5 ottobre 1970: con il sequestro Gadolla nasce la lotta armata in Italia
Quando, la sera del 5 ottobre 1970 il diciannovenne Sergio Gadolla, secondogenito di Rosa, considerata la donna più ricca di Genova, al timone di un ventaglio di imprese che vanno dall’azienda di costruzioni avviata dal defunto marito Fausto, alla proprietà di numerosi cinematografi, viene bloccato, caricato in auto da due uomini e portato via, non si pensa a un’azione di tipo politico.
Se mai, fa impressione che, mentre la città viene colpita dalla terribile alluvione che mette in ginocchio la valle del Bisagno e il centro cittadino, avanzando da Ponente dopo aver devastato la zona di Voltri, il figlio di una delle famiglie più note della città venga rapito in una zona residenziale, il lungomare di corso Italia.
Un sequestro fortunoso
Ancora una volta è per Genova una prima. Di un fenomeno che negli anni seguenti interesserà, con frequenza e anche violenza crescenti, tutto il Nord Italia. Inizia la stagione dei sequestri di persona, fino allora praticati solo dai banditi sardi. È un sequestro fortunoso, a ben vedere. Si sceglie di prendere di mira la famiglia Gadolla perché dai giornali che avevano pubblicato la lista delle dichiarazioni dei redditi, la signora Rosa risultava essere la maggior contribuente di Genova, con un imponibile di 200 milioni di lire.
Poi, con una serie di pedinamenti, si scoprono indirizzi e abitudini di tutti i componenti. Si sceglie Sergio perché era un ragazzo robusto e fisicamente in grado di sostenere il sequestro. Il progetto è stato studiato durante l’estate. Viene coinvolto nell’organizzazione anche Diego Vandelli, che sarà definito in codice «lo svizzero», proprio perché estraneo al gruppo.
Vi è arrivato attraverso Renato Rinaldi (che peraltro aveva anche lavorato come muratore, per un periodo, nell’impresa di costruzioni dei Gadolla). I tanti sopralluoghi sui monti hanno permesso di scegliere il luogo dove verrà collocata la tenda che ospiterà il rapito.
La gestione a un malavitoso di destra
Come sempre, non tutti partecipano all’impresa: in quattro effettueranno il rapimento, uno resterà a Genova per telefonare alla famiglia del rapito e chiedere 200 milioni, il ricatto convenuto; gli altri tre raggiungeranno la zona del Monte Bue, in val d’Aveto, alle spalle di Chiavari, dove un quinto appartenente alla banda avrà sistemato la logistica (tenda e provviste).
L’azione non dovrà durare più di tre giorni, all’ostaggio non dovrà essere torto un capello, non ci saranno rivendicazioni politiche. Non a caso si è scelto di affidarsi a Vandelli, che è un uomo di malavita, e per di più di Destra, per le questioni pratiche.
Nulla va come previsto
Ma se il progetto, messo a punto definitivamente la sera del 4 ottobre, è preciso, in realtà nulla va come previsto, scambiando tutti i ruoli. Alla mezzanotte del 5 ottobre Vandelli, Rossi, Battaglia e De Scisciolo aspettano Sergio Gadolla sotto casa. Lo caricano a bordo di un’auto noleggiata, dove peraltro lasceranno anche alcuni loro indumenti, oltre che impronte digitali. Si fanno consegnare dal ragazzo il portafogli per dare alla madre Rosa Gadolla elementi certi. E’ Vandelli a fare un paio di telefonate, a dieci minuti l’una dall’altra. L’auto ha già preso la strada della prigione designata. Rossi e il rapito cominciano la salita verso il luogo dove sono state sistemate due tende e dove Gino Piccardo è in attesa. De Scisciolo, che poi tornerà a Genova con Battaglia, li accompagna per un tratto. L’ostaggio e il rapitore ci metteranno ore a raggiungere la destinazione.
Ormai è la mattina del 6 ottobre. La notizia si diffonde a Genova e fa un’immensa impressione. Si fissa un primo contatto per il pagamento del riscatto, che dovrà essere consegnato dalla stessa Rosa Gadolla. L’appuntamento – sulla autostrada A10, la Genova-Ventimiglia – salta per una serie di inconvenienti. Intanto sta cominciando a piovere, sempre più forte. Proprio Voltri è invasa dall’acqua. Nella delegazione del Ponente si conteranno numerose vittime.
