Strage di Mosca. I curdi tra i primi ad accusare Erdogan
A proposito del ruolo di mandante della strage di Mosca da parte del leader turco Erdogan emerse oggi è di qualche giorno questo contributo di Gianni Sartori
Diversamente da quanti (citando Pasolini) in merito alla strage di Mosca (oltre 140 vittime accertate) hanno dichiarato: “Io so ma non ho le prove”, personalmente lo ammetto: “Io non so un cazzo. Però ho dei sospetti”.
Andiamo con ordine (e con i piedi di piombo).
Tra le tante ipotesi formulate (è stato Putin; No, è stata l’Ucraina; magari la CIA, oppure MI6…), non sarebbe da trascurare quella azzardata da fonti curde.
C’è anche la strage in Iran
Partendo dalla presunta dichiarazione (confessione ?) di alcuni degli arrestati, secondo cui sarebbero arrivati a Mosca con un aereo partito dalla Turchia, si prospetta una eventuale responsabilità (complicità ?) di Ankara.
Da qui ad accusare Erdogan il passo è breve. Almeno per i curdi. Imputandogli in aggiunta anche un altro grave attentato. Quello di Kerman in Iran a inizio gennaio. Fermo restando il ruolo di manovalanza che compete alle milizie jihadiste.
Le accuse del Partito Dem
Per Tülay Hatimoğolları e Tuncer Bakırhan, copresidenti del Partito dell’uguaglianza dei popoli e della democrazia (Partito DEM): “Di fronte a questo attacco disumano, ci appelliamo a tutto il mondo per la lotta comune contro lo Stato islamico. La pace e la stabilità per i popoli del mondo non possono nascere che dal dialogo tra i popoli e da una comune visione nella lotta contro lo Stato islamico e le sue emanazioni. Cogliamo questa occasione per ricordare una volta ancora che le forze che intendono utilizzare lo Stato islamico contro i Curdi del Rojava fornendogli uno spazio sono ugualmente responsabili di questi attacchi”.
L’ Unione delle Comunità del Kurdistan
L’ Unione delle Comunità del Kurdistan (Koma Civakên Kurdistanê – KCK) si spinge oltre.
Oltre alla ferma condanna di tali atrocità, nel comunicato di KCK si legge che “questo attacco dimostra ulteriormente quali siano l’odio e la crudeltà dello Stato islamico contro le persone e l’umanità”. E prosegue:
“Lo Stato islamico è diretto dal governo turco, dall’alleanza AKP-MHP. Con lo Stato islamico, il regime AKP-MHP minaccia il mondo e utilizza tale leva per ottenere concessioni. Lo utilizza contro il mondo intero, compresi il popolo curdo e il Movimento curdo per la libertà in Siria, in Iraq e in Europa.
I progetti genocidi
Con ogni mezzo il regime di Erdogan cerca di realizzare i suoi progetti colonialisti e genocidi. Utilizzando Daesh, il governo turco porta avanti i suoi obiettivi con una ideologia neo-ottomana (…). E’ evidente quali siano i motivi del massacro di Mosca. Con tale attacco, l’amministrazione AKP-MHP costringe la Russia e altri paesi a obbedire alle proprie richieste. L’Iran era già stato obiettivo di una attacco simile”.
Con una affermazione, un’accusa perentoria: “Lo Stato islamico è stato ingaggiato dal governo turco per condurre i due attacchi”.
In Francia, dopo l’estradizione di Firaz Korkmaz, altri militanti curdi rischiano di venir deportati in Turchia
MILITANTE CURDO ESPULSO DALLA FRANCIA E SPEDITO IN TURCHIA
Gianni Sartori
Firaz Korkmaz, 24 anni, si trovava in Francia, per quanto in una situazione definita “irregolare”, ormai da quattro anni. In quanto soggetto a OQTF (obbligo di lasciare il suolo francese) doveva venire scortato dall’Unesi (Unitè nationale d’éloignement) all’aeroporto di Roissy per inviarlo in Turchia.
Al momento di essere imbarcato per Istanbul si è svolta una manifestazione di parenti e solidali, tra cui esponenti del Consiglio democratico curdo in Francia e alcuni deputati comunisti (Raphaëlle Primet, Pierre Barros e Marianne Margaté) per impedirne l’estradizione. Ci sono stati scontri con la polizia locale (che conta tre feriti), ma alla fine il giovane è stato trasferito manu militari (legato, ammanettato e imbavagliato) sull’aereo della Turkish Airlines.
Il timore dei manifestanti era che una volta in Turchia venisse arrestato (come in effetti è poi accaduto appena sbarcato) e sottoposto a maltrattamenti e tortura.
Korkmaz era stato arrestato il 26 febbraio a Strasburgo con Mehmet Kopal (ugualmente a rischio espulsione) durante una manifestazione di protesta per l’isolamento totale imposto a Ocalan.
A soli tredici anni veniva arrestato una prima volta per alcune scritte filo-curde. Nuovamente a 18 anni per aver cantato e danzato in curdo sulla pubblica via con altri giovani. In seguito si era integrato nel Partito democratico dei popoli (HDP).
Il 20 marzo, mentre Firaz Korkmaz era ancora rinchiuso (con Mehmet Kopal) nel CRA (Centre de rétention administratif) di Metz-Queuleu, il movimento curdo e alcune associazioni antifasciste avevano organizzato una manifestazione davanti alla prefettura di di Metz.
In un comunicato pubblicato nel sito Serhildan si sosteneva che i due giovani demandeurs d’asile curdi avevano dovuto lasciare il loro Paese “a causa della repressione delle autorità turche contro l’opposizione curda” e che la loro domanda d’asilo nasceva dalla “ricerca di sicurezza e di libertà”.
Ma ora, proseguiva il comunicato “la Francia vuole rispedirli in un paese dove rischiano di essere perseguitati a causa del loro impegno politico, tanto più ora che il loro attivismo in Francia è stato pubblicizzato dai media dopo il loro arresto”.
Inoltre Mehmet Kopal soffrirebbe di una malattia cronica e il suo stato di salute si sarebbe aggravato durante la detenzione nel CRA. Estradato in Turchia, una volta arrestato “non usufruendo di cure adeguate, il suo stato di salute si aggraverebbe mettendo a rischio la sua stessa vita”.
E richiamava Parigi al rispetto della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che vieta espressamente il rinvio di una persona in un paese dove rischia di essere sottoposta a trattamenti disumani.
Da qualche tempo i rifugiati curdi in Francia vengono sottoposti a un inasprimento amministrativo (definito nel comunicato “senza precedenti”) tanto da venir privati del permesso di soggiorno qualora siano politicamente attivi. Questo sarebbe anche il caso di un altro militante, Serhat Gültekin, ugualmente in lista per essere estradato in Turchia.
Chiedendo infine alla Francia di “porre fine a questa insopportabile repressione amministrativa e di rispettare le convenzioni sui diritti umani e i diritti dei rifugiati”.
Da parte sua anche il Consiglio Democratico Curdo in Francia (CDK-F) ha protestato per la criminalizzazione dei rifugiati curdi rivolgendosi al ministro dell’interno, Gérard Darmanin in questi termini:
“Au mépris du principe de non-refoulement, la France a livré à la torture et à la prison un jeune dont le seul crime est d’avoir milité pour les droits des Kurdes, ici ou là-bas”.
Gianni Sartori
https://bresciaanticapitalista.com/2024/05/24/ecevit-piroglu-in-sciopero-della-fame-ormai-da-oltre-cento-giorni/
DALLE CARCERI ISRAELIANE ALLA STRISCIA, LE CONDIZIONI DI VITA DEI PALESTINESI SONO OLTRE L’UMANAMENTE SOPPORTABILE
Gianni Sartori (18 0tt0bre 2024)
Ancora in gennaio i prigionieri palestinesi lanciavano l’allarme sul rischio non certo ipotetico della propagazione di malattie, infezioni, contagi e di vere e proprie epidemie all’interno delle carceri israeliane. Tra le più diffuse quelle della pelle (scabbia, rogna…). Una conseguenza delle procedure, definite “autentici abusi” nel comunicato, applicate sistematicamente dall’amministrazione penitenziaria.
Tra cui il sovraffollamento (mediamente oltre una decine di reclusi, almeno quattro in più, per cella), scarsa disponibilità d’acqua, riduzione al minimo delle docce (con effetti drammatici sull’igiene), l’isolamento, la privazione del movimento…
Tenendo presente che se prima del 7 ottobre 2023 i detenuti palestinesi erano circa 5250, dopo quella data già in dicembre erano approssimativamente attorno a 8800. Misure repressive ulteriormente esasperate dall’utilizzo della tortura che provoca ferite, curate malamente, sui prigionieri con conseguenti infezioni. Con il conseguente degrado dello stato di salute dei detenuti. A questo andrebbero aggiunte la “politica della fame” adottata dall’amministrazione carceraria e la penuria di vestiti (in gran parte sequestrati dopo il 7 ottobre). Con i detenuti costretti a indossare gli abiti ancora bagnati dopo averli lavati (anche nel periodo invernale).
