Spataro: vi racconto il mio amico Emilio Alessandrini

Parte proprio dal ricordo di Emilio Alessandrini il lungo memoir di Armando Spataro, il più noto dei pm antiterrorismo della procura di Milano. Ve ne ripropongo gli stralci nell’anniversario dell’omicidio del pm da parte di Prima Linea, un agguato che destò scalpore e disorientamento nell’estrema sinistra perché Alessandrini si era distinto nelle inchieste sulla “pista nera” per la strage di piazza Fontana ma era noto per i suoi forti legami con il Pci.

emilio alessandrini

Ne valeva la pena?

«Armando, ma ne valeva davvero la pena?». È il 29 gennaio di uno degli anni Novanta, non ricordo più quale. In una fredda mattinata milanese, siamo in tanti a lasciare il Parco Emilio Alessandrini dopo la commemorazione di un altro anniversario dell’omicidio di Emilio: Prima Linea lo uccise il 29 gennaio 1979. Cammino silenzioso cercando nella memoria altri ricordi di quel giorno.

Mi è vicino il mio amico Ago, il maresciallo dei carabinieri protagonista di tante indagini di terrorismo e di mafia. Cerca di interpretare il mio silenzio, o forse vuole soltanto rompere il suo, quando mi chiede: «Armando, ma ne valeva davvero la pena?», riferendosi all’ennesima stagione di violenti attacchi alla magistratura che stavamo anche allora vivendo. (…) Tornerò su Emilio Alessandrini e sul caso Abu Omar, ma la risposta agli interrogativi retorici di Ago e di Pomarici va subito offerta
al lettore, che, comunque, già l’immagina: «Sì, ne valeva la pena», come per primi ben sapevano proprio i miei due amici. [pagg. XIII-XIV]

Il tutoraggio al processo Curcio

La loro amicizia nasce dal primo processo per terrorismo che gli è affidato: il secondo arresto di Renato Curcio. A rileggere oggi il racconto della prima udienza può sembrare quasi che il pm debuttante bullizzasse gli avvocati difensori ma chi ricorda quella stagione sa che invece Spataro dimostrò un notevole coraggio

Il procuratore Gresti si preoccupò di affiancare a me, giovane sostituto, una sorta di tutor: era un magistrato molto esperto, Emilio Alessandrini. Non me lo disse esplicitamente, ma lo capii da me. Alessandrini veniva a trovarmi spesso in ufficio e mi chiedeva come stavo, come andava la preparazione del processo, se lo studio procedeva bene, se avessi bisogno d’aiuto. Questo non mi dispiaceva affatto, anzi. Mi sentivo incoraggiato, ero stato investito di un compito molto delicato e mi faceva molto piacere che un collega esperto come Alessandrini mi assistesse. Gli facevo tante domande, gli chiedevo consigli.(…)

La prima udienza in una città blindata

Il 15 giugno 1977 Milano è terrea. Il clima è plumbeo, a dispetto dell’estate incipiente. La città è quasi sotto assedio. Il palazzo
di Giustizia è circondato da polizia e carabinieri. (…) Entro presto nell’aula. Non c’è ancora il pubblico, non c’è ancora la Corte. Ci sono solo i carabinieri. Prendo posto, sistemo sul banco il codice e le carte del processo. Il promemoria di undici pagine di mio padre purtroppo non mi poteva aiutare. E proprio allora con la punta dell’occhio vedo che entra in aula anche Emilio Alessandrini. Mi si avvicina, mi saluta, mi dà una pacca sulle spalle e si va a sedere dietro di me: pronto, in caso di necessità. Mi dice: «Se hai bisogno di aiuto…».

Il colloquio vietato ai difensori revocati

In quel momento arriva un maresciallo dei carabinieri. Mi porta il solito documento, firmato da Curcio e dagli altri imputati, contenente la revoca dei difensori di fiducia. Il solito rito, ma, mentre ci si appresta a convocare i già preavvisati difensori di ufficio, si avvicinano, compatti, gli avvocati revocati: Sergio Spazzali, Giannino Guiso ed altri. In quegli anni c’era chi sosteneva che per alcuni di quegli avvocati la difesa dei brigatisti non fosse un fatto solo tecnico, ma anzi sconfinasse spesso nel sostegno ideologico alle Brigate Rosse. Ed in verità, negli anni successivi, taluni avvocati furono pure condannati per appartenenza a banda armata: tra loro Sergio Spazzali, che morì da latitante in Francia nel 1994.

La pattuglia degli avvocati in toga praticamente mi circonda: non avevano mai visto e conosciuto prima quel giovanissimo pubblico ministero. I difensori hanno una protesta da fare: i carabinieri, dopo la revoca, avevano vietato loro il colloquio con i brigatisti. «Vogliamo poter parlare con i nostri assistiti», dicono. Rispondo che i carabinieri avevano agito correttamente: «Voi siete stati revocati, dunque non siete più i loro difensori». (…)

Dite a Curcio che mi chiamo Spataro

Uno dei legali, a quel punto, ribatte scandendo bene le parole: «Dunque noi siamo autorizzati a dire a Renato Curcio e ai nostri clienti che il pm ci ha rifiutato il permesso di colloquio, che ci ha impedito di parlare con loro?». Mi viene naturale rispondere: «Sì. Anzi, potete anche dire che il pubblico ministero che vi ha rifiutato il permesso si chiama Armando Spataro». Poi prendo un biglietto, vi scrivo sopra nome e cognome e lo metto nelle mani dell’avvocato. A quel punto i legali si allontanano in silenzio.