L’alluvione devasta Genova
Ma dopo aver fatto straripare i torrenti Leira e Cerusa, il diluvio si sposta verso il centro della città: nelle prime ore del pomeriggio del 7 ottobre il Bisagno rompe gli argini, allagando la Val Bisagno e la zona di Brignole, sino alla Foce. La notizia del rapimento Gadolla diventa secondaria, davanti alla tragedia; sui giornali genovesi slitta nelle pagine interne. Un titolo e via di fronte a pagine e pagine di fotografie e drammatiche testimonianze: i morti, alla fine, saranno 25, i danni incalcolabili.
Il pagamento del riscatto slitta all’8 ottobre, sempre sull’autostrada ma stavolta nei pressi di Savona. Quel sequestro che doveva durare tre giorni ha già superato i tempi, anche in val d’Aveto piove disperatamente, Rossi e Piccardo, insieme all’ostaggio, non hanno più avuto contatti con il resto del gruppo; Piccardo decide di scendere a Genova, lasciando Rossi da solo con Sergio Gadolla. D’altro canto l’altro potenziale carceriere, Cesare Maino, si è fatto rompere qualche costola in una rissa la sera precedente l’azione, ed è fuori gioco.
Un finale grottesco
Piccardo arriva a Genova a piedi, camminando tutta la notte del 9 ottobre, e solo con difficoltà riesce a ritrovare De Scisciolo, rifornirsi di cibo e vestiti asciutti per tutti e risalire. Quello stesso giorno, però, Vandelli, che è rimasto da solo, è riuscito a farsi pagare il riscatto, dando appuntamento a Rosa Gadolla al monumento di Quarto, a metà pomeriggio.
E in questa fase il giallo si trasforma in pochade: Vandelli citofona a casa Gadolla, per dare l’appuntamento finale, ma in casa, insieme ai familiari del rapito, c’è la polizia. Così a Quarto, in attesa del passaggio di mano del riscatto – tutto in banconote da 10mila lire, in due borsoni – si appostano gli agenti e il commissario Mimmo Nicoliello che insieme a una poliziotta sono fermi in auto, fingendo di essere una coppietta. Scattano foto su foto, ma a vuoto: nella concitazione del momento, nessuno si è ricordato di togliere il tappo dall’obiettivo.
L’inseguimento scatta, ma la polizia perde di vista la Lancia Hf di Rosa Gadolla, che Vandelli si è fatto consegnare, nei pressi di Rapallo. Però alla sera la radio, come d’intesa, si trasmette l’annuncio in codice che permette la liberazione: «Lo svizzero autorizza la liberazione di Sergio Gadolla, che torni a casa sano e salvo».
Vandelli scompare con il bottino
E così, la mattina dopo il ragazzo viene lasciato nei pressi di Favale di Malvaro, legato a una staccionata in modo che possa facilmente liberarsi. Vandelli, invece, sparisce, almeno per qualche giorno, con l’intero bottino. Ma la banda riuscirà a rintracciarlo, e per il troppo disinvolto personaggio saranno ore difficili.
La polizia è confusa, l’ostaggio è a sua volta messo sotto torchio, come testimoniò lo stesso Sergio Gadolla, intervistato da Sergio Zavoli ne La notte della Repubblica: «Il riscatto fu pagato e a quel punto cominciarono i guai seri, o meglio quelli che ripenso anche più drammaticamente dello stesso rapimento. Non mi credeva la polizia, non mi credevano i magistrati, la tenda dove ero stato non si riusciva a trovarla nonostante le numerosissime visite su posti che ormai non riconoscevo più, perché la stagione era cambiata… Mi trovai una città contro».
Pansa: sono stati i tupamaros
Ma chi erano i rapitori? A capirlo furono i giornalisti che bivaccavano stabilmente in questura, come raccontava Vincenzo Curia, per oltre cinquant’anni cronista di nera e di giudiziaria de «Il Lavoro» e poi «la Repubblica: «Il risvolto politico che poi si rivelò esatto, fu intuito da Giampaolo Pansa, che all’epoca era inviato del “Corriere della Sera”. Insieme con tutti i colleghi facevamo il punto ogni giorno, in questura. Una mattina Pansa disse: “Ragazzi, qui noi ci scervelliamo, scaviamo nella famiglia dei Gadolla, nella delinquenza comune, eccetera. A mio giudizio si tratta di tupamaros”».
La certezza arrivò solo mesi dopo, con le indagini seguite alla morte di Alessandro Floris. Quando, in una borsa custodita in un magazzino di proprietà di Rossi, furono trovate una parte delle banconote da diecimila. Quelle del riscatto, quelle non ancora spese.
FONTE: Donatella Alfonso, Animali di periferia
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