Moretti: il sequestro D’Urso fu il nostro capolavoro
Mario Moretti sul sequestro D’Urso, nel 40esimo anniversario della rivolta nel carcere di Trani. Il testo è stato estratto dal libro intervista con Rossana Rossanda e Carla Mosca, “Una storia italiana”
Ma qualcuno disse, nell’80, bisogna chiudere?
Nel 1980 a me nessuno ha detto: “Chiudiamo con la lotta armata”. E dal carcere quasi tutti hanno sostenuto un qualche gruppo di lotta armata fino a oltre il 1982, cioè persino oltre le Br e, secondo me, oltre la ragionevolezza.
Anche tu pensavi a un rilancio ancora possibile?
In quel momento sì. Per un momento l’organizzazione crede (spera) di aver trovato il modo di far quadrare il cerchio, con la Direzione strategica del 1980. Una linea che tenga fermi gli obiettivi finali, che erano sempre nostri e propri della propaganda armata, ma sappia agire sui bisogni immediati della gente. Per questo, si capisce, occorre diversificare i luoghi di intervento, gli operai del Nord, i disoccupati di Napoli, gli ospedalieri di Roma, e formulare rivendicazioni puntuali nelle quali essi si riconoscano e si sentano sorretti. Senza confondersi con una sorta di sindacalismo armato, e senza perdere volta a volta il punto di fin dove si possa arrivare e dove mediare.
È una pratica da partito, il contrario della guerra guerreggiata, insomma. Non scopriremo come ci si possa arrivare a partire dalla lotta armata. Certo era come correre a tutta velocità con un Tir in un vicolo stretto e pieno di curve, e non graffiare la carrozzeria di nessuno. Comunque è l’unica possibilità che abbiamo. Ci proviamo.
Da che parte cominciate?
Proprio dalle carceri e dai proletari imprigionati.
Per recuperare i compagni dentro?
Perché li stanno massacrando. E perché siamo molto forti dentro le carceri speciali. Perché ci sono e funzionano organismi unitari: minuscole code che rappresentano solo gli speciali e non la maggior parte della popolazione detenuta nei penali e nei giudiziari. Tuttavia possiamo assumerli come referente “di massa”. Progettiamo una campagna che considero il capolavoro politico delle Br, l’operazione d’Urso, con la quale chiudiamo il carcere dell’Asinara. C’è tutto in quell’azione. Riusciamo a dividere la magistratura che non vuole più immolarsi per quelle che considera le deficienze del sistema politico, tiene fermo il principio di legalità, ma si faccia di tutto per concludere con la liberazione di d’Urso. Il fronte della fermezza, dopo che il Pci è stato emarginato dall’area di governo, mostra qualche crepa. Solo il peggio dello schieramento reazionario rimane sulle posizioni: muoiano tutti, lo stato non cede.
Chiediamo una cosa precisa, di grosso valore umano e simbolico che si può ottenere subito: la chiusura dell’Asinara, un lager incubo dei detenuti, e la otterremo; nessuno, tanto meno la sinistra, osa difenderne l’esistenza. Lo scenario politico si divide, esplode il problema e la polemica sulla stampa, interviene Pannella. Scoppia una rivolta nel carcere di Trani, i detenuti occupano il carcere, avanzano alcune rivendicazioni. Niente di sconvolgente, colloqui, pacchi, qualche spazio interno, ma il governo manda i corpi speciali (è l’esordio delle teste di cuoio nostrane) che assaltano il carcere lanciando bombe a mano e sparando ad altezza d’uomo. Non ci scappano i morti solo per caso, ma quando i carabinieri riprendono possesso del carcere, li pestano selvaggiamente.
Venti ore dopo le Br uccidono a Roma il generale dei carabinieri responsabile del controllo militare delle carceri, Enrico Galvaligi. Tutto parrebbe destinato a bloccarsi su una reciproca esasperazione. Invece stavolta la breccia resta aperta, d’Urso verrà liberato poche ore dopo la lettura d’un comunicato dei prigionieri di due speciali, quello di Trani e quello di Palmi. Che dicessero, specie quelli di Trani, ancora nudi, ammassati a trascorrere la notte nei cortili all’aperto del carcere, doloranti per le fratture e le ferite subite dopo la rivolta: avrebbero detto sì, liberatelo, abbiamo vinto.
Il sequestro d’Urso è un esempio della linea che intendi? Come spieghi questo successo? La vostra capacità, dici, di porre un obiettivo concreto, condivisibile e ottenibile subito…
Su questo insistiamo. Sono le ultime dieci righe del comunicato che contano. È lo stesso d’Urso a suggerirci di farlo rilevare a una persona di sua fiducia presso il Ministero di Grazia e Giustizia, il dottor Zara Buda, credo si chiamasse così. Gli facciamo arrivare questo messaggio.
Ma dalla parte dello stato?
Dall’altra parte si impegna la procura di Roma. Il procuratore di Roma, Gallucci, e Sica vanno dall’avvocato Di Giovanni e gli chiedono di portare il comunicato ai detenuti e insistere perché lo leggano. Di Giovanni, che non lo ha, lo riceve dallo stesso Gallucci. La determinazione della procura di Roma è fermissima. Sica forse era più esitante. Lo incontrai qualche anno dopo e ne parlammo.
Tiraste un bilancio del sequestro?
Certo. L’abilità, la pazienza, i nervi saldi, la gestione dell’immagine pubblica, insomma un’azione armata ma con molte dimensioni politiche, aveva pagato. Non era stato puro scontro, solo guerra. I compagni sono d’accordo, la sensazione è che si sta risalendo. E si discute quindi delle tecniche di combattimento: se appena possibile non si uccide nessuno, perché quando hai dei morti è difficilissimo discutere alcunché, trovare le mediazioni. Con Galvaligi eravamo stati tirati per i capelli, ma d’Urso lo avevamo liberato. La soluzione incruenta doveva essere la nostra forza a imporla.
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