Spataro e Segio. Il pm racconta la storia di un’inimicizia assoluta

Ieri era l’anniversario della cattura di Sergio Segio, l’ultimo leader di Prima Linea rimasto libero. Oggi vi propongo il lungo paragrafo che il pm antiterrorismo Armando Spataro gli ha dedicato nella sua autobiografia “Ne valeva la pena”. Il testo contiene un evidente errore materiale. Paradossale, se si pensa il ruolo e il rango del “narratore” eppure non maligno: perché, appunto, il pm esprime rispetto per il nemico sconfitto che tace mentre non sopporta la visibilità mediatica assicurata al “comandante Sirio”. In realtà, però, Mario Moretti non si è mai dissociato né ha goduto dei relativi benefici. Il 5 aprile saranno 40 anni che è detenuto. Certo che esce dal carcere di giorno, ma grazie a una diversa legge, la Gozzini, che non è premiale e riguarda semplicemente l’esecuzione della pena.

Il pericolo pubblico n. 1

L’assassino di Alessandrini, Galli e di altri ancora, il capo indiscusso e co-fondatore di Prima Linea, poi transitato nel ristrettissimo gruppo dei Nuclei comunisti, era, dopo l’arresto di Mario Moretti, il più ricercato tra i terroristi latitanti. Molti tra i pentiti che si andavano moltiplicando e che interrogavo mi avevano spesso raccomandato di essere molto attento nei miei movimenti perché – dicevano – per Segio quella di colpirmi era diventata una specie di ossessione. Non posso sapere se ciò fosse proprio vero. Diciamo che era possibile, ma che certamente reale era la mia corrispondente «spinta» agli organi di polizia giudiziaria – che certo non ne avevano bisogno – perché operassero ogni sforzo per catturarlo. Ero convinto che il suo arresto avrebbe definitivamente messo in ginocchio il terrorismo in Italia.

Proprio per questa ragione ero rimasto incredulo e adirato nell’aprile del 1981 quando un alto funzionario centrale della polizia di Stato si era lasciato sfuggire l’occasione buona per prenderlo. Non a caso, in quell’occasione, la Procura di Milano era stata tenuta all’oscuro di quanto stava per accadere. Segio aveva ormai lasciato Prima Linea sin dalla fine dell’80 e molti del gruppo lo avevano anche accusato di aver prematuramente abbandonato la nave che affondava. Aveva però costituito un gruppo ristretto e inafferrabile con pochi «professionisti», di cui si fidava, reduci da altrettanto importanti militanze in Pl o in altri gruppi terroristici. Tra questi Maurizio Pedrazzini, già componente della struttura occulta e «militare» di Lotta Continua. Se ne erano perse le tracce da molti anni, ma era latitante solo per renitenza alla leva.

L’errore della Digos

Pedrazzini, come ormai sapevamo attraverso le dichiarazioni dei pentiti, era diventato un rapinatore di professione e proprio con Segio era tornato all’attività «politica». Ma sapevamo anche che il loro gruppo era ormai specializzato in rapine in danno di oreficerie. La Digos di Milano, dunque, indagando nel sottobosco dei ricettatori di gioielli, aveva individuato colui che acquistava quelli rapinati dal gruppo di Segio. Era tal Sergio Albertario. Costui accettò di fare da confidente della polizia e rivelò, così, che il 16 aprile aveva un appuntamento con Segio in un bar dalle parti di piazzale Loreto. Noi pm non ne fummo informati. Un noto funzionario venne appositamente da Roma per dirigere l’operazione, ma sarebbe stato meglio se a farlo fosse stato il dirigente dell’Antiterrorismo di Milano. Avrebbe sicuramente preso decisioni diverse e le avrebbe verosimilmente concordate con me.

I poliziotti, dunque, si appostarono nel bar, ma non fu Segio a presentarsi all’appuntamento con il confidente-ricettatore, bensì un altro componente del gruppo, appunto Maurizio Pedrazzini. Certamente sarebbe stato meglio non intervenire per arrestarlo subito: la presenza di quell’uomo era intanto una conferma dell’affidabilità della fonte che avrebbe ben potuto rivelare prossimi analoghi appuntamenti. Ma si sarebbe anche potuto tentare di pedinare Pedrazzini per arrivare a un covo, ai complici, a Segio. Invece no. C’era bisogno a tutti i costi della solita, maledetta, «brillante operazione»: Pedrazzini fu arrestato e Segio rimase latitante per un altro paio d’anni e uccise ancora. Insieme ai suoi, inoltre, l’ex capo di Prima Linea comprese facilmente la causa dell’arresto di Pedrazzini, sicché alla fine di giugno i Nuclei comunisti, da lui guidati, gambizzarono il ricettatore di Milano, rivendicando l’azione e giustificandola come sanzione per il suo ruolo di confidente-traditore.

