare delle basi di lavoro.

Dal ’65 in poi avevo rischiato la pelle per 150000 lire al mese prelevate dal bottino, per lasciare da parte il gruzzolo che costituisse la piattaforma per un lavoro politico. E tutto era stato inutile: questo mi diceva ora Piero mentre fumava una sigaretta. Continuai a chiedere, continuò a parlare, mi raccontò tutto.

Volevo sapere come era stato possibile un inganno del genere, non tanto compiuto contro di me, ma contro la causa. Volevo cercare di capire attraverso queste spiegazioni il motivo del nostro fallimento politico perché avevo coscienza che il fatto stesso di essere isolati e braccati da tutti come “banditi e rapinatori” era il fallimento di tutti i miei progetti, dei miei sogni.

Piero mi spiega la sua resa

«Sai perché non m’incazzo come te, ora?», riprese Piero, «Perché già da tempo erano morti dentro di me questi progetti, questi sogni. A te capita ora nel modo più brusco, al momento più duro, a me è successo a poco a poco… tempo fa. Ora non me la prendo più, vedi? Ho scelto di fare il bandito e creperò da bandito, è tutto razionale, no?

Certo, per te è diverso, ti capisco; è inutile chiederti scusa, sarebbero parole vuote, non cambierebbero nulla. Tu hai avuto un torto, o forse un merito, chissà, quello di essere un puro, e anche un sognatore ingenuo. Io mi ero scocciato a un certo momento di sognare. Ma non ti rendevi conto che a partire da un certo punto io e Danilo non eravamo più quelli di prima?».

Certo, mi ricordavo bene e ricordavo le discussioni, le fratture, certi loro atteggiamenti, certi ragionamenti, che mi parevano strani. Quante volte avevo dovuto intervenire per appianare le loro divergenze sul modo di agire e spingerli ad affrettare i tempi per l’inizio di un lavoro “politico”.

Ora capivo perché, mentre sul primo problema erano sempre antagonisti, sul secondo invece loro due erano sempre uniti nel trovare convincenti motivi per rinviare. Era ovvio, e me lo spiegò appunto Piero:

“Le rapine bastavano al bisogno di ribellione”

«Vedi, era impossibile fare ciò che ci eravamo proposti all’inizio. Anch’io, come te ora, cercai di non ammetterlo, ma poi, quando mi convinsi che le nostre forze erano troppo deboli per un piano così ambizioso, entrai in crisi, cominciai a perdere ogni speranza, cominciai a fregarmene di tutto e di tutti.

Quando mi accorsi che Danilo non marciava, che era esitante, che ogni nostro progetto era destinato a fallire politicamente, che non si sarebbe potuti passare a una fase costruttiva, allora decisi di continuare sulla strada iniziale; per me attaccare una banca era già sufficiente ad appagare il mio desiderio di ribellione.

Tu mi chiedi del denaro, che fine abbia fatto: ricordi, vero, come i primi tempi la nostra organizzazione riusciva a stento a finanziarsi, tutte le iniziative mangiasoldi, l’autorimessa, la carrozzeria, l’impresa edile di Aosta, tutto per dare una copertura alla nostra attività, ai nostri spostamenti, e le trasferte, le basi a Milano, a Genova, e tutto il resto?

Cosa vuoi, a un certo momento mi sono scoglionato, è tutto un lavoro inutile, pensai, e poi, Danilo, tu lo sai bene come si comportava Danilo. Non lo critico. Per tanti versi è stato il miglior compagno che potessimo avere, ma era inevitabile che vivendo in un certo modo, in un certo ambiente finisse per avere una mentalità piccolo-borghese.

Cominciò a prendersi sul serio, come impresario e questo lo fregò e ci fregò tutti. Era in buona fede, certo, ma a poco a poco cominciò ad assumere una mentalità borghese. E noi ce ne accorgemmo da quel suo non voler partecipare più alle azioni.

Alla fine, dopo il fallimento delle iniziative di copertura, che ci mangiarono milioni, mi disse chiaramente che non aveva più intenzione di correre tanti rischi per niente. Ricordi? Ci fu ancora una discussione burrascosa dopo l’assalto di Rivarolo Canavese…».

Due piccolo-borghesi attratti dai soldi

Ricordavo benissimo, ricordavo pure quel mezzo disastro che era stato l’assalto alla gioielleria, e le relative discussioni, tra lui e Danilo, e tutte le altre volte precedenti.

«Bene, tutte le divergenze fra me e Danilo si riducevano al modo di agire, ma il fine era comune; fare semplicemente delle rapine e intascare i soldi, tanto, avevamo provato prima a fare diversamente, che cosa avevamo ottenuto? Niente. Solo rischi e sacrifici. L’unica differenza fra me e Danilo era di natura psicologica, non politica. Eravamo dei piccolo-borghesi tutti e due; lui voleva fare il colpo grosso e poi ritirarsi in santa pace, io volevo continuare a fare ciò che avevamo sempre fatto, mi piaceva, oltre ai soldi c’era pure la soddisfazione di muovermi, agire, di vincere contro tutto l’apparato poliziesco; anche se erano piccole battaglie, erano le ‘mie’ battaglie, capisci?».

«Ma allora non era vero che ti proponevi di passare alla guerriglia…».

I miei compagni corrotti dal denaro

«Ma che vuoi, per me era già una guerriglia, quella che facevamo, mi andava bene così, te l’ho detto. All’altro ci avevo rinunciato dopo le prime 4 o 5 azioni. Danilo se ne fregava e cominciò a cercare solo la grana. Adriano dovevo minacciarlo e ricattarlo perché venisse, tu eri perduto nei tuoi sogni, che ormai mi parevano irrealizzabili. E allora perché dovevo agire diversamente?».

