31.5.72, strage a Peteano. I carabinieri coprono Ordine nuovo
Sono le 22.35 del 31 maggio 1972 quando il Pronto intervento dei carabinieri di Gorizia riceve una telefonata. L’anonimo ha un forte accento friulano: «Vorrei dirle che ga zè una machina che ga du buchi sul parabressa, fra la strada tra Poggio Terza Armata per venire giù a Savogna, una 500 bianca e la gà due busi, due busi, sembra de palotola». Sul posto arrivano tre gazzelle dell’Arma. Due della tenenza di Gradisca e una del comando gruppo carabinieri di Gorizia.
Effettivamente c’è, in un viottolo isolato, una 500 parcheggiata, come aveva annunciato la telefonata anonima. I militari cominciano a perquisirla. A un certo punto il tenente Angelo Tagliari tira la levetta del portabagagli per vedere cosa contenga. È il gesto fatale. La leva del portabagagli innesca un congegno esplosivo, nascosto nel cofano anteriore, al posto della ruota di scorta. La deflagrazione è fortissima. Muoiono sul colpo tre militi che in quel momento si trovavano proprio davanti all’auto. Il brigadiere Antonio Ferraro e i carabinieri Donato Poveromo e Franco Bongiovanni. L’ufficiale che aveva aperto il portabagagli resta gravemente ferito.
Le altre piste
Inizialmente le indagini si indirizzeranno verso l’estrema sinistra, con una serie di arresti. Sette anni dopo, l’ordinovista udinese Vincenzo Vinciguerra si costituirà. In latitanza si era avvicinato a Stefano Delle Chiaie e ad Avanguardia Nazionale, seguendolo in Spagna, Cile e Argentina. Ne passeranno altri cinque prima che si autoaccusi della strage. La definisce «un’azione di guerra» contro «militari nemici», e non una «azione indiscriminata contro civili inermi». Accusa spezzoni dello Stato di averlo coperto, a sua insaputa, depistando e indirizzando le indagini su innocenti. Prima contro una banda di balordi e poi verso un gruppo di militanti di Lotta continua.
Il dirottamento di Ronchi
Eppure già il 6 ottobre i carabinieri 1972 erano in grado di smascherare i responsabili: un militante della cellula nera udinese, Ivano Boccaccio, è ucciso al termine di un conflitto a fuoco mentre tenta di dirottare un aereo per chiedere la liberazione di Franco Freda. Impugna una calibro 22, pistola regolarmente detenuta da un altro ordinovista Carlo Cicuttini, segretario di una sezione missina. L’arma era stata usata per sparare nel vetro dell’autobomba di Peteano. Ma i carabinieri non vogliono chiudere il cerchio e accusare gli ordinovisti udinesi della strage. E quasi vent’anni dopo tre alti ufficiali saranno condannati per depistaggio.
Lo scoop di Lotta Continua
I fascisti atlantisti
Le conclusioni alle quali è giunto Vinciguerra al termine di un tormentato percorso sono pesantissime: mentre lui aveva dichiarato una guerra poco più che personale allo Stato antifascista, i suoi camerati trafficavano con gli uomini e gli apparati nemici. Vinciguerra attribuisce la strategia della tensione a «una struttura parallela ai servizi di sicurezza e che dipendeva dall’Alleanza atlantica; i vertici politici e militari ne erano perfettamente a conoscenza (…) Il personale veniva selezionato e reclutato negli ambienti dove l’anticomunismo era più viscerale, cioè negli ambienti di estrema destra (…) Tale struttura organizzativa obbedisce a una logica secondo cui le direttive partono da Apparati inseriti nelle Istituzioni e per l’esattezza in una struttura parallela e segreta del Ministero degli Interni più che dei Carabinieri».