Con effetti deleteri che si sono via via accumulati nel tempo, aggravandosi con i continui arresti di migliaia di persone. Sempre secondo i prigionieri palestinesi, sarebbero in aumento anche quelli che definiscono “crimini medici”. Intesi come deliberati atti che vanno ben oltre la “normale” negligenza più o meno intenzionale. Atti che sarebbero all’origine dell’incremento della mortalità tra i prigionieri registrata negli ultimi anni.
Quanto alle vittime accertate della tortura (sempre stando al comunicato), sono aumentate dopo il 7 ottobre. Ancora in gennaio erano almeno sette quelli deceduti.
E intanto a Gaza le cose andavano e vanno sempre peggio. Nell’agosto di quest’anno il Consiglio di sicurezza si interrogava sui primi casi di poliomelite (da 25 anni a questa parte) registrati nella Striscia.
Malattia che notoriamente si trasmette per contagio (per via oro-fecale, con l’ingestione di acqua o cibo contaminati, saliva, per le goccioline prodotte da colpi di tosse e starnuti).
Dato che l’essere umano costituisce l’unico (o almeno il principale) “serbatoio naturale”, appare evidente quale fosse il livello di rischio di una diffusione su larga scala in una situazione di totale degrado ambientale (v. la contaminazione dell’acqua a causa dei bombardamenti che distruggono la rete fognaria). Dato che non sempre la persona infetta sviluppa sintomi evidenti (come la paralisi), è chiaro che la “catena di trasmissione”, in mancanza di misure igieniche adeguate, andrebbe allargandosi in maniera esponenziale. Con l’agghiacciante particolare che a esserne colpiti sono soprattutto bambini di età inferiore ai cinque anni.
In agosto, la richiesta di convocazione del Consiglio di sicurezza era partita dalla Svizzera, preoccupata perché “le condizioni di sicurezza sul terreno” non avrebbero consentito alle organizzazioni umanitarie di compiere adeguatamente la loro missione, necessaria anche in assenza di un “cessate-il-fuoco”. E questo per il delegato svizzero sarebbe “semplicemente inaccettabile mentre la situazione umanitaria va aggravandosi di giorno in giorno”. Alla Svizzera si associavano altri membri del Consiglio (come la Francia) soprattutto sulla richiesta “non negoziabile” di una campagna di vaccinazione contro la poliomelite.
Sorvolando sul “pronto intervento” (le vaccinazioni) generosamente consentito dalle autorità israeliane. Non credo si sia trattato di spirito umanitario (altrimenti avrebbero smesso di bombardare ospedali e tendopoli), ma di evitare che l’epidemia si diffondesse anche in Israele.
Da parte della Federazione Russa si sottolineava come non fosse possibile obbligare gli operatori umanitari a intervenire in situazioni di tale ostilità (anche nei loro stessi confronti, vedi il caso dei veicoli del Programma Alimentare Mondiale). Per cui rilanciava la richiesta di un cessate-il-fuoco. Così la Slovenia (a cui si allineava la Gran Bretagna) che richiedeva alle parti belligeranti la trasparenza e il rispetto delle regole d’ingaggio nei confronti del personale onusiano.
Mentre gli Stati Uniti ridimensionavano l’incidente del 27 agosto (quando una squadra del PAM era finita sotto il fuoco di un check point israeliano nei pressi del ponte di Wadi Gaza) definendolo frutto di “un errore di comunicazione tra i membri dell’esercito israeliano”. Pur augurandosi che simili episodi non si ripetessero.
Con ben maggiore aderenza alla realtà dei fatti, il delegato algerino aveva dichiarato che “l’evacuazione forzata della popolazione e la morte di 297 operatori umanitari a Gaza costituiscono nient’altro che dei crimini di guerra”. Quanto alla coordinatrice degli interventi onusiani a Gaza, esprimeva profonda indignazione per “la moltiplicazione degli ordini di evacuazione emessi dall’esercito israeliano con conseguenze devastanti sia per i civili che per il personale sanitario”. Ordini di evacuazione che avevano colpito circa il 90% degli abitanti della Striscia costretti a vivere stipati su qualcosa come l’11% del territorio di Gaza. Aggiungendo che “i civili hanno fame, sono malati, senza riparo. In condizioni ben al di là di quanto un essere umano possa sopportare”. Questo in agosto. E da allora le cose sono andate soltanto peggiorando.
Tornando alla questione dei prigionieri, il 15 ottobre sono stati liberati una quindicina di detenuti palestinesi. Tra loro un caso emblematico, quello del quindicenne Eyad Ashraf Ed’eis (originario del campo profughi di Shu’fat ). Dopo aver trascorso in prigione sette mesi, è andato agli arresti domiciliari (ma in ospedale, non al domicilio della famiglia) con braccialetto elettronico. Motivo della sua scarcerazione, la scabbia. La stessa che si va diffondendo a a macchia d’olio tra i palestinesi rinchiusi in varie carceri israeliane. Per la Società dei prigionieri palestinesi, la maggioranza soffre di malattie croniche e complicazioni varie. Inoltre esprime il fondato sospetto che l’amministrazione penitenziaria utilizzi la scabbia come ulteriore misura di controllo e maltrattamento nei confronti dei prigionieri. Dando prova quanto meno di negligenza in materia di cure mediche. Per cui sui loro corpi i segni della negligenza, oltre a quelli della tortura e della fame, sono sempre più evidenti, incisi. Come ha confermato in questi giorni un avvocato dopo la visita al carcere di Gilboa “i detenuti vivono in condizioni tragiche, immersi in una realtà dolorosa a causa delle politiche fasciste e razziste adottate dall’amministrazione penitenziaria israeliana. Tra i metodi adottati, le percosse, gli insulti, le irruzioni nelle celle e nelle sezioni. Il cibo fornito risulta mediocre sia in qauantità che in qualità. Vi è una grave penuria di abbigliamento e di coperte e tutto sta a indicare che le condizione meteorologiche, con l’arrivo dell’inverno, non vengono prese in considerazione. Le malattie della pelle si propagano, i prodotti per la pulizia e la disinfestazione sono assenti, si mantiene la politica di isolamento dal mondo esterno così come le restrizioni e le difficoltà alla comunicazione tra le celle e le sezioni”.
Gianni Sartori
MENTRE A MANBIJ POTREBBE ENTRARE IN VIGORE UN ACCORDO DI CESSATE IL FUOCO TRA SDS E SNA, VIENE CONFERMATO IL BRUTALE ASSASSINIO DI TRE DONNE ARABE DELL’ASSOCIAZIONE ZENUBIYA
Gianni Sartori
Ancora un crimine di guerra. Ancora tre donne vittime del fanatismo jihadista.Kamar El-Soud, Aysha Abdulkadir e Iman sono state assassinate da mercenari di Ankara a Manbij. La triste nuova viene dalla Comunità di Donne Arabe Zenubiya:
“Le nostre tre compagne sono diventate un esempio di sacrificio comportandosi con coraggio e dignità di fronte alla morte. Il loro martirio non è la fine della lotta, ma un nuovo inizio per il nostro impegno nell causa delle libertà e dell’indipendenza. Kamar, Aysha e Iman hanno condotto una dura battaglia contro le forze dell’oscurità e contro il nemico una dura batalla contra las fuerzas oscuras y el enemigo, comoiendo grandi sacrifici bella difesa di Manbij”.
Il cosiddetto Esercito Nazionale Siriano (SNA dalla sigla in inglese, conosciuto anche come Fajr al-Hurriya) è formato da un’accozzaglia di jihadisti (v. Ahrar al-Sharqiyah) sul libro-paga di Ankara. A cui si sono aggiunti estremisti di destra (turchi o filo-turchi) con un’unica “ragione sociale” in comune: l’odio per i curdi.
Come già segnalato, ancora il 9 dicembre il canale televisivo turco Habertürk ha trasmesso in diretta (forse senza il tempo di censurarle) le immagini di miliziani del SNA affianco a quelli dell’Isis. Con in sovraimprensione un titolo tanto lapidario quanto fasullo: “Manbij libera dal PKK/YPG. Il SNA ha completato l’operazione in Manbij”. In realtà i feroci combattimenti erano ancora in corso nei quartieri multietnici di Manbij. Le informazioni che circolavano in rete, soprattutto quelle diffuse dall’agenzia ufficiale turca Anadolu, erano false. Il loro scopo era di scoraggiare la resistenza e rientravano in quella che possiamo chiamare “guerra psicologica”.