Cominciavo a comprendere. Mi ero sbagliato sui miei compagni e forse era inevitabile che essi si fossero comportati così: il denaro corrompe, l’insuccesso dei progetti li aveva demoralizzati, indifferenti ai loro ideali di una volta, erano caduti in quell’amaro scetticismo tipico dei piccolo-borghesi che credono solo in se stessi e basta.

Avevano cominciato a sperperare il denaro, dapprima senza accorgersene, poi prendendoci gusto, quel denaro che doveva costituire il fondo per un’attività diversa. Poi Danilo si era preoccupato per i rischi troppo forti, aveva visto che si correva verso la morte… allora aveva tentato di accelerare i ritmi per poi sganciarsi. Ma se n’era andato, in un incidente aereo, prima di riuscirvi.

Piero da quel momento era diventato intrattabile, aveva continuato a sperperare i soldi e al tempo stesso a premere continuamente per fare altri assalti, sempre più duri, in una folle corsa alla sfida per la sfida. In fondo, il nostro, per ragioni diverse, era stato un suicidio collettivo.

L’alba della mia disfatta

Ero alla finestra, fuori cominciava ad albeggiare, la nebbia andava diradandosi. La campagna era davanti a me umida, piatta, desolata, vuota come era vuoto il mio futuro. Erano pochi minuti che lui aveva cominciato il suo monologo e in pochi minuti il mondo mi era crollato addosso. Il passato tornava alla mente, improvviso, a tratti, episodi, parole, gesti.

Guardavo fuori, la campagna, la strada deserta, uno spettacolo angoscioso: rifletteva tutta l’angoscia che mi afferrava. A tratti mi giungeva la sua voce, ma non la sentivo più, ero solo con la mia sconfitta, in me tutto era morto. Gli uomini con cui avevo rischiato la vita, in cui avevo fiducia assoluta, mi avevano tradito.

I miei progetti si erano dissolti e con essi tutto ciò che per anni mi aveva dato forza di vivere, di combattere. Ogni tanto una frase: «Non ti dicemmo mai nulla, come non ti ho detto niente in questi giorni… tu eri troppo utile, indispensabile. Te ne saresti andato. Ora siamo alla fine, per questo ti dico tutto, ormai nulla ha più importanza».

Una voce dal passato che ormai rifiutavo

Sentivo queste parole e nello stesso tempo non le sentivo più. Ormai il distacco fra me e lui era completo, non c’era più niente in comune, la sua voce veniva da un altro mondo, da un passato che ora rifiutavo completamente; guardavo la strada e desideravo solo andarmene, chiudere per sempre con lui e con tutti… ormai pensavo solo a questo: andarmene.

Mi dissi: «Appena scende la sera, me ne vado, ora non posso; non parlo più, non mi interessa più; appena si fa buio, me ne vado; il distacco psicologico non basta, è necessario che ognuno vada per la sua strada, faccia lui la sua guerra, se ne resti con le sue follie».

Eravamo da neanche un’ora lì dentro; lui continuava il suo discorso, con voce monotona, parlava a me o a se stesso? Non so, forse gli era necessario togliersi il peso dallo stomaco, forse sentiva avvicinarsi la fine. Non sentii neppure di odiarlo, ero solo stanco, di una stanchezza mortale, non volevo più sentirlo parlare, né rispondergli, né guardarlo.

«Appena buio, mi dicevo, me ne vado e non ci rivedremo mai più. E tutto sarà finito. Danilo è morto da un anno, Adriano forse a quest’ora è morto anche lui, ho visto la macchia di sangue vicino al cuore, l’ho visto cadere. Il ragazzo, quello non ha niente a che fare, non è mai stato dei nostri».

Passò il treno, un rumore assordante. Poi mi giunsero le sue ultime parole: «… ti ricordi quando acquistammo quelle armi: le mitragliatrici, i fucili, l’esplosivo. Danilo seppellì tutto. Ora sì che servirebbero, le bombe a mano, se vengono quei bastardi, o una buona mitragliatrice…».

Sante Notarnicola, bandito …

Ormai, per me, era veramente come se parlasse a se stesso.

Si abbassarono le sbarre del passaggio a livello. Arrivarono delle macchine. Poi si fermò una 1100, scesero dei carabinieri, più in là c’era un gippone, si avvicinarono al casello con i mitra spianati. Lui sentì dei rumori, mi chiese cosa fosse. «Niente», risposi.

«Contadini». Pochi secondi, un lampo, il riflesso di tanti anni di addestramento a combattere in sincronismo, l’istinto di avvertirlo, tentare la sorte, ancora una volta. Poi immediatamente la stanchezza, il rifiuto, il distacco psicologico ebbero il sopravvento. «Basta, questa volta basta, sono affari suoi, io non c’entro in questa sua guerra privata…»; e tacqui. Pochissimi secondi, il rumore degli scarponi nella stanza di sotto, poi su per la breve rampa di scale.

Balzò, convinto che fossero dei contadini, mi guardò, vidi una luce di stupore e poi di allarme nei suoi occhi. Girò lo sguardo e si trovò la canna del mitra davanti. Tutto era veramente finito. Dietro il carabiniere sbucò il vecchio maresciallo. Mi guardò. «Tu chi sei?».

«Sante Notarnicola, … bandito!»

Fonte: Sante Notarnicola, L’evasione impossibile, 1972, Feltrinelli.

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Ugo Maria Tassinari è l'autore di questo blog, il fondatore di Fascinazione, di cinque volumi e di un dvd sulla destra radicale nonché di svariate altre produzioni intellettuali. Attualmente lavora come esperto di comunicazione pubblica dopo un lungo e onorevole esercizio della professione giornalistica e importanti esperienze di formazione sul giornalismo e la comunicazione multimediale

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