Dall’omicidio Rucci a Rovigo

Poco meno di tre mesi dopo, il 19 settembre, Segio e i suoi, nell’ambito della campagna contro il «carcerario», uccisero il brigadiere Francesco Rucci del corpo della polizia penitenziaria di San Vittore. E all’inizio di gennaio del 1982, come ho già ricordato, fecero evadere dal carcere di Rovigo la Ronconi e tre altre componenti di Pl: l’esplosione dell’ordigno ad alto potenziale usato per creare il varco nelle mura del carcere uccise un passante, Angelo Furlan, che portava a spasso il suo cane. Ma ciò era un fatto praticamente irrilevante per Segio & C.: un prezzo inatteso da pagare per «sottrarre quattro compagne dalle grinfie dello Stato», e per dare così «una nuova speranza a tutti gli altri, sepolti vivi nelle carceri speciali». Insomma, un fastidioso incidente di percorso.

La cattura

Ma il 15 gennaio del 1983 il massacro finisce. È sabato. Un sottufficiale della Sezione antiterrorismo dei carabinieri, mentre scende da un mezzo pubblico in viale Monza, nota una donna su cui lui e i suoi colleghi stanno indagando. La sospettano di appartenere alla colonna Walter Alasia delle Br. La donna sembra palesemente in attesa di qualcuno. Il sottufficiale decide di chiamare i suoi colleghi, che accorrono da via Moscova e si appostano nella zona, tenendo d’occhio la donna. Arriva un uomo che le si avvicina e riceve da lei un documento. I carabinieri lo riconoscono: è Segio. Gli saltano addosso senza neppure dargli il tempo di capire che cosa stia succedendo. Anche la donna viene naturalmente arrestata. A casa sua verranno sequestrati un’arma e documenti della Walter Alasia.

Ammetterà più avanti di essere una brigatista, fortunatamente non coinvolta in alcun atto di sangue e addetta a tenere i rapporti con Segio e il suo gruppo. Si è dissociata e, oggi, riabilitata, fa l’avvocato: mi capita ogni tanto di parlarle in relazione al suo lavoro. Appena arrestato Segio, Ago mi telefona per darmi la notizia: sono nel carcere di Voghera per un interrogatorio. Lo interrompo e torno a Milano. Lungo la strada è inevitabile pensare a Galli e Alessandrini uccisi da quel criminale.

La beffa del gatto

Arrivato a Milano, i carabinieri mi dicono che, portato nella caserma di via Moscova, Segio, al momento di dare le sue generalità, ha indicato come suo indirizzo di residenza quello della mia abitazione. Non ero mai stato certo dell’aneddoto, ma nella introduzione al suo libro Una vita in Prima Linea, Segio lo conferma più o meno negli stessi termini: aveva voluto sfottere i carabinieri dicendo che si trattava dell’indirizzo della sua base e che vi era un gatto abbandonato da salvare.

I carabinieri un giorno lo avrebbero prelevato dalla cella di sicurezza dicendogli: «È arrivato il gatto, ti vuole interrogare». Dichiarai comunque alla stampa che «era stato arrestato il più pericoloso killer in circolazione, un bieco portatore di morte…». Con la cattura di Segio si chiude davvero il periodo più drammatico del terrorismo a Milano.

Lo smantellamento dei Nuclei

E, tra la fine di gennaio e i primi di giugno del 1983, vengono catturati ad uno ad uno, tra Milano, Catania, Roma e Rapallo tutti gli altri componenti dei Nuclei comunisti, il gruppo supercompartimentato fondato da Segio dopo la sua fuoriuscita da Prima Linea. I Nuclei erano in quel periodo in contatto con i resti della colonna Walter Alasia delle Br. Nel febbraio del 1984, con la caduta delle due basi milanesi in via Vallazze e via Astesani e con la cattura degli ultimi capi latitanti, tra cui Gloria Argano e Bruno Ghirardi, finisce anche la storia dei Comunisti organizzati per la liberazione proletaria (Colp), nati all’inizio del 1981 sulle ceneri di Prima Linea.

