Sofri: il diritto alla memoria vale anche per la libertà di oblio

[Un'intervista ad Adriano Sofri in occasione della presentazione a Salerno di “Memoria”, l'instant book che contiene il testo della sua memoria difensiva presentata al processo per l'omicidio Calabresi. La ripropongo per l'anniversario dell'omicidio]
sofri2Io sono completamente innocente dell'accusa che mi viene mossa. Ma battendomi fermamente per dimostrare la mia innocenza mi sono trovato di fronte alla contraffazione del mio modo di essere. A essa hanno messo mano in parecchi, alcuni volontari - altri solo mediocri e sventati. Mi sono forzato a dimostrare che io non ho ordito l'omicidio Calabresi - non ho mandato Marino - non ho avuto con lui il colloquio di una sera con il quale mi accusa - è stato molto difficile. Ad ogni passo ero trascinato su un altro terreno - a ogni passo avrei dovuto gridare - io non sono questo. 
La contraffazione proveniente dagli altri era poi meno insidiosa di quella cui io stesso rischiavo di costringermi - sotto il peso di una resistenza da condurre su un campo di battaglia antico e da tempo abbandonato. Non dovevo difendere me come sono oggi - con i miei pensieri arrotondati e la mia scarsa combattività - le mie buone maniere e i miei vecchi libri: bensì me come ero - con pensieri affilati - maniere intemperanti e case di passaggio. Sarei stato tentato di somigliare - fuori tempo - a quel me che ero - nello sforzo generoso e necessario di difenderlo» oppure - rinnegandolo - col perdere il fondamento stesso dell'esistenza mia e di ciascuno - che è di tenere a distanza di rispetto ma affettuosa il passato. L'accusa - che aveva cominciato col propormi un patto - in nome della lontananza e del tempo trascorso - alle spalle di me stesso com'ero allora - è arrivata infine a dipingermi - per l'ineluttabilità del meccanismo della denigrazione - come una persona attualmente ripugnante, pericolosa - torbida - minacciante - omertosa - cinica - falsa... Così il divario iniziale fra passato e presente si è riempito - e mi è restato solo di tenere duro - senza aspettarmi più distinzioni né discrezione. Dovevo battermi per non essere condannato e per non essere infamato. Ora siamo al termine.
(Adriano Sofri - MEMORIA)