I combattimenti proseguivano infatti anche nella notte di martedì mentre l’esercito turco intensificava le operaioni sia dell’aviazione che dell’artiglieria contro Kobane, prossimo obiettivo della guerra di occupazione.
Contemporaneamente alcuni esponenti di questa banda di tagliagole diffondevano nelle reti sociali i video di alcuni feriti (presumibilmente resistenti curdi) assassinati in un ospedale di Manbij da membri del SNA che se ne vantavano apertamente (e anche questa a ben guardare è brutale “guerra psicologica”).
E non si tratta di episodi isolati.
Anche l’osservatorio Siriano dei Diritti Umani ha denunciato “dozzine di esecuzioni di combattenti feriti del Consiglio Militare di Manbij” assassinati dai mercenari di Erdogan.
Kongra Star (il movimento delle donne del nordest della Siria) ha denunciato che a manbij diverse donne integrate nelle forze di sicurezza Asayîş sono state catturate e sequestrate, nei video diffusi dai tagliagole del SNA venivano esposte come “bottino di guerra” (in stile Isis).
Si registrano inoltre innumerevoli saccheggi e incendi di abitazioni curde. Oltra a rappresaglie contro la popolazione civile. Tra cui il caso ignobile, già citato, delle tre militanti di Zenobiya assassinate.
Atti di terrorismo speculari a quelli compiuti dallo Stato turco che il 10 massacrava un’intera famiglia (otto persone) con un veicolo senza pilota (UCAV) nel villaggio di Sefiya (Ayn Issa). Altre otto vittime che si aggiungono alla lista di circa 200 civili assassinati quest’anno da Ankara nel Nord e nell’Est della Siria.
CESSATE IL FUOCO A MANBIJ?
A Manbij, dopo due settimane di combattimenti, un possibile accordo di cessate-il-fuoco si sarebbe raggiunto (pare con la mediazione degli Statai Uniti) tra le Forze Democratiche Siriane (SDF, dalla sigla in inglese) e l’Esercito Nazionale Siriano (SNA, dalla sigla in inglese).
Mercoledì mattina 11 dicembre, il comandante delle SDF Mazlum Abdi annunciava che i combattenti del Consiglio Militare di Manbij si sarebbero ritirati dalla città per “garantire la sicurezza della popolazione civile”.
Dichiarando inoltre che “il nostro obiettivo è quello di un cessate-il-fuoco in tutta la Siria e l’inizio di un processo politico sul futuro del paese”.
Va preso atto che il Consiglio Militare e le altre organizzazioni facenti parte delle SDF in questi ultimi quindici giorni hanno lottato con coraggio e determinazione. Al prezzo di un gran numero di caduti, ma causando ai mercenari del SNA centinaia di perdite.
In questo momento la resitenza dei partigiani curdi si concentra sullo strategico ponte di Qereqozax, tra Manbij e Kobanê. Quanto alla diga di Tishrîn (più a sud e altro possibile punto di invasione del nordest) sarebbe ormai fuori uso a causa dei bombardamenti subiti. Ragion per cui vaste zone della regione autonoma (tra cui il cantone di Kobanê) sono prive di elettricità.
L’importanza assunta dal cantone multietnico di Manbij nella lotta per l’autogoverno è soprattutto politica e va ben oltre quella della posizione strategica. Liberata dall’Isis nel 2026 grazie alle SDF e alle YPJ (Unità di Protezione delle Donne), ha rappresentato la prima zona autonoma nel Nord e nell’Est della Siria con una popolaziona a maggioranza non curda. Praticamante l’ultimo cantone dell’AADNES rimasto a ovest dell’Eufrate.
Con il Consiglio Civile Provvisorio di Manbij (poi “Legislativo dell’Amministrazione Democratica di Manbij) venne introdotta in ogni ufficio una doppia direzione donna-uomo con uguaglianza di genere. Per cui la proporzione delle donne nell’amministrazione arrivava al 50%. Così come vi erano rappresentati tutti i gruppi sociali. Un modello di nuova, radicale democrazia che aveva garantito sicurezza e protagonismo per le donne e le minoranze.
Un modello che la brutalità regressiva delle gang jihadiste potrà forse provvisoriamente calpestare ma non estirpare.
Ma intanto non si attenua, anzi si intensifica inesorabilmente, la pioggio di bombe turche (sia con l’aviazione che con l’artiglieria) sui territori ammnistrati dall’AADNES, in particolare sul cantone di Kobanê. Uccidendo civili (oggi altri due vittime, una donna e un bambino nei pressi del ponte di Qaraqozaq), colpendo indiscriminatamente obiettivi sia civili che militari.
Almeno una ventina gli attacchi (soprattutto con droni) documentati da ANHA nella giornata dell’11 dicembre tra Raqqa, Tel Tamr e Kobanê.
Gianni Sartori
SIRIA – PARZIALE AGGIORNAMENTO 16 DICEMBRE
Gianni Sartori
Nonostante lo sbandierato cessate-il-fuoco mediato dalla Coalizione internazionale (sostanzialmente dagli USA) tra FDS e compagine turco-jihadista (v. SNA), il 15 dicembre l’esercito turco ha bombardato la centrale elettrica di Til Temir (Cantone di Cizîr, nordest della Siria) lasciando l’intera zona senza elettricità.
Continua intanto la veglia sulla frontiera tra Nusaybin (provincia di Mardin, Turchia) e Qamishlo (nel distretto omonimo, in Siria).
Risposta pacifica alle brutali operazioni militari di Ankara e bande affiliate (SNA) contro il Rojava. Tra i manifestanti che chiedevano sia la fine della guerra contro i curdi che la liberazione di Ocalan, alcune “Madri per la Pace” (tra cui Gurbet Tekin), esponenti politici, familiari dei prigionieri politici. Lanciando slogan come “Bijî berxwedana Rojava“, ”Bedengî mirinê berxwedana jiyanê“, ”Rojava halkı yalnız değildir”. Oltre a quello, immancabile e ormai storico “Jin Jiyan Azadî”.
Evidentemente di diverso avviso le bande del cosiddetto Esercito Nazionale Siriano (SNA, proxy di Ankara) che in contemporanea bloccavano al ponte di Qereqozaq un convoglio formato da dieci autobus e sei ambulanze inviati per l’evacuazione umanitaria dei civili da Manbij (sempre nel quadro degli accordi di cessate-il-fuoco).
Nel frattempo l’opinione pubblica si interrogava se il nuovo potere insediato a Damasco introdurrà o meno l’obbligo del velo. Anche se non è il caso di fare dell’ironia (il valore simbolico delle norme non va sottovalutato), forse sarebbe il caso di occuparsi della liberazione delle donne ezide ancora segregate, imprigionate, schiavizzate (con o senza velo) a Idlib nella Siria nord-occidentale. Lì dove al-Jolani governava fino a pochi giorni fa. Oltre naturalmente della incombente, possibile pulizia etnica pianificata da Ankara in Rojava.
Tra amenità sul nuovo look di al-Jolani (in effetti ricorda il giovane Fidel Castro, sarà un caso ?) e nuove occupazioni israeliane nel Golan, c’è anche chi si interroga, mette in guardia sulla concreta possibilità di una ripresa generalizzata degli scontri armati su tutto il territorio siriano (e non solo nel nord-est dove non si sono mai spenti).
POSSIBILE RIPRESA DELLA GUERRA CIVILE SU LARGA SCALA E TIMORI PER LE “MINORANZE”
E’ quanto paventa una ONG siriaca (European Syriac Union, fondata nel 2004) analizzando la situazione politico-militare (definita “molto critica”) creatasi nella Siria del dopo-Assad. Invitando la comunità internazionale a “esercitare una pressione sui gruppi salafiti impedendo una nuova ondata migratoria e la ripresa della guerra civile”. Constatando che la vittoria dei gruppi jihadisti è il risultato “sia del vuoto di potere che degli errori dell’opposizione”, esprime il fondato timore che la Siria potrebbe semplicemente “regredire di oltre 50 anni”.
Parlando anche pro domo sua, l’Ong denuncia i rischi che corre non solo la comunità siriaca (in quanto cristiana), ma anche quelle di curdi, ezidi, drusi, musulmani laici… Senza dimenticare la più esposta, quella delle donne. Auspicando la costituzione di un “governo inclusivo” che possa soddisfare le esigenze di tutta la composita, multietnica società siriana.
E LA RUSSIA COSA FA?
