21 maggio 1976: una spesa proletaria tra narrazione giudiziaria e storia sociale

Non serve citare Foucault per evocare il baratro che separa verità storica e verità giudiziaria. Né è utile giocare dialetticamente sul funzionamento dei diversi dispositivi. In questo caso, un episodio minimo inserito nel maxiprocesso milanese contro Prima Linea e Comitati comunisti rivoluzionari, una spesa proletaria in un grande magazzino milanese, ci dà una chiara misura della separazione tra realtà effettuale delle cose e narrazione giudiziaria.

L’ordinanza di rinvio a giudizio si focalizza sugli elementi di diritto. E in questo caso – tocca dire – il giudice è stato buono: perché riconosce che un saccheggio al supermercato è un furto e non una rapina, come altrove contestato. Il problema però è che comunque la sentenza ordinanza omette – per un’evidente rimozione dei pentiti che hanno raccontato l’episodio – la sua reale natura. Lasciando però una traccia intelligente nelle ultime due righe: quando ne attribuisce sicuramente la responsabilità organizzativa a Enrico Baglioni

Ebbene sì, quella era una “spesa proletaria” degli operai della Magneti Marelli. Una pratica di lotta in cui i Comitati comunisti per il potere operaio, l’organizzazione dell’Autonomia egemone in quella fabbrica, si erano impegnati seriamente nell’autunno precedente, come racconta uno dei leader, Chicco Galmozzi, ricostruendo la dinamica delle azioni e il rapporto tra avanguardie e masse:

Le spese proletarie che vengono organizzate da Senza tregua fra ottobre e novembre del ’75 in realtà corrispondono più a queste tematiche relative al decreto operaio, alla allusione a forme coercitive di cooperazione sociale di lotta sul terreno della riappropriazione che a quelle del proletariato giovanile.

Ad esse sono chiamate a partecipare le famiglie degli operai simpatizzanti dei Comitati di fabbrica, ai quali viene detto di farsi trovare, a una certa ora, davanti alle casse del supermercato con il carrello pieno. A quel punto irrompono le Squadre, ancora una volta sono quelle di Sesto e di Cormano, che garantiscono e coprono l’evacuazione degli operai e soprattutto delle operaie con i carrelli pieni. In un caso il direttore del supermercato, terrorizzato, offre spontaneamente delle mazzette degli incassi ma con grande enfasi un compagno rifiuta: “Siamo operai, non rapinatori!” In realtà il rifiuto corrispondeva alla necessità di preservare gli operai, che in grande maggioranza non erano membri dell’organizzazione ma semplici simpatizzanti e compagni delle lotte di fabbrica, dalla possibile incriminazione, nel caso di eventuali fermi da parte della polizia, per concorso in rapina. Si trattava di azioni dimostrative di massa. I fondi si reperivano altrimenti.

La radicalità della lotta alla Magneti Marelli in quella stagione ce la restituisce invece, nello stesso capitolo del libro di Galmozzi “Figli dell’officina”, il leader operaio Enrico Baglioni:

La Magneti Marelli era una fabbrica che impiegava duemila uomini e duemila donne nei reparti produttivi di metalmeccanica leggera. Io sono entrato in fabbrica nel 1973 assieme a centinaia di nuovi assunti sia uomini che donne. I conflitti in fabbrica in quel periodo si spostavano dal terreno rivendicativo a quelli più generali, nel senso che la presenza di tante donne e di tanti giovani che si affacciavano per la prima volta alla lotta, arrivando in molti casi da paesi del Sud, in cui le stesse esperienza di vita erano più arretrate rispetto alla vita metropolitana, il conflitto trovò subito altri terreni su cui esprimersi: dal rapporto uomo donna, che anche per la mia esperienza politica è stato fondamentale, anche per superare la dimensione sindacale del conflitto e farlo diventare un conflitto politico. In pochi mesi il valore della presenza degli estremisti in fabbrica modificò la situazione, nel senso proprio dell’articolazione del conflitto. Il sindacato ci accusò di dividere i lavoratori ma il concetto di divisione era necessario perché una fase politica e sindacale si era chiusa nel nostro paese con il contratto dei metalmeccanici del ’73.