Emilio Alessandrini, che ha seguito la scena da poco distante, si avvicina, mi dà un’altra pacca sulla spalla e mi dice: «Ma tu, da piccolo, giocavi a fare il pubblico ministero?». Gli rispondo: «Beh, un po’ sì: l’ho imparato da mio padre». Alessandrini mi sorride e lascia l’aula, dove finalmente inizia il processo. Il fatto che se ne fosse andato in quel modo è ancor oggi il più bell’attestato di stima che abbia mai ricevuto. [pp. 19-21]

Alessandrini scherza con la maitresse

Della generosità e dell’ “umanità straripante” di Alessandrini testimonia anche il suo forte senso dell’umorismo, dimostrando ricevendo una sua imputata, una vecchia maitresse:

Non c’era giovane collega bisognoso di consigli cui non dedicasse ore preziose del suo lavoro; e tanti erano i condannati, in processi da lui istruiti, che spesso andavano a salutarlo per ringraziarlo della umanità che aveva con loro dimostrato e che non avrebbero mai dimenticato. Tra le più assidue, un’anziana sedicente contessa, condannata per sfruttamento della prostituzione. Emilio non chiudeva la porta neppure a questo personaggio pittoresco, la lasciava accomodare e a lungo parlare mentre lui lavorava chino sulle carte. In una di queste occasioni, entrò nel suo ufficio Carmen Manfredda, una delle giovani sostitute della Procura di Milano, ed Emilio, rivolgendosi alla sua ospite, le disse: «Contessa, permetta che le presenti la collega Manfredda, mia collega, non sua». La contessa ne prese responsabilmente atto. [pp.21-22]

Majolo: la cena con Negri e Alessandrini

Della sua curiosità e “spregiudicatezza” testimonia invece Tiziana Majolo che per la famosa cena a cui presero parte sia il pm sia Toni Negri, e rispettive consorti, si fece pure due giorni di carcere

Due giorni di carcere

Fu in quegli anni che io venni arrestata. Proprio a causa delle mie amicizie con alcuni pubblici ministeri, in riferimento a una cena che si era svolta un anno prima. La serata era stata organizzata a casa del pubblico ministero Antonio Bevere e della sua fidanzata Maria Rosa. Erano invitate altre tre coppie. Emilio Alessandrini e la moglie Paola. Il professor Toni Negri e la consorte Paola. Io con mio marito Stefano, giornalista dell’Ansa. Era il 1978. Erano i giorni del rapimento Moro. E di quello si parlò a tavola.

La ricordo ancora come una serata noiosa, dominata dai toni un po’ comizianti di Toni Negri, che era amico di Bevere in quanto collaboratore della rivista Critica del diritto [che era ed è ancora una grandissima rivista, ndb] che lui dirigeva. Alessandrini ci teneva a conoscerlo, un po’ per curiosità intellettuale, un po’ perché cominciava a svolgere le prime inchieste su certi ambienti di sinistra che riteneva contigui al mondo di Potere Operaio e dell’Autonomia.

Un anno dopo, la tragedia

Un anno dopo i protagonisti di quella cena ebbero sorti sciagurate. Alessandrini fu ucciso da Prima linea. Toni Negri arrestato nel processo “7 aprile”. Bevere e Maria Rosa indagati. Stefano e io arrestati. Tutti per falsa testimonianza. Un impazzimento generale della magistratura colpì quell’evento innocente. Paola Alessandrini, sconvolta dal dolore per l’uccisione del marito, sosteneva che io e Stefano non eravamo presenti alla cena. Spataro pensava che quella serata fosse stata la preparazione della bara di Emilio. Orchestrata da Bevere e Negri. E che noi due giornalisti avessimo inventato di esser stati presenti per aiutare i nostri amici.

Tutti assassini o complici di assassini, quindi. E pensare che l’uccisione del mio amico Emilio mi era costata anche la rottura con tanti amici e compagni. Li consideravo troppo vicini a quel mondo e che non avevo voluto vedere più. Ma la morte di Alessandrini e quel che ne è seguito hanno segnato anche la mia rottura con quegli uffici del quarto piano del Palazzo di giustizia di Milano. Perché il giornalista non può essere amico del pubblico ministero. E io non lo sono stata più. Negli anni che seguirono i miei colleghi lo saranno anche troppo. In modo diverso e, secondo me, molto più pericoloso.

Il romanzo del nipote

Ugo Maria Tassinari è l'autore di questo blog, il fondatore di Fascinazione, di cinque volumi e di un dvd sulla destra radicale nonché di svariate altre produzioni intellettuali. Attualmente lavora come esperto di comunicazione pubblica dopo un lungo e onorevole esercizio della professione giornalistica e importanti esperienze di formazione sul giornalismo e la comunicazione multimediale

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