Non è chiaro al momento. Stando a quanto diffuso da un sito curdo (Lekolin org), Mosca avrebbe assunto un ruolo ambiguo. Quello del “guasta-feste”, in sintonia con l’alleato-concorrente di Ankara. Con cui avrebbe concordato azioni congiunte nelle riunioni tenute alla base aereo-spaziale di Khmeimim (dove entrambe addestrano le proprie truppe).
Allo scopo di impedire un possibile avvicinamento, un riconoscimento reciproco tra l’AADNES e il nuovo governo di Damasco.
In un comunicato Lekolin org sostiene che a Khmeimim “Russia e Turchia hanno creato una camera di riunioni dell’intelligence comune. I servizi segreti turchi (MIT) condividono tutte le informazioni su HTS in loro possesso con la Russia, mentre la Russia in cambio condivide con la Turchia le sue informazioni sull’Amministrazione autonoma del nord e dell’est della Siria e sulle FDS”.
Ovviamente alla Turchia interessavano e interessano soprattutto notizie in merito alla dislocazione delle forze FDS a Manbij, Kobanê, Raqqa et Deir ez-Zor (in vista dell’assalto finale al Rojava). Fornendo in cambio a Mosca informazioni sulle strutture di HDS a Idlib e Aleppo.
Inoltre Ankara avrebbe chiesto a Mosca di riesumare le “cellule dormienti” del regime Baas e – grazie all’addestramento dei servizi segreti russi – rimetterle in campo per alimentare le ostilità tra tribù arabe e curde nelle regioni di Hassakê e Raqqa. Vedi i recenti disordini a Raqqa del 12 dicembre quando uomini armati hanno aperto il fuoco tra la folla in piazza al-Naim (anche se non si esclude l’intervento di altre “cellule dormienti” finora relegate nel deserto e ora risvegliate per l’occasione, quelle dell’Isis).
Un ottimo pretesto per giustificare l’invasione del Rojava direttamente da parte della Turchia. Tra l’altro in questi giorni viene confermata la presenza alla frontiera con Kobanê di centinaia di altri mercenari (ex membri di Daesh guidati da Abu Fetih e addestrati per un anno in Turchia). Presumibilmente con il compito di infiltrarsi nella regione di Kobanê, Raqqa et Deir ez-Zor per operare contro le FDS. Come ha più volte denunciato il comandante delle SDF Mazloum Abdi.
SEGNALI DI APERTURA DA PARTE DI AL-JOLANI ?
Volendo poi a tutti i costi essere anche un po’ ottimisti, (vedere il “bicchiere mezzo pieno”) andrebbero riportate le ultime dichiarazioni di Abu Muhammad al Jolani (in un video diffuso da Sky News Arabia) sui curdi, i quali farebbero “parte della patria”.
Per il capo finora indiscusso di Hayat Tahrir al Sham nella Siria di domani a tutti sarà consentito “vivere insieme secondo la legge”. Ha inoltre riconosciuto che “la popolazione curda è stata sottoposta a grandi ingiustizie”.
Per cui “se Dio vuole, nella prossima Siria, i curdi saranno fondamentali. Vivremo insieme e tutti otterranno i loro diritti per legge. Non ci saranno più ingiustizie contro il popolo curdo”. Inoltre “cercheremo di riportare i curdi, parte integrante del tessuto sociale siriano, nelle loro zone e nei loro villaggi”.
Per rassicurare il suo sponsor turco, ha poi insistito su quella che a suo avviso sarebbe una “grande differenza tra la comunità curda in Siria e il Partito dei lavoratori del Kurdistan”.
Quanto al futuro politico complessivo della Siria, per il leader di Hts “la forma dell’autorità sarà lasciata alle decisioni di esperti, giuristi e del popolo siriano”.
“In Siria – aveva proseguito “saranno organizzate elezioni libere ed eque. Lavoriamo per formare comitati specializzati per riesaminare la costituzione, in modo da garantire giustizia e trasparenza”. In vista di una “soluzione globale per tutte le fazioni armate e nessuna arma sarà consentita al di fuori del quadro dell’autorità dello Stato siriano. Questo approccio riflette il nostro impegno a ripristinare la stabilità e ad estendere la sovranità dello Stato sull’intero territorio”.
Che poi ci sia da fidarsi, questo è un altro paio di maniche.
Per concludere, sarebbe in gran parte completata l’entrata in Iraq attraverso il valico di frontiera di al-Qaim di centinaia di soldati siriani in fuga. Avvenuta con il consenso delle autorità irachene e con la collaborazione delle FDS.
Gianni Sartori
KOBANE SOTTO ATTACCO E’ LA STALINGRADO DELL’UMANITA’
Gianni Sartori
Non è dato di sapere se quando queste righe verranno (forse, ormai vedo censure e rimozioni ovunque) pubblicate sarà ancora in piedi la statua in memoria di Arin Mirkan (caduta nel 2014 combattento contro l’Isis) nella piazza centrale di Kobanê.
Me lo auguro, ma intanto incrocio le dita.
Vediamo intanto di aggiornarci sulla situazione. In base a uno degli ultimi comunicati (risalente alla serata del 17 dicembre) del Comando generale delle Forze Democratiche Siriane (SDF, dalla sigla in inglese).
Dopo aver brevemente analizzato la nuova fase sopraggiunta con il “collasso del regime Baas e i significativi cambiamenti che rendono incerto il futuro della Siria””, il comunicato denunciava gli attacchi dello “Stato di occupazione turco che da anni va attaccando le nostre regioni del nord e dell’est della Siria con i suoi mercenari”.
Dopo Manbij toccherà a Kobanê? Considerando la grande mobilitazione sulla frontiera di soldati e mercenari dotati di armamenti pesanti e i persistenti, quotidiani attacchi (supportati dall’aviazione) alla diga Tishreen e al ponte di Qara Qwzaq, pare proprio che questa sia l’intenzione di Ankara. Sottolinenado comunque che dopo “cinque giorni di feroci scontri e di intensa resistenza, i nostri combattenti hanno respinto tutti questi attacchi”.
La caduta di Kobanê nelle mani degli ascari di Ankara (il cosiddetto Esercito Nazionale Siriano) consentirebbe alla Turchia di annettere l’intera regione.
Al prezzo di durissime battaglie contro l’Isis, le SDF avevano ottenuto il riconoscimento di gran parte della comunità internazionale come “forza legittima”. Appare quindi scandaloso che lo Stato turco stia – di fatto – vendicando l’Isis attaccando proprio le medesime aree dove venne sconfitto. Quando Kobanê assurse nell’immaginario collettivo a simbolo della resistenza al fascismo islamico.
Già all’epoca da Ankara si declamava che “Kobanê è sul punto di cadere” (non senza compiacimento). Ora il compito, all’epoca delegato agli islamisti, verrebbe portato a compimento (per ora solo a livello di intenzioni) direttamente dallo Stato turco. Nell’ingrata indifferenza di quelle nazioni (europee in primis) che trassero gran beneficio dalla sconfitta di Daesh.
Ovviamente le SDF auspicano che “così come Kobanê segnò l’inizio della sconfitta dell’Isis, possa ugualmente segnare l’inizio della caduta di Erdogan e dei suoi mercenari”.
Chiamando quindi a raccolta “i giovani curdi e arabi e tutto il nostro popolo” per integrarsi in massa nella Resistenza. Dato che “se aspiriamo a un futuro in cui le nostre famiglie e il nostro popolo possano vivere in sicurezza e onore nella propria terra, dobbiamo arruolarci urgentemente nelle SDF”.
Rivolgendosi anche a “tutti i popoli del Medio Oriente, al mondo, agli alleati rivoluzionari, agli amici, ai democratici e chi cerca la libertà affinché sostengano il popolo di Kobanê”.
Sempre nella giornata del 17 dicembre, Mazlum Abdi (comandante delle SDF) ha diffuso una dichiarazione in cui afferma di “proseguire nella ricerca di un accordo di cessate-il-fuoco generale in Siria” e di essere disponibili al “consolidamento di una zona smilitarizzata nella città di Kobanê”.
Anche sotto la supervisione statunitense. Ben sapendo che non è possibile fare troppo affidamento su Washington. Del resto (nonostante le feroci critiche e condanne da parte di “campisti” e rosso-bruni) su questo la posizione dei curdi è sempre stata netta (per chi volesse intendere ovviamente).
