7 dicembre 1976: scontri alla Scala. Jacopo Fo racconta la nascita del ’77

Il 7 dicembre 1976, 40 anni fa, gli scontri per la prima alla Scala segnano il battesimo del fuoco per i circoli del proletariato giovanile, già balzati all’onore della cronaca per la bagaria della festa di parco Lambro, nell’estate. Per molti rappresenta il Capodanno del Settantasette. Qui il racconto di Jacopo Fo, uno che in abbondante anticipo con lo spirito dei tempi e l’aria che tirava in famiglia si era spostato “tra coloro che già avevano abbandonato l’ala ultramilitarista intorno all’inzio del 1975.

Il nostro unico scopo era che non andasse molto male. Non mi ricordo di aver mai aspettato un corteo con tanto terrore. I giornali ci dipingevano come mostri. La polizia aveva mano libera per farci a pezzi.
A noi toccò la zoa sud-ovest. Stabilito questo iniziamo a cercare 150 kamikaze per fare il lavoro sporco. Li ingaggiamo nei vari collettivi che occupano case. Dieci da una parte, dieci da un’altra. Piccole bande molto affidabili. Il giorno convenuto all’ora convenuta sto male. Ci troviamo in 70 nel nostro circolo giovanile. Prendiamo due autobus, in via Pierlombardo troviamo gli altri 80.

Dovevamo incominciare bloccando piazza Cinque Giornate. Mandiamo avanti un gruppo a vedere che aria tira. Quando tornano hanno gli occhi fuori dalle orbite. In piazza Cinque Giornate c’è un corteo con megafoni, striscioni e bandiere rosse. Per un attimo pensiamo a qualcun altro che non c’entra niente, tipo un presidio antifascista del Movimento Studentesco (Capanna) o un’agitazione di quartiere dell’Unione dei comunisti marxisti leninisti. Invece sono alcuni collettivi giovanili della periferia (sconosciuti) calati in città in cerca di sangue, metà dell’ex servizio d’ordine di Lotta continua e uno squadrone di cattivissimi di alcuni comitati di quartiere (vere belve).

Chi comanda nel corteo?

Gli chiediamo se gli aveva dato di volta il cervello o sono semplicemente diventati scemi ad arrivare così in tanti e con gli striscioni. Ci rispondono che sono loro i collettivi giovanili, noi replichiamo che siamo noi i collettivi giovanili, loro ci dicono che ci rompono la testa. A quel punto capiamo che ci hanno fregato il corteo. Era il primo che dirigevamo nella nostra vita e ce lo avevano fregato. Inizio a stare veramente male. Colica renale.
Immediatamente i nostri 150 perdono ogni compattezza. Ci ritroviamo ridotti a una ventina di desesperados. Decidiamo, con spirito patriottico, di sacrificarci per salvare il salvabile. Prendiamo la coda del corteo e cerchiamo di seguire la tattica decisa bloccando la strada con macchine messe di traverso.

Arrivati in Porta Ticinese, ci rendiamo conto che il nostro lavoro aveva fermato solo due auto. La campagna dei giornali aveva terrorizzato tutti: la città è deserta. Difficile provocare ingorghi in una città deserta. La nostra strategia è saltata. Niente ingorghi. E per giunta la testa del corteo si rifiuta di svicolare per le viuzze. Vogliono percorrere le vie principali che fa più figo.

La scelta dei boys di Quarto Oggiaro

Passa così più di un’ora. Sto sempre più male. Uno sforzo disumano, cammino piegato in due con una sacca con dentro due bocce appesa alla spalla, ho in mano la spranga.
A quel punto chiediamo a quelli in testa di sciogliersi e andare a casa come previsto. Avevamo fatto già molto e si poteva finirla lì. Rischiare oltre era stupido. Facciamo un chilometro verso piazzale Baracca, ci fermiamo di nuovo a discutere, si tiene una riunione, in mezzo alla strada, tra i responsabili delle varie squadre di servizio d’ordine, e finalmentetutti sono d’accordo per sciogliere il corteo. Stiamo andando a comunicare la decisione ai nostri rispettivi gruppi quando alcuni dementi di Quarto Oggiaro, tutti al di sotto dei 16 anni, decidono di partire verso il centro della città e la Scala. Altri cretini li seguono entusiasti.…

A quel punto gli andiamo tutti dietro perché non si poteva lasciare che si suicidassero così giovani. Torniamo così in corso Magenta, riusciamo a bloccarli. Finalmente, riusciamo a raccogliere un gruppo di sette o otto capisquadra e insieme cerchiamo di convincere tutti a tornare verso la periferia, terminare quella fesseria e scioglierci. Ci si scioglie… non ci si scioglie. Basta, sciogliamoci!
Ormai sono in coma.