Una collaborazione anomala
E se gli si può riconoscere, alla luce della sua posizione giuridica (ergastolo definitivo) e penitenziaria (una lunga documentata catena di vessazioni) il beneficio della buona fede, gli va allora addebitata una dose di ingenuità incompatibile con le velleità di un combattente rivoluzionario, che non esita a collaborare con la magistratura pur di “smascherare” le attività controrivoluzionarie degli ex camerati in un bizzarro proseguimento della lotta politica per via giudiziaria (a suon di ergastoli) senza che però le sue fluviali dichiarazioni, supportate da una massiccia produzione editoriale e sul web, abbiano prodotto una sola condanna .
Un ritratto in chiaroscuro
Un ritratto in chiaroscuro di Vinciguerra ce lo offre Gianni Barbacetto: «Ha mani minute, viso tondo, un eloquio che dimostra intelligenza e buona cultura, nutrita soprattutto dei maestri europei del pensiero di destra, Guénon, Céline, Evola. Ci tiene a dare di sé l’immagine di “soldato politico” spietato ma integro, incapace di compromessi, tutto d’un pezzo. Non vuole essere confuso con la destra reazionaria» La sua intenzione dichiarata è di «chiarire il proprio ruolo di combattente rivoluzionario antisistema in mezzo a gruppi di destra che, sostiene, erano al contrario servi del partito atlantico, bracci armati e milizie civili a disposizione dell’esercito e dei servizi segreti».
I dubbi di Casson
Della purezza di queste intenzioni non è convinto il giudice Casson e così Vinciguerra si sceglie come interlocutore il milanese Salvini – che pure lo considera un “testimone reticente” – riservando a quello che chiama il “giudice felice” centinaia di pagine al vetriolo. Da parte sua Casson s’impegna sistematicamente a demolire la sua immagine. Gli interrogativi che il giudice veneziano si pone sono pertinenti: «Perché si è consegnato ai giudici nel 1979, quando aveva sulle spalle una condanna a dodici anni per il tentato dirottamento di Ronchi dei Legionari? Se si è consegnato per fare chiarezza sul ruolo della destra, usata dagli apparati dello Stato o, peggio, doppiogiochista e venduta ai servizi segreti italiani e americani, perché ha aspettato cinque anni prima di raccontare, nel 1984, la verità su Peteano? Perché si è consegnato proprio alla vigilia della grande offensiva terroristica 1979-80, che culminerà con la strage di Bologna? Perché era ferito quando si è lasciato arrestare?».
La resa di Vinciguerra
È verosimile che Vinciguerra si sia consegnato perché effettivamente disgustato delle tante “schifezze” che aveva visto in giro. Tra «agenti doppi, “nazisti” a mezzo servizio stipendiati dai carabinieri e giovani fascisti italiani trasformati, per conto dell’Aginter Press-Cia, in cacciatori ammazza-baschi in Spagna o in volontari del terrore in Africa o in torturatori di oppositori in Argentina e in Cile». Ma si era messo al tempo stesso al sicuro da chi evidentemente non si fidava più di lui.
Lo scontro con Casson
Vinciguerra finirà per ingaggiare uno scontro durissimo con il giudice Casson sulla natura del materiale usato per la strage. Con il fascista a giurare che era stato tutto recuperato attraverso circuiti militanti. E il magistrato convinto che i terroristi neri avessero attinto al deposto clandestino di Gladio. il cosiddetto Nasco di Aurisina scoperto pochi mesi prima in una grotta del Carso. Intendeva così dimostrare il nesso tra struttura di sicurezza atlantica e cellula nera.
Nonostante le rassicurazioni di Andreotti sulla natura antifascista di Gladio, Casson ha potuto individuare tra i 622 nomi di gladiatori gettati in pasto alla stampa almeno quattro iscritti al PNF, otto reduci di Salò, un marò della X MAS e nove iscritti al MSI. E del resto il leader del Msi, Giorgio Almirante sarà amnistiato per aver favorito la latitanza di Carlo Cicuttini, complice di Vinciguerra a Peteano e segretario missino di un paesino della valle di Natisone.