In sostanza, la collaborazione tra FDS e i militari statunitensi incentrata sulla sconfitta dell’Isis, non ha mai assunto valenza strategica. Per questo le FDS hanno sempre insistito sullo statuto di autonomia come una garanzia nei confronti dalla dipendenza militare rispetto agli USA. Con tutte le complicazioni e talvolta contraddizioni che fatalmente si sono via via generate. Per esempio nel 2019 quando (su “suggerimento” o richiesta statunitense) i curdi ritirarono le armi pesanti da Ras al-Ayn (Serêkaniyê) e da Tel Abyad (Girê Spî). Per “rassicurare” la Turchia che sosteneva di sentirsi “minacciata” (?!?).
In cambio gli Stati Uniti avevano promesso protezione ai curdi.
Sappiamo poi come è andata. Ankara aveva invaso, occupato e “ripulito” (nel senso di “pulizia etnica”) Serêkaniyê e Tel Abyad. Applicando gli stessi metodi (saccheggi, furti, torture, sequestri di persona…) sperimentati nella città di Afrin.
Dovremo assistere allo stesso indegno spettacolo anche a Kobanê?
Significative (propedeutiche ?) le dichiarazioni rese alla televisione del ministro degli Esteri e del capo dello spionaggio turchi. Secondo cui “i leader stranieri delle YPG devono lasciare la Siria entro il 21 dicembre mentre i siriani nelle YPG devono deporre le armi”. Certo che definire “stranieri” i curdi delle YPG e YPJ (il Rojava è comunque parte del Kurdistan, non dimentichiamolo) da parte di un esercito invasore in cui combattono uzbeki, tagiki, uiguri, azeri, turchi e presumibilmente anche ceceni, suona perlomeno fuori luogo. Una conferma che per Erdogan questa parte della Siria rientra nei suoi progetti di un nuovo impero ottomano. Ma soprattutto il pretesto per sradicare definitivamente il Confederalismo democratico (potenzialmente pericoloso per il regime turco in quanto “contagioso”).
Gianni Sartori
ROJAVA RESISTE !
Gianni Sartori
Come ricordava nel suo comunicato del 24 Dicembre (Sauvons Kobané, Sauvons le Rojava !) la Coordination Nationale Solidarité Kurdistan (CNSK, un coordinamento di organizzazioni curde e della sinistra francese)* dieci anni fa, nel 2014, sembrava che “niente e nessuno potesse arrestare l’avanzata delle bande jihadiste dello Stato islamico che aveva conquistato metà dell’Iraq, massacrato gli ezidi di Shengal e proclamato il califfato sull’Iraq e sul nord della Siria. Mentre dalla sua autoproclamata “capitale”, Raqqa, partivano le direttive per compiere attentati in Europa e soprattutto a Parigi”.
Resisteva soltanto una piccola città in prossimità della frontiera turca, Kobane. Mentre Daesh mobilitava tutte le sue forze contro questo estremo caposaldo di libertà, la Turchia bloccava le frontiere impedendo l’arrivo di rinforzi ai curdi di Kobane e reprimeva le espressioni di solidarietà arrestando i manifestanti e condannandoli a decenni di carcere. Le combattenti e i combattenti curdi caddero a migliaia, ma (come quella di Stalingrado contro i nazifascisti) la resistenza di Kobane rappresentò l’inizio della disfatta per Daesh. Fino alla caduta di Raqqa e al definitivo smantellamento del Califfato.
Da allora, riprendendo il comunicato della CNSK “i curdi alleati delle tribù arabe siriane, hanno costruito una federazione autonoma dei popoli del nord e dell’est della Siria. L’AADNES, fondata su un contratto sociale rivoluzionario: totale uguglianza tra le religioni, i gruppi etnici, parità uomo/donna in tutte gli organi direttivi della federazione autonoma, uguaglianza in materia di divorzio, eredità etc.”. A cui si dovrebbe aggiungere l’abolizione della pena di morte, il protagonismo delle donne nel campo dell’autodifesa armata, il rinnovato rispetto ambientale…
Ma la repentina caduta di Bachar Al Assad ha consentito la presa del potere in Damasco di Hayat Tahrir al-Sham (HTS), organizzazione in tempi recenti ancora affiliata a Al Qaeda. Ragion per cui è lecito mantenere dei dubbi sulle dichiarazioni di adesione ai principi democratici del leader Ahmad Al Chareh. Il decreto sul disarmo di tutte le milizie, nelle intenzioni di HTS avrebbe dovuto coinvolgere anche le Forze Democratiche Siriane (SDF) che difendono l’AADNES. Ma le SDF per ora hanno declinato l’invito.
Sembra invece non dover riguardare l’Esercito Nazionale Siriano (SNA), notoriamente costituito da jihadisti armati e finanziati da Ankara in chiave anti-curda. Dopo Manbij e Tall Rifaat ora gli ascari di Ankara puntano su Kobane, città-simbolo.
“Lasceremo ancora una volta – concludeva il comunicato di CNSK– che siano i curdi a sacrificarsi per fermare le orde jihadiste?”
Va riconosciuto a Erdogan (finanziatore e manovratore ben poco occulto del SNA) di non fare mistero su quali siano le sue reali intenzioni. Risale alla settimana scorsa un suo intervento (alla cerimonia per i premi TÜBİTAK et TÜBA) in cui sfacciatamente dichiarava che la Turchia “è più grande della Turchia e non può accontentarsi dei suoi 782 000 km²”. Una rivendicazione della “missione che la Storia ci ha affidato” (o dello “spazio vitale”?) che implica altri progetti di invasione sia in Rojava che in Bashur (Kurdistan entro i confini iracheni).
Quanto alla situazione (fluida, instabile…) sul campo di battaglia, al momento pare che le Forze Democratiche Siriane (SDF) stiano respingendo, infliggendo gravi perdite, l’Esercito Nazionale Siriano (SNA). Sia impedendo l’attraversamento dell’Eufrate verso est, sia passando alla controffensiva. Nonostante il 24 dicembre i militari turchi siano intervenuti direttamente sul terreno per aiutare gli alleati in difficoltà, alcune delle località perse nel corso delle ultime due settimane sono tornate sotto il controllo curdo con nuove teste di ponte sulla riva ovest del fiume.
Mentre ovviamente proseguono i sistematici bombardamenti (artiglieria, aerei, droni…) che colpiscono soprattutto obiettivi civili.
Il 23 dicembre è iniziata l’operazione delle SDF denominata Eziz Ereb (in memoria del comandante della Brigata Mártir Şervan, caduto il 10 dicembre nella battaglia del ponte Qereqozak).
Nella mattinata del 24 dicembre “è stato respinto un attacco dei mercenari dell’occupazione turca nel villaggio di Qabr Emo a est di Manbij dove ora si stanno svolgendo feroci combattimenti tra le nostre forze e i mercenari”. Ricordo che secondo l’Osservatorio Siriano dei Diritti Umani (SOHR) le SDF al momento si troverebbero a una decina di chilometri dalla città di Manbij.
Inoltre le forze arabo-curde avrebbero distrutto alcuni veicoli militari degli avversari (come documentato da video e foto).
Continuano pure a combattere presso la diga di Tishrin anche le forze del Consiglio Militare di Manbij. Arrestando l’avanzata del SNA contro i villaggi di Mahshiyat al-Tawahin e Khirbet Tuwaini (distretto di Abu Qalqil). Catturando blindati, pezzi di artiglieria con le relative munizioni e distruggendo un veicolo BMB e altri due veicoli militari che trasportavano mitragliatrici pesanti DshK. Nella serata del 24 dicembre i combattimenti erano ancora in corso.
Sempre nel pomeriggio del 24 dicembre (come ha comunicato Ronahi TV), una forte esplosione si è avvertita nella città di Manbij senza che al momento siano disponibili informazioni più precise.
Coincidenza. A diversi chilometri di distanza, in territorio turco, nella mattinata del 24 dicembre un’altra esplosione devastava (almeno una dozzina le vittime) la fabbrica di munizioni ZSR nel quartiere di Kavakli (distretto di Karesi, ovest della Turchia). “Curiosamente – ironizzava una fonte curda – stavolta le autorità turche non accusano la guerriglia curda”.
Riassumendo, questo a grandi linee il quadro generale nella serata del 24 dicembre:
Dalle zone occupate dalla Turchia di Serêkaniyê (Ras al-Aïn) e di Girê Spî (Tall Abyad), proseguono gli attacchi delle truppe jiahadiste mercenarie di SNA contro la regione autonoima. Attacchi mirati soprattutto verso la regione di Tall Tamir (a amaggioranza cristiana) e la città di Aïn Issa lungo la strategica autostrada M4.
Nel villaggio di Alya (Al-Aalye ash-Sharqiya, a ovest di Tall Tamir, hanno tentato di penetrare nella zona autogestita, ma almeno tre assalitori soni caduti per mano delle SDF. Diversi altri sono rimasti feriti e alcuni pick-up sono andati distrutti.