Ora è il nome di un libro, edito da Sellerio (sarà presentato domani a Salerno), quello che era il testo della memoria consegnata da Adriano Sofri ai giudici della Corte d'Assise di Milano che lo hanno poi condannato a 22 anni di carcere come mandante dell'omicidio Calabresi. Ed è significativamente ospitato in una collana editoriale che della difesa della memoria fa la sua ragione sociale. E dall'esercizio della memoria parte appunto il nostro colloquio. 
“Memoria” è - in questo caso - termine tecnico giuridico. All'esercizio della memoria si richiamava un altro documento politico-giudiziario - "Do you remember revolution" - prodotto dagli imputati del 7 aprile e da altri detenuti dell'Autonomia - e dal quale trae fondamento teorico   il movimento della dissociazione dalla lotta armata. E' possibile che sulle vicende degli anni di piombo sia dato di esercitare l'arte del ricordo solo sul terreno giudiziario?
"No, io non sarei così pessimista - replica Sofri, e questo rovesciamento paradossale si ripeterà più volte-  è possibile e necessario esercitare l'arte del ricordo di quegli anni non solo sul terreno giudiziario. Ma a una condizione, di ricordare che la libertà consiste anche nel garantire il diritto all'assenza di memoria".
Sì - era insolente e arrogante -e a questo stile era improntata tutta la sua organizzazione - anche se mi assicuravano i suoi compagni che già allora era capace di grande tenerezza-.
10 aprile 1976. Manifestazione nazionale a Roma dei 'gruppi'. 
Doveva servire a lanciare il cartello elettorale unitario (Democrazia proletaria - che non era ancora il nome di un'organizzazione) tra Lotta Continua,  Pdup e Avanguardia operaia. Sull'onda lunga della vittoria del referendum sul divorzio e dell'impetuosa avanzata elettorale del Pci si era tutti convinti che si andava alla conquista della maggioranza elettorale, al governo delle sinistre, a una lunga fase di instabilità in cui a noi sarebbe toccato - con fortuna migliore del Mir cileno, che costituiva comunque un riferimento progettuale e organizzativo - di "portare avanti la rivoluzione".
All'ultimo momento, per non ricordo più quale bega o meschino calcolo di bottega, Ao e Pdup si erano ritirati dall'organizzazione della manifestazione. Con uno sforzo eccezionale Lc riuscì a portare i 100mila di rito in piazza. E la colonna sonora della manifestazione fu improntata al dileggio, "Ao non c'è - Pdup nemmeno - ma d'ora in poi ne faremo a meno".
Era una splendida sera della primavera romana. Quando entrai in una piazza del Popolo già gremita il tono di Sofri era sprezzante. Dal lato opposto della piazza il servizio d'ordine di Lotta continua si affannava a contenere, beccandosi gragnuole di insulti, gruppetti di autonomi inferociti che volevano onorare la memoria di Mario Salvi - un proletario di Primavalle ammazzato due giorni prima nei pressi del ministero di Grazia e Giustizia dopo un attentato dimostrativo a base di molotov, esercitando la nobile arte della giustizia proletaria sulle vetrine di via del Corso. La "nuova polizia” svolse bene il suo compito.
Il 20 giugno non andò come previsto. Il Pci fece il pieno e non bastò. Democrazia proletaria prese le briciole e fu compromesso storico. Di fronte al fallimento del proprio progetto,  il gruppo dirigente di Lotta continua ebbe il coraggio di mettere in liquidazione l'intera organizzazione. Consistenti settori di 'nuova polizia' andarono a ingrossare le fila del combattimento diffuso - e in particolare l'area di Prima Linea - ma l'intero gruppo dirigente dl Lc solidale trasformò il quotidiano dell'organizzazione in uno strumento di battaglia culturale e ideologica - prima che politica - contro tutte le derive lottarmatiste. Scriverà anni dopo Sciascia che una delle poche cose per cui è valsa la pena stare in Parlamento sono le parole di Mimmo Pinto in morte di Aldo Moro.
Perché la verità storica è questa, che in tutta la sua vicenda Lotta Continua si è posta agli antipodi di quello che è stato il materiale dispiegarsi della lotta armata in Italia. Se un progetto di rottura rivoluzionaria si era dato, faceva piuttosto riferimento al Portogallo della rivoluzione dei garofani, a uno scenario cioè di rottura orizzontale dell'esercito tramite i movimenti dei Proletari in divisa e degli ufficiali democratici per annullarne la funzione di dispositivo controrivoluzionario in una fase più avanzata e radicale dello scontro sociale. Perché anche negli anni dell'estremismo più duro, il '77 Lc era stata sì istigatrice e organizzatrice di violenza, ma sul terreno della lotta di massa e dell'antifascismo militante, dove anche l'azione di avanguardia era sempre e comunque ricondotta ai livelli della lotta di massa. E fa meraviglia che con tutto il lavorio di ricostruzione fatto da entrambi le parti nessuno abbia ricordato la natura diversa della violenza di Lotta continua.
Già in quegli anni Lc era piuttosto attenta all'opera di contrinformazione contro le deviazioni dei servizi segreti e ai giochi sporchi degli apparati di sicurezza Nato. E' Lc a denunciare la provocazione messa in atto a Trento con le bombe a Palazzo di giustizia da quella lobby di 007 che si era aggregata nella lotta ai terroristi altoatesini e che darà poi migliore prova di sé nel depistaggio della strage di Peteano. Una lobby la cui vicenda risulta oggi intrecciata con l'apparato di sicurezza Gladio.
"Subito dopo la strage di Peteano -ricorda Sofri - ci fu un goffo tentativo da parte di questi personaggi - tramite Pisetta - di attribuire a Lotta Continua  la responsabilità dell'omicidio Calabresi e della strage di Peteano. Ne abbiamo prodotto prova in fase dibattimentale - in tempi non sospetti - quando ancora non se ne faceva un gran parlare... e del resto -continua - si disse già allora che Calabresi stava seguendo una pista di traffico d'armi e che nei giorni precedenti all'attentato si era per questo recato a Trieste".
Sofri è tecnicamente fuori dal processo -si è infatti rifiutato - come preannunciato - di presentare appello ma segue con evidente attenzione questi sviluppi. Gli faccio notare che in questo quadro il suo fermo rifiuto anche solo di parlare di complotto nei suoi confronti è stato forse fuori luogo. "Non è vero -precisa - che mi sono espresso in questi termini. Poiché la mia difesa è sempre stata in punta di fatto - mi sono limitato a dire che non avevo elementi per parlare di complotto. Ma che ci siano elementi inquietanti nella mia vicenda processuale e domande inevase è già emerso con chiarezza".
E che del resto le belve della fermezza siano pronte a scattare "quando è invece evidente almeno la stoltezza della loro scelta” lo conferma la vicenda di Montenevoso. "Ma su questo terreno -osserva Sofri - siamo di fronte a un riflesso pavloviano che dimostra tutta la sua debolezza. Anche se è preoccupante che nel Pci ci sia chi è ancora interno a questa logica". 
Sofri sta lavorando a un libro sull'ombra di Moro, gli chiedo se - come con Sciascia - sia possibile raggiungere  attraverso la letteratura - e di fronte ai buchi neri della vicenda giudiziaria - una superiore verità su Moro. Non lo sa - e non gli interessa. Preferisce infatti lavorare "alla verità di Moro che è sicuramente più interessante".
Un'ultima domanda gli rivolgo sul "traditore Marino" - una domanda imbarazzante - mi schermisco. Per un attimo ritrova sarcasmo e autoironia - da maledetto toscano (d'adozione: è nativo di Trieste ma è politicamente cresciuto a Pisa  dove riuscì a mandare in bestia anche Togliatti...). "Imbarazzante? Dopo il processo che ho subito in corte d'Assise...".
Nella tradizione biblica Giuda vende Cristo per 30 denari: secondo una lettura storicistica è l'estremista ebraico che si vendica del Messia che non si è voluto mettere alla testa della lotta di liberazione nazionale dall'oppressione romana.
"Non è concepibile l'esempio di Giuda - conclude Sofri - senza il suo esito, l'albero di fico. Io ovviamente auguro a Marino buona salute e cent'anni di vita perché abbia il tempo di ritrattare tutte le bugie che ha detto. Ma voglio offrirti un'altra immagine - quella di un drammaturgo russo del primo Novecento - che descrive la scena del Getsemani come il bacio di un tradito non di un traditore. Più di un amico mi ha contestato un atteggiamento di eccessiva morbidezza nei confronti di Marino. Non credo - e comunque paragonarlo a Giuda o a Raskolnikov - ai grandi delinquenti e traditori - significa solo nobilitarlo. Marino è soltanto un lazzarone e un disgraziato".

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