Noi dovevamo dividere per affermare contenuti nuovi per poi riunificare dentro le lotte i lavoratori. Il padronato reagì subito a questa nuova presenza, in primo luogo coi licenziamenti. Io venni licenziato con l”accusa di sequestro di persona nei confronti di un dirigente durante un corteo interno contro la sospensione per motivi disciplinari di un lavoratore. e questa lotta sui licenziamenti permise di costruire una minoranza operaia molto più solidale all’interno della fabbrica: quasi una comunità. Affrontammo il tema della giustizia. Ai licenziamenti la fabbrica rispose con la solidarietà: io insieme ad altri licenziati campai per un anno sostenuto dalle sottoscrizioni dei lavoratori. Affrontammo il tribunale fummo caricati dai carabinieri all’interno del tribunale di Milano, vincemmo le cause, ci pagavano ma non volevano che rientrassimo in fabbrica. Noi entravamo tutti i giorni, ma non ci facevano lavorare e tutti i giorni per circa trecentosessanta giorni, tutte le mattine un corteo di uomini e donne ci faceva varcare i cartelli per farci fare i militanti politici per trecentosessanta giorni. Questa battaglia durò dal 1975 al 1976.

L’accusa che ci rivolgevano PCI e sindacato era quella di dividere i lavoratori non passava. Il mio licenziamento non passò, fui rieletto delegato di reparto con il massimo di voti possibile nonostante fossi licenziato. Si era creata una comunità che andava al di là della lotta quotidiana in fabbrica e che si riversava all’esterno su altri terreni: l’occupazione delle case era un tema che allargava ancora di più le problematiche delle donne in prima linea nelle lotte, nel senso che il problema della casa, il tema dei figli, dell’asilo e anche della libertà sessuale emergeva per decine e decine di donne proletarie appena arrivate a Milano. Il tema del marito padrone era elemento continuo di discussione nei reparti e su questi temi il consenso che noi riuscivamo a raggiungere non permetteva che l’accordo fra sindacati e padroni per farci fuori passasse.

Altri fatti significativi successero, ad esempio quando morì Walter Alasia in un conflitto con la polizia fu indetto uno sciopero a cui noi non partecipammo e indicemmo un controsciopero per partecipare ai funerali di questo compagno, che era un compagno di Sesto San Giovanni come noi. Questo fatto poneva all’ordine del giorno il senso di cos’è uno sciopero: lo sciopero non è solo un fatto rivendicativo, è anche l’espressione di cose più generali. Il fatto che un gruppetto, come potevamo essere definiti noi, avesse la capacità di assumersi la responsabilità di uno sciopero non per avere quindici lire in più sul super minimo, ci poneva in una funzione di guida politica più generale. Questo spaventava l’establishment politico e sindacale a Sesto.

La lotta contro i licenziamenti ci fece sviluppare i temi della legalità, della giustizia e del rapporto operai e repressione, operai e violenza, operai e Stato. Il fatto che si andasse nei tribunali per essere riassunti non a tutti andava, c’erano dei vecchi comunisti che dicevano che nei tribunali non si va perché lì comandano i padroni, invece in quegli anni si ottennero dei passaggi importanti che poi fecero anche promuovere delle nuove leggi più avanzate, che influivano nei rapporti di lavoro e nelle cause di lavoro. Naturalmente sono sempre equilibri instabili, che di volta in volta, con la forza della lotta puoi trasformare o non trasformare a tuo favore.

Un altro tema che riguardava la discussione sulla violenza fu quello della risposta a episodi di azioni fasciste a Milano, qui noi forzammo sempre la mano per alzare il livello di consapevolezza dei lavoratori della necessità di dotarsi di strumenti di difesa delle loro lotte, dai picchetti in fabbrica alla difesa delle occupazioni delle case. Non era possibile che noi fossimo caricati dai carabinieri in un tribunale, non era possibile che venissero sfondati i picchetti davanti alla fabbrica, e quindi la necessità di cominciare a parlare di organizzazione della violenza operaia ci portò addirittura a fare dei ragionamenti sul diritto degli operai ad armarsi. Io fui arrestato nel 1977, sulle montagne sopra Verbania, insieme ad altri operai di Sesto San Giovanni, ci fu il processo per direttissima al tribunale di Verbania dove arrivarono centinaia e centinaia di lavoratori di Milano, nel corso del processo fu affermato il diritto operaio ad armarsi. La presenza di tantissimi lavoratori al processo voleva dire queste tematiche erano oggetto di una riflessione allargata.”

Ugo Maria Tassinari è l'autore di questo blog, il fondatore di Fascinazione, di cinque volumi e di un dvd sulla destra radicale nonché di svariate altre produzioni intellettuali. Attualmente lavora come esperto di comunicazione pubblica dopo un lungo e onorevole esercizio della professione giornalistica e importanti esperienze di formazione sul giornalismo e la comunicazione multimediale

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