Ripetutamente colpiti dai bombardamenti turchi la zona di Zirgan (Abu Rasen, a est delle aree occupate di Serêkaniyê) e i dintorni di Tall Tamir. Particolarmente danneggiati i villaggi di Tawila e di Tel Tawil, oltre alla parte centrale di Zirgan.
Altri due miliziani jihadisti sono rimasti uccisi nel villaggio di Umm al-Baramil (nei pressi di Ain Issa) mentre cercavano di infiltrarsi oltre le linee difensive delle SDF. A seguito dei bombardamanti turchi, migliaia di persone di Aïn Issa sono rimaste semza elettricità. Più a est, i villaggi di Fatisa e di Mişêrfa, sono stati ugualmente duramente colpiti, mentre a Qizelî, nella mattinata del 24 dicembre, veniva distrutto un deposito di grano.
Non mancano segnali di speranza.
Nel Cantone di al-Jazira, l’amministrazione di al-Hasakah ha indetto una marcia di sostegno ai combattenti delle SDF che si stanno sacrificando per arrestare l’occupazione turca del nord-est della Siria.
Partita dal quartiere di Tal Hajar, ha visto la partecipazione di migliaia di rappresentanti curdi, arabi, assiri, armeni… Oltre a molti esponenti politici e della società civile.
Inalberando le bandiere delle SDF, dell’AADNES e della rivoluzione siriana, hanno lanciato slogan quali “L’unità delle diverse componenti garantisce la stabilità”, “No all’occupazione turca”, “Le SDF sono la nostra forza”, “Viva la fratellanza tra i popoli”, “Viva l’unità del popolo curdo”, “Viva la resistenza del Rojava”.
Stessi concetti espressi in molti striscioni e cartelli.
Dopo aver osservato un minuto di silenzio per i caduti, era intervenuto Aldar Khalil (membro della Co-Presidenza del PYD) appelandosi alla “democrazia in Siria e al rispetto di tutte le componenti della società”.
Chiedendo a tutti di “lavorare uniti per costruire una Siria democratica” e ricordando che le SDF “non sono soltanto una forza militare, ma una forza di protezione che rappresenta la volontà dei popoli del nord e dell’est della Siria” . Senza dimenticare che se la regione è diventata un “simbolo, un modello di ordine democratico e di fratellanza tra i popoli” gran parte del merito spetta al ruolo di pioniere delle donne.
A inasprire ulteriormente i rapporti tra gli invasori filo-turchi e le tribù arabe (su cui forse Erdogan contava per dividere l’amministrazione autonoma), un ulteriore evento esecrabile.
Un miliziano della divisione al-Hamza (Al-Amshat, battaglione del SNA sotto comando turco) ha rapito e violentato una bambina di sette anni a Manbij scatenando la furiosa, legittima reazione della tribù Al-Bubna (si parla di scontri con vittime tra milizie tribali e SNA). Si tratta dell’ennesimo crimine di guerra e contro l’umanità opera dei mercenari jihadisti che colpiscono di preferenza la popolazione civile.
Intanto a Damasco, oltre ai negoziati (scontati) tra la Turchia e gli islamisti, vengono segnalate le trattative tra alcune potenze occidentali e Hayat Tahrir al-Sham, i nuovi detentori del potere in Siria.
Gianni Sartori (24 dicembre 2024)
*nota 1
CNSK: Amis du Peuple Kurde en Alsace – Amitiés Kurdes de Bretagne – Amitiés Kurdes de Lyon Rhône Alpes – Amitiés Kurdes de Vendée – Association Iséroise des Amis des Kurdes – Association France Kurdistan – CADTM : Comité pour l’abolition des dettes illégitimes -Conseil Démocratique Kurde en France – Ensemble – Mouvement Jeunes Communistes de France – Mouvement de la Paix – Mouvement des Femmes Kurdes en France – Mouvement contre le Racisme et pour l’Amitié́ entre les Peuples – Nouveau Parti Anticapitaliste – Parti Communiste Français – Union Communiste Libertaire – Union Syndicale Solidaires – Solidarité et Liberté Provence
“La ragazza di Kobanê va sulla linea del fronte.
Ci guarda solo un momento mentre cammina da sola.
La libertà è una medaglia che si conquista sul campo.
Non è più solamente una parola”.
La diga di Tishrin ancora sotto il controllo di MMC, SDF, YPG e YPJ
Gianni Sartori (26 dicembre 2024)
Dieci anni fa in molti, non solo David Riondino, resero omaggio alla resistenza curda in particolare alle donne curde) contro Daesh, i “mercanti di schiavi” fascio-islamici.
Oggi che la storia si ripete (e ancora come tragedia, non certo farsa) sembra prevalere una colpevole disattenzione.
Oppure un rassegnato pessimismo.
Qualche giorno fa (19 dicembre su Lemonde.fr) Alain Frachon, commentando gli eventi in Siria, sosteneva che “una parte del futuro siriano si gioca nelle relazioni che saranno in grado di stabilire il gruppo armato HTS, proveniente da Al-Qaida e i curdi del PYD”.
In ogni caso appariva evidente che “la caccia ai curdi è aperta”. Su quel lembo di territorio, le milizie al servizio della Turchia agiscono con la dichiarata intenzione di estirpare la millenaria presenza della popolazione curda.
Con migliaia e migliaia di sfollati in fuga dai bombardamanti turchi e dalla brutalità jihadista.
In sostanza: pulizia etnica.
La repentina caduta di Assad sembra inoltre aver risvegliato gli appetiti sia di Israele che della Turchia (entrambe a diverso titolo compartecipi e corresponsabili della fine del regime).
Se per Ankara si tratta di cancellare l’esperienza del Confederalimo democratico ai suoi confini, per Israele distruggere quanto rimane delle infrastrutture militari siriane (oltre ad annettersi altri territori).
A farne le spese, probabilmente, saranno principalmente le minoranze etniche e religiose (curdi, drusi, cristiani, alauiti…).
RESISTENZA ARABO-CURDA
Il 26 dicembre l’Ufficio Stampa delle Forze Democratiche Siriane (SDF dalla sigla in inglese) diffondeva gli aggiornamenti sul conflitto in atto intorno all’Eufrate (in particolare nell’area a nord-est di Manbij) tra esercito turco (e milizie mercenarie, SNA) e Consiglio Militare di Manbij (MMC).
Nella mattinata almeno cinque miliziani dell’Esercito Nazionale Siriano (SNA) erano rimasti uccisi, mentre tre blindati del SNA venivano distrutti.
Smentendo quanto affermato dal Ministero della difesa turco sulla presunta caduta nelle mani delle milizie jihadiste della diga di Tishrin (punto strategico sull’Eufrate). In realtà rimane tuttora sotto il controllo della resistenza (MMC, SDF, YPG e YPJ). Come veniva mostrato in un video diffuso in tempo reale (poco prima delle ore 16 del 26 dicembre). Confermando quanto aveva annunciato circa tre ore prima Dilovan Asmîn, presente sul luogo. La giornalista aveva definito “pura propaganda di guerra speciale” le dichiarazioni dello Stato turco. Con cui si vorrebbe “scoraggiare la popolazione del nord e dell’est della Siria”.
Inoltre i combattenti arabo-curdi si starebbero dirigendo nuovamente verso la città.
A QUESTO PUNTO IL PREZZO QUAL’E’…
Purtroppo il prezzo da pagare per contrastare gli invasori è stato alto.
Il 26 dicembre a Qamishlo è stato reso l’estremo saluto ad alcuni combattenti arabi e curdi caduti per difendere il Rojava dalle orde turco-jihadiste: Baran Qamişlo, Besam Ehmed, Yaşar Îbrahîm, Şêrzad Qamişlo, Agirî Qamişlo e Çiyarûs.
Dopo un minuto di silenzio, a nome del Consiglio delle famiglie dei martiri di Qamishlo, Cewahir Osman ha spiegato che “oggi stiamo per dare sepoltura ai nostri martiri nel nostro cuore e nella nostra anima”.
Un combattente, Nûrî Mehmûd ha voluto sottolineare che “il nord e l’est della Siria sono terra di eroismo, di resistenza e di lotta”. E anche se lo Stato turco “vuole distruggere con ogni mezzo il nostro popolo (…), l’amministrazione autonoma rappresenta il futuro per tutti i siriani”.
Da segnalare poi quando riportato da un organo di stampa londinese (The Telegraph, conservatore). Ossia che gli Stati Uniti con la Gran Bretagna avrebbero finanziato e addestrato un’unità di “ribelli” siriani (in pratica dei Contractors) per combattere contro Assad.