Ritroverò Bruno Ghirardi tra i componenti delle «nuove» Brigate Rosse, arrestati all’inizio del 2007 nell’inchiesta condotta da Ilda Boccassini. Gloria Argano, invece, secondo il collaboratore Bruno Bertelli, era allora in contatto con Barbara Balzerani delle Br. Alla fine di maggio del 1983 aveva anche materialmente partecipato, insieme ad appartenenti al gruppo francese di Action Directe, all’omicidio di due poliziotti francesi ed al ferimento di un terzo, in avenue Trudaine a Parigi. Vi aveva preso parte anche Franco Fiorina, un altro leader dei Colp, arrestato qualche mese prima dell’Argano.

La collaborazione con i francesi

Era quello il periodo della «collaborazione» in Francia tra i latitanti del gruppo italiano e di quello francese: Ciro Rizzato era stato ucciso nell’ottobre del 1983 a Parigi, nel corso di una rapina, mentre Vincenzo Spanò vi era stato arrestato nel febbraio del 1984. Le nostre indagini e le dichiarazioni di un collaboratore italiano, dunque, furono decisive anche per aiutare la polizia francese a smantellare Action Directe.

Chissà se a questi fatti si ricollega un insolito episodio del settembre del 1984: mi arriva per posta un pacchetto leggero e di modeste dimensioni, che risulta spedito dallo Skorpion Club di Lione, in Francia. L’ispettore Venezia, l’amico poliziotto che mi «assiste» da quando sono arrivato a Milano, si insospettisce e chiama gli artificieri della Questura. Ci fanno uscire dalla stanza ma poco dopo, mentre aspettiamo in corridoio, le loro grida ci richiamano: chiedono aiuto nel tentativo di rincorrere e calpestare gli scorpioni usciti dalla scatola appena aperta. Ne facciamo strage con le suole delle scarpe e i carabinieri portano i «cadaveri» al Museo civico di Storia naturale.

Un accademico accerterà che solo uno degli scorpioni era velenoso: apparteneva alla specie Buthus occitanus, che vive in Francia meridionale, Spagna e Nord Africa. Pare che quegli scorpioni possano a lungo sopravvivere in letargo e solo per questo molti avevano resistito al viaggio da Lione a Milano. Un episodio, dunque, al limite del comico se penso a noi che saltavamo da un angolo all’altro del mio ufficio pestando gli scorpioni. Da allora, comunque, la Procura non consegna pacchi sospetti ai magistrati.

Le scelte diverse dei due capi

A Milano, come ho detto, furono dunque arrestati i «numeri uno» tra i ricercati delle Br e di Pl: Moretti e Segio. Entrambi sono oggi dissociati dalla lotta armata e hanno goduto dei benefici previsti dalla legge. Moretti ha scelto di non parlare o di parlare poco, anzi ormai pochissimo. Non ho alcuna positiva considerazione, invece, delle scelte opposte e del presenzialismo di Segio, che non perde occasione per pontificare.

A lui alcuni giornali – specialmente «la Repubblica» – hanno offerto e continuano a offrire pulpiti insperati. Ognuno, sia ben chiaro, ha diritto al reinserimento sociale, che è una delle finalità del nostro trattamento penitenziario. Ma chi è stato autore materiale e ideatore-organizzatore di un così alto numero di omicidi dovrebbe conoscere il senso della misura. E dovrebbe avere il buon gusto di tacere. Invece Segio non solo continua a parlare ma non ho mai letto nelle sue parole una condanna inequivocabile del passato terroristico proprio e dei suoi compagni. Piuttosto preferisce ancora condannare i pentiti, quelli di ieri e finanche quelli di oggi.

Quell’intervista contro i pentiti

Non ricorda, forse, quanto certe parole possano cambiare il destino delle persone: lui, la Ronconi ed altri, ad esempio, hanno ucciso nel febbraio del 1980, a Milano, William Waccher sul presupposto – totalmente infondato – che fosse un confidente o un collaboratore. Ancora nel 2004 comparve su «Repubblica» una intervista a Segio, che condannava la scelta di collaborazione di Cinzia Banelli, l’ultima pentita delle Br che aveva rivelato quanto a sua conoscenza sugli omicidi D’Antona e Biagi. La bollava come traditrice e dichiarava spudoratamente che il terrorismo era stato sconfitto non grazie ai pentiti ma grazie ai dissociati come lui che, senza coinvolgere complici, ne avrebbero decretato la fine politica.