Il dispositivo Vinciguerra
L’attentato di Peteano è uno dei rari casi in cui lo stragismo vede condannati sia il livello degli esecutori sia quello dei depistatori, con sentenza definitiva.
Del resto, a mio avviso, è proprio questo il nodo da cui si dipana il dispositivo Vinciguerra. Per analizzarlo io partirei da una recente intervista (novembre 2019) con Raffaella Fanelli, per “Estreme conseguenze”. A domanda sulla strage di Peteano risponde: “Era il 1972. Le indagini portarono all’incriminazione di sei innocenti. Non potevo tacere. Mi consegnai alle forze dell’ordine assumendomi la responsabilità dell’attentato”. In realtà ha taciuto per dodici anni e ha confessato quando già gli innocenti se l’erano cavata da soli. La sua “assunzione di responsabilità” è, a mio giudizio, la modalità scelta in quella che ritiene ancora la sua battaglia politica da avanguardista: difendere l’onore della sua organizzazione, ingiustamente accusata di stragi. Per avere credibilità si carica il peso di una accusa di strage. Quale giudice potrà negare veridicità all’unico neofascista reo confesso del più atroce dei delitti politici?
In questa prima fase è ancora convinto di poter trascinare su questo terreno i suoi camerati. L’autobiografia del 1989 “Ergastolo per la libertà” costituisce il punto di svolta. E’ il suo messaggio nella bottiglia. Il testo è ricco infatti di messaggi allusivi, di riferimenti comprensibili a chi era “nel mazzo di carte”: implacabile contro i suoi vecchi camerati della rete ordinovista veneta compromessa con i network atlantici, si impegna in una distinzione tra chi ha avuto rapporti con gli apparati di sicurezza in Italia (che liquida come “neofascisti atlantici di servizi”) e chi invece lo ha fatto all’estero (in Spagna, Cile e Bolivia, Avanguardia, a cui riconosce la dignità di una scelta tattica funzionale a un progetto nazionalrivoluzionario).
Il suo appello cade nel vuoto e così varca il Rubicone e comincia la sua collaborazione giudiziaria. Una collaborazione anomala, che non porterà a nessuna condanna, perché le sue sono in gran parte notizie de relato. Una collaborazione ispirata al mantra di Buscetta: come i corleonesi avevano tradito Cosa Nostra e non lui, gli infami erano i camerati al soldo degli americani e non lui, l’unico rimasto fedele agli ideali del fascismo rivoluzionario. Anche la colossale reticenza sui tempi della confessione dimostra che per comprendere il suo dispositivo più che le scienze politiche e l’antropologia criminale servono alcune categorie psicoanalitiche: la rimozione, la proiezione, il senso di colpa.
Poiché lui ha sicuramente beneficiato dei favori dei Carabinieri, che hanno accusato innocenti per garantirgli un cono d’ombra, è toccato anche a tutti i suoi sodali. Poiché ha goduto di questi favori deve espiare e l’unica modalità è rinunciare a qualsiasi beneficio. Per cui resta blindato da oramai 41 anni. Qualcuno si spingerà a dire che, come altri detenuti di lunghissimo corso avrà anche paura del “mondo di fuori”, ma io non mi spingo a tanto e mi fermo qui.
La mia citta Gorizia non ha ancora avuto insieme agli accusati seconde vittime, , che hanno subito duramente, qua giustizia. Nell immaginario collettivo goriziano sembra ke non sia successo niente anche se il ricordo dei 5 balordi Goriziani rimane sempre alto …..e sono invece 5 le vittime quasi tutti morti nella lenta agonia e non e bastata l amicizia a colmare il vuoto dell abbandono. L unico riscatto e che tre avvocati GORIZIANI hanno dato del loro fino alla fine. Ma riconoscimento non mi risulta ci sia mai stato…ema non demordo di questo mi vergogno….Franco Glessi classe 1939……