D’accordo, è un po’ come scoprire l’acqua calda. Ma vanno comunque prese in considerazione le affermazioni di un certo Bashar al-Mashadani, presentato come il leader di un soidisant “Esercito Rivoluzionario del Commando” (RCA): “Gli americani ci hanno riuniti nella loro base di al-Tanf, al confine con l’Irak dicendoci di stare pronti (…) Non ci hanno detto come sarebbe accaduto. Ci hanno solo detto: “Tutto sta per cambiare. Questo è il vostro momento. O Assad cadrà, o cadrete voi”.
Gli ufficiali statunitensi avrebbero fatto aumentare considerevolmente gli effettivi della brigata Abu Kathab (da circa 800 a 3mila) portandola sotto il comando congiunto della RCA. Spingendoli poi a collaborare con le forze di Hayat Tahrir al-Sham (HTS, il gruppo di al-Jolani). Forse allo scopo di tenere sotto controllo gli ex esponenti di Al-Qaida.
E naturalmente, precisava Bashar al-Mashadani“la comunicazione tra le due forze era coordinata dagli americani ad Al-Tanf”.
Armati dagli Stati Uniti, i membri della RCA ricevono uno stipendio di 400 dollari al mese. Per la cronaca, superiore di ben 12 volte rispetto a quello corrisposto ai soldati dell’esercito di Assad.
Gianni Sartori
4 gennaio 2025: LE FORZE DEMOCRATICHE SIRIANE RESPINGONO GLI ATTACCHI DELLA TURCHIA E DEI SUOI AFFILIATI
Gianni Sartori
Anticipando a grandi linee una dichiarazione più dettagliata (entro le prossime ore, con foto e video), in data 4 gennaio il Centro Stampa delle FDS ha annunciato che gli attacchi terrestri e aerei di Ankara e bande sue alleate contro l’est e il sud di Manbij e il nord della diga di Tishrin sono stati respinti. Così come al ponte di Qereqozak.
Decine di miliziani filo-turchi, ufficiali compresi, hanno perso la vita nel corso dei combattimenti e molti altri sono rimasti feriti.
Intanto a Kobanê la popolazione curda continua a mobilitarsi (ormai da un mese, dall’inizio di dicembre) per assistere in ogni modo (preparando quotidianamente in grandi calderoni pasti caldi per esempio) i combattenti delle FDS e delle YPJ (Unità di protezione della donna). In particolare i membri della “Comune del Martire Fîras” che raggruppa 25 famiglie si occupa anche della distribuzione. Inoltre molti si stanno armando per partecipare direttamente alla resistenza.
In una conferenza tenuta nel Parco 4 di Aprile di Hesekê, i Comandi Generali delle HPC (Hezen Parastina Cawari – letteralmente: Forze di Difesa dell’Essenza della società.) e delle HPC-Jin (Forze di difesa dell’essenza della società-Donne)* hanno presentato le loro valutazioni sia sugli attacchi della Turchia contro il Rojava che sulla situazione generale in Siria.
Il comunicato è stato letto, in curdo e in arabo, da Viyan Hesen (esponente di HPC) e da Hemîd Miêş, membro dell’amministrazione del cantone di Cizre.
Spiegando che – dopo la caduta del regime Baath – la Turchia aveva intensificato i suoi attacchi contro il nord e l’est della Siria, provocando l’esodo di gran parte della popolazione di Manbij e Sheba. Mentre chi è rimasto subisce ogni genere di atrocità.
Quanto alla nuova amministrazione installata a Damasco “nega la libertà alle donne e collabora con lo Stato turco”. Ragion per cui “non possiamo contare su questa forza per la nostra sicurezza”.
Nelle regioni dell’Amministrazione Autonoma sono le FDS (“composte da giovani curdi, arabi, armeni, turcomanni, siriani e assiri”) che con enormi sacrifici hanno saputo proteggere la popolazione.
Aggiungendo che “mentre i nostri combattenti compiono il loro dovere noi nelle HPC non resteremo in silenzio lasciandoli soli. Saremo in prima linea insieme ai nostri fratelli delle SDF e delle YPJ. Per difendere la nostra patria, i nostri villaggi, i nostri quartieri e le nostre città”.
Stando alle notizie finora accessibili, sarebbero già decine i membri delle HPC e delle HPC-Jin che hanno raggiunto la linea del fronte. Come spiegava Hemîd Miêş: “siamo tutti SDF e tutti siamo le YPG e le YPJ. Che tutto il mondo sappia che noi resisteremo fino alla fine”.
Per concludere con una appello “a tutto il nostro popolo a organizzarsi sulla base della Guerra Popolare Rivoluzionaria rafforzando la nostra difesa. Non abbiamo paura dei sacrifici che ci aspettano. Sono per la sicurezza del nostro paese e per costruire un futuro libero per il nostro popolo”.
Va ricordato che in tredici anni di crisi siriana, l’Amministrazione Autonoma ha saputo garantire uno spazio libero, autogestito e autodifeso. Ora come ora è evidente che tutto questo rischia di sparire se la Turchia fosse in grado di ampliare ulteriormente le sue annessioni territoriali come a Efrîn, Bab, Girê Spî, Serêkaniyê…
Anche se qualche problema lo va incontrando anche nelle zone già occupate. E’ di questi giorni la notizia (diffusa dall’agenzia ANHA che ha consultato fonti locali) che l’intelligence turca avrebbe ordinato ai posti di controllo di sparare e uccidere chiunque intenda abbandonare le armi e disertare (in stile Caporetto).
Infatti molti mercenari provenienti da altre zone della Siria (Aleppo, Hama, Idlib, Deir ez-Zor, le zone rurali intorno a Damasco…) che ancora nel 2019 hanno occupato Girê Spi e le aree rurali circostanti, con la caduta del regime sarebbero entrati in agitazione (in particolare i quadri) tentando in ogni modo di andarsene per tornare a casa.
Un effetto, presumibilmente, delle sconfitte subite combattendo contro le FDS.
Gianni Sartori
* nota 1: Come ricordava in un reportage Infoaut “le HPC non hanno regole di comportamento così ferree come nell’esercito, vengono dalle comuni e sono tutte forze volontarie e non pagate; prendono parte al Tev-dem, il Movimento delle organizzazioni che operano per l’autonomia democratica secondo i principi del confederalismo democratico teorizzato da Öcalan. Si occupano dell’autodifesa del quartiere e sono diretta espressione della comune di zona. Nascono dalle comuni, si organizzano tramite esse e le difendono. Vi partecipano tutti e tutte dai 7 ai 70 anni”.
MA GLI EZIDI SONO DA CONSIDERARE CURDI O NO? FORSE LA QUESTIONE E’ UN’ALTRA…
Gianni Sartori
Recentemente un esperto in materia (vero o presunto non è dato di sapere) aveva contestato con un commento un mio articolo su Brescia anticapitalista dove parlavo di “curdi ezidi”. Sostenendo, l’esperto, che si tratterebbe di due popoli completamente diversi. Anzi, mentre degli ezidi è confermata l’antichità, i curdi sarebbero un popolo molto più recente. Sul momento avevo lasciato perdere dato che la questione è complessa e in fondo ognuno è libero di pensarla come meglio crede.
Avevo soltanto scritto a Flavio Guidi spiegando che (testuale) “non sono un antropologo naturalmente, ma – da proletario autoalfabetizzato – comunque conosco alcune delle diverse opinioni in proposito, NON sempre “disinteressate” a mio parere.
Per es. Saddam li aveva classificati come “arabi” (per ragioni di statistica), ma poi li trattava malissimo. Diffido anche di qualche antropologo statunitense che insisteva molto sulla differenza (divide et impera ?).
Che io sappia, 30 o 40 anni fa degli ezidi (o yazidi) ne parlavano solo e soltanto i curdi. Difendendone le tradizioni, l’identità etc. Inoltre senza i partigiani (curdi) scesi dalle montagne in Iraq al tempo dell’Isis non se ne sarebbe salvato nessuno. Quanto alla lingua (elemento determinante per i popoli minorizzati, dai baschi ai catalani, ai corsi..) quella parlata dagli ezidi è uno dei principali “dialetti” curdi”.Dato poi che l’esperto insisteva sulle differenze tra la religione ancestrale degli ezidi e i curdi genericamente definiti “sunniti” , aggiungevo che: “per quanto riguarda l’aspetto religioso i curdi sono sia sunniti che sciiti, ma esiste anche una consistente componente alevita (oltre a quelli atei ovviamente). Ne conosco anche di “animisti” e – forse – anche mazdei. Non penso proprio che i curdi, così attenti a salvaguardare il pluralismo religioso, etnico, politico… intendano appropriarsene più di tanto. Se scrivono “curdi ezidi” lo fanno a ragion veduta.Quanto alla loro maggiore o minore “antichità”, si dice che i curdi discendano dai Medi, nientemeno”.Aggiungendo infine che “per un po’ ho usato il termine ezidi da solo, ma poi mi sono adeguato a quanto scrivono in genere i compagni curdi (e anche quelli ezidi, almeno credo)”.