I collaboratori vi venivano citati come persone che avevano venduto i compagni. Dice Segio: «Il termine pentimento è diventato impronunciabile, sinonimo di mercimonio, di scambio giudiziario, di condanna degli ex compagni. Una parola svilita […]. Noi ci siamo assunti le nostre responsabilità senza scaricarle su altri. Il pentitismo e l’irriducibilismo sono due fratelli siamesi, rispondono alla stessa logica di violenza che prevarica la vita altrui». Leggo l’intervista e mi ribolle il sangue. Chiamo il direttore della sede milanese di «Repubblica» e chiedo di pubblicare una mia replica a Segio. Fino a tarda sera del 24 agosto non ho conferma della pubblicazione. Chiamo ancora il giornale e chiedo una risposta precisa altrimenti – dico – mi sarei rivolto al «Corriere della Sera».

La censura della Repubblica

La pubblicazione mi viene assicurata ma il 26 agosto il mio già breve intervento risulta tagliato nelle parti in cui qualificavo come omertosa la logica di Segio, ricordavo che era stato arrestato mentre continuava a sparare e ad uccidere (altro che la declamata crisi di coscienza, dunque) e che era stato l’autore degli omicidi di Alessandrini, Galli e di tanti altri.

Virginio Rognoni, comunque, mi chiama ancora una volta e mi ringrazia per avere voluto replicare alle falsità di Segio. Nel pomeriggio un giornalista amico di «Repubblica» mi telefona per dirmi che è arrivata in redazione a Milano una controreplica di Segio e che verosimilmente sarà pubblicata l’indomani. Chiamo ancora una volta il direttore della sede milanese chiedendogli di inviarmi l’intervento di Segio in modo che possa commentarlo a mia volta ed il giornale possa decidere se pubblicare le due «lettere» insieme. Forse creo qualche imbarazzo. Solo a tarda sera ricevo notizia che «Repubblica» ha deciso di non pubblicare la replica di Segio e che, dunque, non c’è bisogno di inviarmela.

Nella mia contro-controreplica avrei aggiunto che percorsi soggettivi di revisione critica del proprio passato criminale, come quello dei tanti dissociati dell’ultima ora, pur apprezzabili, sono molto vantaggiosi, specie se rapportati ai costi umani e sociali pagati da chi, invece, aveva scelto la via della collaborazione piena e così salvato molte vite umane. Costi non rappresentati solo da episodi ripugnanti come l’omicidio di Roberto Peci, rapito a San Benedetto del Tronto nel giugno 1981 e ucciso con undici colpi di pistola dopo cinquantaquattro giorni di prigionia, solo perché fratello del pentito Patrizio, ma anche dall’isolamento culturale e morale in cui i collaboratori sono stati sempre collocati in Italia.

Un convegno inopportuno

Sembra quasi che ad essi siano preferibili gli irriducibili e la loro omertà o i «nobili» dissociati che si limitarono a dire: «condanno la lotta armata». Ma Segio non demorde. Sempre nel 2004, a novembre, ricevo notizia che nel palazzo di Giustizia di Torino, dove erano stati celebrati i processi per gli omicidi di Alessandrini e Galli e di numerose altre vittime del terrorismo, si svolgerà un convegno sul tema La pena ideata applicata vissuta. È organizzato dalla Camera penale di Torino e tra i relatori, unitamente a docenti universitari, avvocati e magistrati, c’è Sergio Segio: di nuovo mi sale il sangue alla testa. Mando un messaggio di incredulità e protesta alle mailing list dei magistrati e ricevo il sostegno di tanti: l’Associazione nazionale magistrati di Piemonte e Val d’Aosta ritira il suo appoggio al convegno. Maurizio Laudi e Marcello Maddalena giudicano inopportuna la presenza di Segio.

Laudi rinuncia alla sua prevista partecipazione al convegno, Maddalena vi presenzia solo per rendere omaggio alla memoria del defunto avvocato Vittorio Chiusano, Gian Carlo Caselli fa sapere che un impegno gli impedisce di partecipare: non era stato avvertito della prevista presenza dell’assassino di Galli ed Alessandrini. Non partecipa neppure il presidente del Tribunale di sorveglianza di Torino, Giuseppe Burzio. Segio rinuncia a parlare, almeno per quella volta, ma presenzia al convegno e il suo intervento viene letto dall’avvocato Giampaolo Zancan, vicepresidente della Commissione Giustizia del Senato. L’Unione camere penali emette un comunicato di protesta contro i magistrati.

