3 marzo 1972: Moretti racconta il sequestro Macchiarini

Sequestro Macchiarini

Alla Siemens duriamo molto di più, praticamente dall’inizio alla fine delle Brigate Rosse. La Siemens era un’azienda molto più articolata, il ciclo era in espansione, e quel che dicevamo ha sempre trovato riscontro sia fra i tecnici sia fra gli operai. A un certo punto potevamo contare su un centinaio di compagni. Una volta, dopo il sequestro Macchiarini, un compagno cui chiesero che cosa producesse la Siemens rispose: «Telefoni e brigatisti, in uguale proporzione». [La prima azione delle Brigate rosse è l’incendio dell’auto di un dirigente Sit-Siemens (…)

Poco prima dell’irruzione di maggio della polizia nelle vostre basi avevate sequestrato alla Siemens l’ingegner Macchiarini: è un salto nella illegalità in fabbrica.

Certamente, lo sappiamo bene. È la prima azione in cui usiamo esplicitamente le armi: la lotta è armata. La decisione matura nella brigata di fabbrica. Macchiarini è un dirigente della Siemens, non appartiene all’olimpo della direzione aziendale, lavora a contatto con la produzione ed è molto conosciuto nello stabilimento di via Monterosa. Oltre a svolgere il suo ruolo per quello che è, come quasi tutti i dirigenti di quel periodo, spesso provoca gli operai in lotta, per cui è un bersaglio fisso dei cortei interni.

Decidiamo di prenderlo, di tenerlo per qualche ora e scattargli una foto dove lo si veda sotto il tiro di una pistola. Oltre a me partecipano all’azione tre compagni della Siemens; dovevano essere quattro, ma all’ultimo momento uno non se la sentì, un’azione armata è anche un fatto fisico tremendo, bisogna vincere la paura, andare contro la propria natura – come saltare un metro e ottanta, la convinzione non basta.

Nel gruppo c’era un partigiano delle Sap, ci dava sicurezza; presto capimmo che una cosa era stata la guerriglia in montagna contro i tedeschi e i fascisti, un’altra la guerriglia in città negli anni ’70. Comunque per catturare Macchiarini usammo una tecnica che divenne poi il nostro marchio: lo caricammo su un furgone e lo portammo in periferia. Fu più difficile scattare la fotografia, eravamo in quattro uno sull’altro nello spazio di poco più di un metro. E io non me la cavavo neanche come un fotografo della domenica.

Una diversa narrazione

(umt) Moretti non è precisissimo in due passaggi. Il partigiano in questione era Giacomo “Lupo” Cattaneo, militante di “Giustizia e Libertà“. Nel negativo di quella “pessima foto”, “caduta” in un covo, era riconoscibile e fu perciò arrestato, come racconta il celeberrimo pm dell’inchiesta, Guido Viola, il “giudice con la pistola”. Della figura umana del partigiano brigatista e del vergognoso errore (a lungo negato) delle Br offre un’ampia e puntuale ricostruzione Manolo Morlacchi, figlio di Pierino Morlacchi e Heidi Ruth, amici di Cattaneo e imputati nel processo al nucleo storico delle Br

Come reagì al sequestro Macchiarini?

Ma la fotografia era lo scopo dell’azione: mostrare un dirigente nelle nostre mani, in primo piano un cartello con le parole d’ordine della propaganda armata: “Mordi e fuggi”, “Colpiscine uno per educarne cento”, ‘Tutto il potere al popolo armato”. Gli slogan non erano tutta farina del nostro sacco, come vedete. E poi la pistola, simbologia inequivocabile. Quella pessima foto fece il giro del mondo.

Come tutti i dirigenti industriali che sequestrammo. Parlavamo la stessa lingua e parlavamo della stessa cosa. Non è mai accaduto lo stesso con politici o magistrati in situazioni analoghe. A me era facilissimo discutere con i dirigenti d’azienda, accusavo dal punto di vista operaio i carichi di lavoro, l’organizzazione delle mansioni, il senso politico della ristrutturazione – e loro le difendevano dalla parte dell’impresa. Non si giustificavano. Le spiegavano come necessità del processo produttivo.

Dopo azioni del genere, qualcosa cambiava nella fabbrica?

Cambiava il clima tra direzione e operai. C’era, è vero, chi strillava alla provocazione fascista, gli stessi che hanno ripetuto per anni questa sciocchezza, ma gli effetti si facevano sentire, eccome. Ricordo che mettemmo in crisi persino parecchi attivisti di estrazione cattolica, aclisti. Gente impegnata socialmente e politicamente, ma che non accettava la violenza – anche se con loro si poteva discutere, i cattolici impegnati sono gente strana – e dopo l’azione mi diceva: «Però avete ragione, adesso si respira un po’ più di libertà».

L’azienda mollava qualcosa?

Qualcosa. Ma soprattutto cresceva l’agibilità politica in fabbrica. Noi esprimevamo un contropotere che agiva su un terreno fino ad allora precluso. Erano azioni simboliche e nient’altro, ma ci sembravano il grimaldello per scardinare quel blocco che impediva il dispiegamento della forza operaia. Ma via via che sentivamo crescere la simpatia intorno a noi, ci cominciavamo ad accorgere quanto tutto questo fosse fragile. C’era lo stato, c’era la repressione. La lotta in fabbrica a un certo punto impatta con il senso generale delle cose.

Fonte: Mario Moretti con Carla Mosca e Rossana Rossanda, Una storia italiana

Ugo Maria Tassinari è l'autore di questo blog, il fondatore di Fascinazione, di cinque volumi e di un dvd sulla destra radicale nonché di svariate altre produzioni intellettuali. Attualmente lavora come esperto di comunicazione pubblica dopo un lungo e onorevole esercizio della professione giornalistica e importanti esperienze di formazione sul giornalismo e la comunicazione multimediale

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