E per quanto mi riguarda era finita lì. Ma ora vedo che negli ultimi proclami ispirati da Recep Tayyp Erdogan (ormai avviato a ristabilire un protettorato neo-ottomano sulla Siria, v. le previste basi militari turche a Homs e Damasco) Hakan Fidana, ministro degli esteri turco, invita le minoranze “alawite, yazide e cristiane” a considerare la Turchia come il loro “pastore e protettore”. Scavalcando di fatto lo stesso ex (ex ?) esponente di al Qaida Al Jolani che recentemente parlando dei cristiani li aveva definiti “parte integrante e importante della storia del popolo siriano”. Ovviamente tra le “minoranze” (personalmente preferisco parlare di “popoli minorizzati” in quanto separati artificialmente da confini statali imposti) citate da Hakan Fidana manca quella curda.
Ai curdi infatti lo stesso Erdogan aveva riservato un messaggio “personale” assai minaccioso ancora il 25 dicembre: “I combattenti curdi in Siria devono decidere se deporre le armi o venir sepolti in Siria assieme a quelle stesse armi”.
E sappiamo che sta operando con questi precisi intenti (o almeno ci prova).
Per cui, qui e ora, insistere sulle differenze tra ezidi e curdi mi sembra alquanto strumentale. Non una questione accademica, ma l’ennesimo esempio di “divide et impera”. In questo caso a favore di Ankara.
Gianni Sartori
https://www.sinistrasindacale.it/2025/01/19/si-complica-ulteriormente-il-groviglio-turco-curdo-di-gianni-sartori/
segnalo (esce oggi – 20 gennaio – ma risale a una decina di giorni fa)
GS
MENTRE ALIMENTA AMBIGUE SPERANZE PER UNA SOLUZIONE POLITICA DEL CONFLITTO, ANKARA NON SMETTE DI COLPIRE LA POPOLAZIONE CIVILE NEL NORD-EST DELLA SIRIA (e intanto la polveriera di al-Hol rischia di deflagrare)
Gianni Sartori
Significativo che anche L’ONG Médecins sans frontières (MSF) vada denunciando le operazioni militari turche nei pressi della diga di Tishrīn (difesa dalle forze arabo-turche delle FDS e in particolare dalle YPJ).Attacchi che infieriscono sulla popolazione civile, colpendo anche operatori sanitari e ambulanze presenti in zona.Dal comunicato si apprende che i portavoce di MSF si dicono “profondamente preoccupati per l’incremento di violenza nel nord della Siria, nella regione di Manbij e della diga di Tishrīn, in particolare per gli attacchi alle ambulanze che hanno causato ferite mortali agli operatori sanitari. Questi atti ostili rischiano di impedire l’aiuto umanitario e l’assistenza indispensabile per le popolazioni del nord-est della Siria.Ci appelliamo a tutte le forze belligeranti affinché vengano prese misure adeguate per proteggere i civili, il personale sanitario e le strutture mediche, in conformità al diritto internazionale”.
Ulteriori prove della brutalità con cui agiscono l’aviazione turca e i suoi alleati jihadisti provengono dalle immagini estratte da un drone turco abbattuto dalle Forze democratiche siriane (FDS) nei pressi della diga contesa. Vi si riconoscono chiaramente un insediamento militare con molti soldati turchi, veicoli blindati e altri mezzi di trasporto, un campo di addestramento e basi di lancio per droni Bayraktar-Akanci da inviare su Tishrīn. Dove, ricordiamo, dall’8 gennaio i droni armati hanno già ucciso oltre una ventina di civili (più di 120 i feriti, molti in maniera grave).
Ulteriore conferma, caso mai ce ne fosse stato bisogno, della diretta responsabilità turca nei crimini di guerra qui perpetrati. In particolare con il bombardamento del 15 gennaio contro i civili che protestavano pacificamente in difesa della diga. Attacco in cui hanno perso la vita gli operatori sanitari Omer Hesen, Hêza Mihemed e Edhem Elî. Così come Osman Îbrahîm, membro del Consiglio dell’Amministrazione Autonoma del Cantone dell’Eufrate (oltre a una ventina di civili feriti nella medesima circostanza).
Successivamente era deceduta anche Ronîz Mihemed Elî, rimasta gravemente ferita.
Altre vittime civili, tra cui altri due giornalisti, nella giornata del 21 gennaio.
Quello della diga è diventato un autentico “punto critico” (come denunciano le FDS) in quanto, in caso di crollo, si potrebbe dover assistere a un vero disastro ambientale e umanitario.In un comunicato del 22 gennaio, l’AANES si è rivolta alla Comunità internazionale e alle organizzazioni giuridiche e umanitarie affinché prendano posizione e intervengano con misure adeguate per impedire ulteriori attacchi volti alla distruzione dell’infrastruttura (definita di “importanza vitale sia come fonte di acqua che di energia”) in aperta violazione del diritto internazionale e umanitario.
In risposta agli attacchi di Ankara e delle bande filo-turche, la popolazione del nord e dell’est della Siria non è rimasta a subire passivamente. Aderendo alla dichiarazione di mobilitazione generale dell’AANES. Tra le tante organizzazioni impegnate nella resistenza, va segnalata quella di TEV-ÇAND, un’organizzazione culturale che che ha scelto di parteciparvi direttamente.
Come ha dichiarato in una intervista con l’agenzia ANF la co-presidente Sumeya Mihemed “ TEV-ÇAND ha costituito dei comitati mettendo in campo iniziative per sostenere la nostra gente che si vede ormai costretta a emigrare a causa dei continui attacchi (…). Denunciando con forza quanto sta avvenendo da tempo nel nord-est della Siria: “Abbiamo potuto vedere come il popolo di Afrin sia stato oggetto di una migrazione forzata. E più recentemente la stessa situazione si è registrata a Shehba”.
Ma la situazione potrebbe degradarsi ulteriormente a causa del campo di al-Hol (posto a circa 40 km. a sud della città di al-Hasakah) dove la situazione, con decine di migliaia di famiglie di esponenti di Daesh qui presenti (per un totale di circa 40mila persone, donne e bambini compresi, sia iracheni che siriani e di altre nazionalità) sta precipitando nel caos. Sia per gli intensi attacchi turchi che per l’insorgenza delle cellule dello Stato islamico (ormai non più “dormienti”) presenti anche all’interno del campo.Finora la situazione era rimasta relativamente sotto controllo, grazie anche all’operazione “Sicurezza permanente” avviata dalle Forze di sicurezza interna (Asayish), dalle FDS e dalle Unità di protezione delle donne (YPJ) nel 2024. Ma ora è andata aggravandosi sia sul piano della sicurezza che umanitario.
Si registrano infatti tentativi quotidiani di uscire clandestinamente approfittando delle incerte condizioni atmosferiche (pioggia, nebbia, preferibilmente di notte) e delle inevitabili “falle” nella gestione del campo molto esteso. E non è certo impensabile che molti ex miliziani, approfittando del caos ingenerato dagli attacchi turchi, stiano tentando di raggiungere le linee turco-jihadiste per integrarsi nelle milizie mercenarie di Ankara. Nella prospettiva di lunga durata della ricostituzione del califfato. Una vera e propria potenziale “bomba a scoppio ritardato”.
Va poi messa in evidenza quella che appare sempre più come una palese contraddizione, difficilmente risolvibile.
Come segnalato anche da Kawa Fatemi (difensore dei diritti umani) e dallo scrittore Azhar Ahmed. Ossia tra i tentativi dello Stato turco di arrivare a una negoziazione con il prigioniero politico Abdullah Öcalan (disponibile, stando alle ultime su dichiarazioni a “passare dalla guerra al dialogo”) e la dura repressione a cui nel contempo Ankara sottopone la popolazione curda.
Come si può conciliare la prospettiva di una “soluzione politica del conflitto” con i bombardamenti degli insediamenti civili nel Rojava (per estipare l’esperienza del Confederalismo democratico) e l’arresto di giornalisti e dissidenti in Bakur?
Lecito sospettare di una intenzionale operazione per alimentare la confusione e seminare terrore e caos. O almeno guadagnare tempo, distrarre l’opinione pubblica dall’evidente crisi interna in cui versa la Turchia e tentare di mettere il movimento curdo con le spalle al muro, costringerlo alla resa.
Difficile che ci riescano comunque.
Gianni Sartori