Un film ben finanziato

Con una certa amarezza, comunque, lessi a dicembre del 2008 che il ministero dei Beni culturali, dopo un’iniziale decisione negativa, aveva deliberato l’erogazione di un milione e mezzo di euro per la realizzazione del film La Prima Linea, tratto dal libro Miccia corta di Segio. Il progetto del film (diretto da Renato De Maria, interpretato da Riccardo Scamarcio e, nella parte di Susanna Ronconi, da Giovanna Mezzogiorno) era stato infatti riconosciuto «di interesse culturale».

Tra i paletti posti dal ministero per la erogazione del finanziamento l’impegno dei responsabili del progetto a non utilizzare nella fase di promozione del film nessuno dei protagonisti reali della storia e «a non dare tribune ad ex terroristi». Il presidente della società produttrice aveva però negato che la sceneggiatura del film, come sostenuto dal ministero in un comunicato, fosse stata modificata rispetto all’originario progetto bocciato.

A febbraio del 2009, i giornali diffusero la notizia che anche il Comune di Milano aveva patrocinato il film prevedendo una qualche forma di sostegno economico. Ho così nuovamente protestato sostenendo le ragioni dell’Associazione italiana vittime del terrorismo che a quella sponsorizzazione si era opposta con parole di fuoco.

La protesta del figlio di Galli

Giuseppe Galli, figlio di Guido, scriveva al «Corriere della Sera» una lettera sobria e dignitosa in cui, oltre a chiedere pubblicamente le ragioni della decisione del Comune di Milano, si augurava «che la città non tradisse la memoria delle vittime di un periodo ormai passato, ma che ha lasciato un segno indelebile non solo in chi è stato direttamente colpito, ma anche nella società tutta». E concludeva auspicando che il Comune di Milano «possa fare di meglio che patrocinare un film ispirato al libro di una persona che un giorno ha deciso di distruggere cinicamente una vita e che oggi pretende di spiegarci le ragioni della sua impresa»

Un patrocinio alla fine ritirato

Ne nasceva una veemente polemica, non solo cittadina, al termine della quale l’assessore al Tempo libero del Comune di Milano, Giovanni Terzi, riusciva a far ritirare quel patrocinio, offensivo per la memoria di tutte le persone che Segio aveva ucciso. Il libro di Segio da cui è tratto il film contiene un’eloquente dedica: «a tutti i figli e le figlie dei nostri compagni. Perché crescendo e cominciando a sapere e a capire, non gli venga mai meno la certezza che i loro genitori sono state persone buone e leali. Che hanno lottato, con errori spesso gravi, ma anche con generosità e coraggio, per un mondo migliore e più giusto».

Dove evidentemente – aggiungo io – essere buoni, leali, generosi e coraggiosi è sinonimo di saper vilmente uccidere persone inermi. Il film è stato poi presentato al Festival del cinema di Toronto e diffuso nelle sale cinematografiche italiane a novembre del 2009. Il produttore ha dichiarato di avere rinunciato a contributi dello Stato. Nel film non viene citato in alcun modo l’omicidio Galli, così come quelli di altre vittime di Segio. Costui si è lamentato perché il film avrebbe tradito le sue idee e gli autori avrebbero lavorato «a comando, con la libertà artistica legata al guinzaglio». Lo hanno visto Marco Alessandrini, Giuseppe Galli, Benedetta Tobagi e Mario Calabresi, che ne hanno scritto con distacco ammirevole. Non vedrò il film. Ma questo non è ovviamente rilevante.

Due pensieri diversi

Preferisco leggere e rileggere le parole di Corrado Stajano (ricordate anche da Claudio Magris), nel suo bellissimo libro La città degli untori, quando mette a confronto la supponenza degli ex terroristi con la eroica normalità delle loro vittime. Da un lato le frasi con cui Segio dedica il libro ai figli dei suoi compagni terroristi, dall’altro l’ultimo biglietto lasciato da Guido Galli alla figlia, uscendo da casa e dirigendosi verso la sua fine: «Alex, se fai la spesa, comprami un po’ di caffè. Ciao, papà».

Ugo Maria Tassinari è l'autore di questo blog, il fondatore di Fascinazione, di cinque volumi e di un dvd sulla destra radicale nonché di svariate altre produzioni intellettuali. Attualmente lavora come esperto di comunicazione pubblica dopo un lungo e onorevole esercizio della professione giornalistica e importanti esperienze di formazione sul giornalismo e la comunicazione multimediale

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