Come siamo caduti in un’imboscata

Sto per tornare al mio gruppo per dare la notizia che finalmente ci sciacquiamo dalle palle e proprio in quel momento vedo uno strano riflesso di luce intermittente in fondo alla strada deserta. Ci metto 5 secondi per capire che la luce è il riflesso degli scudi di plastica trasparente e delle visiere dei caschi di uno squadrone di carabinieri. Mi aspetto che i compagni in testa buttino le molotov per bloccare la carica dei carabinieri. Non succede niente. Niente. Continuo a correre verso la coda del corteo dove sono schierati i miei soci per spostarci insieme verso la prima linea e arrivato lì mi trovo invece davanti un plotone di cappotti grigi della Ps che sciamano giù da alcuni camion e ci vengono addosso.

Ci hanno chiuso in trappola. Corso Magenta non ha vie laterali. Una classica imboscata.
Le forze dell’ordine non si stanno comportando come eravamo abituati: niente lacrimogeni, niente trombe, niente sgasate di gipponi. Silenzio. Ci stanno arrivando addosso in silenzio. Si sentono solo gli scarponi che battono sul terreno: una cosa da panico.

Il terrore e l’energia

Capisco immediatamente 4 cose:
1 • Vogliono caricarci di botte.
2 • Nessuno sta facendo uno sbarramento con le molotov.
3 • La battaglia è persa.
4 • Se non esco di qui mi massacrano.

Il terrore mi risveglia un’energia inaspettata.
Come per miracolo guarisco dalla colica renale, esco dal coma, resuscito, tiro fuori una molotov chimica dalla borsa a tracolla e mi lancio verso l’incrocio che la polizia sta chiudendo.
Immagine numero 23, da sinistra a destra: l’angolo della casa all’incrocio tra corso Magenta e via Vincenzo Monti. La gente si sta già accalcando, nella fuga, tra l’angolo della casa e il furgone. Decido che è meglio soli che in mezzo al panico.

Un poliziotto sta venendo verso di me col manganello alzato. Accelero, tiro la bottiglia e passo, quello dietro di me viene colpito da una manganellata. Ma questo lo so il giorno dopo. Non mi giro, faccio 200 metri di corsa, ho letteralmente la bava alla bocca che nel giro di dieci secondi secca gli angoli delle labbra. Un fenomeno chimico incredibile. Probabilmente la paura deve avermi provocato una tale scarica di adrenalina che la mia temperatura è salita a 2000 gradi fahrenheit.

Quando mi volto l’incrocio è un inferno di fuoco. Alcuni compagni, accalcandosi tra la casa e il pulmino sono caduti con le bottiglie in mano e hanno preso fuoco. Urla disumane, gente che corre in fiamme. Non ho mai visto una cosa del genere.

Una situazione disastrosa

Ricomponiamo un cordone e ci schieriamo per sostenere una nuova carica della polizia. Ma non succede niente. Poi ci vengono incontro due ustionati. Uno è grave, non ha più i calzoni ed è in stato di shock.
C’è un compagno che abita lì vicino. Andiamo a casa sua. Lungo la strada troviamo un altro ragazzo ferito. Arriviamo alla casa, suoniamo il citofono: “Apriteci abbiamo dei feriti.”
Sergio ha una spalla contusa per una manganellata ma si intende di ustioni. Una volta si è scottato friggendo le patatine. Ci dice cosa si deve fare.

Mandiamo una ragazza in farmacia. Facciamo bollire un paio di forbici e inizio a tagliare via pezzi di carne bruciata attaccata insieme a pezzi di vestiti carbonizzati. Il più grave ha le gambe e il sedere rovinati. Bolle di 5 cm di altezza. Arrivano le garze medicate con una pomata, lo copriamo con quelle e lo fasciamo. Poi passiamo agli altri due. Arriva un nuovo ustionato, non è grave. Dopo aver finito andiamo alla nostra casa occupata, anche lì ci sono feriti. Finiamo di rattoppare gente alle cinque di mattina.

Il bilancio del giorno dopo è spaventoso. Una ragazza ustionata gravemente resterà in coma a lungo. La polizia ha ferito decine di ragazzi inseguendo la gente nei palazzi e perfino sui tetti delle case. Uno è caduto sfondando un lucernario e si è spaccato le gambe. Il disastro segna l’inizio della fine dei circoli giovanili.
FONTE: Jacopo Fo-Sergio Parini, 68, c’era una volta la rivoluzione

Ugo Maria Tassinari è l'autore di questo blog, il fondatore di Fascinazione, di cinque volumi e di un dvd sulla destra radicale nonché di svariate altre produzioni intellettuali. Attualmente lavora come esperto di comunicazione pubblica dopo un lungo e onorevole esercizio della professione giornalistica e importanti esperienze di formazione sul giornalismo e la comunicazione multimediale

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