45 anni fa strage a Querceta, uccisi tre poliziotti, arrestati due banditi rossi
All’alba del 22 ottobre 1975 il brigadiere Gianni Mussi e gli appuntati Armando Femiano e Giuseppe Lombardi furono falciati dai colpi di mitra di due ricercati per rapine a banche e uffici postali. Massimo Battini e Giuseppe Federigi successivamente si dichiararono appartenenti a movimenti politici di lotta armata.
Condannati all’ergastolo per omicidio volontario (con sentenza passata in giudicato dalla Cassazione), sono in libertà da molti anni. Per loro hanno applicato la «Legge Gozzini» del 1984 e i benefici in favore dei dissociati dal terrorismo. L’ergastolo è stato sostituto con una pena detentiva di 30 anni. I successivi abbuoni – sempre previsti dalla legge – hanno ridotto sensibilmente la permanenza in carcere dei due «ex» terroristi.
Alle due contrapposte versioni della polizia va aggiunta però una terza. Ce l’ha offerta, appena pubblicato questo post, Jenny Federigi, sorella di una degli arrestati:
Le cose non sono andate proprio così, c’è una terza verità, gli agenti non erano 20,ma circa 150, il fuoco non è partito da dentro, ma da fuori ad altezza d’Uomo. In quella casa, c’era una madre con sei figli, il più grande ventenne, la più piccola 6 anni, disabile, forse le cose potevano andare diversamente bastava solo riflettere e usare il buon senso
La ricostruzione della “Stampa”
Tre uomini della polizia abbattuti a raffiche di mitra, un sottufficiale in fin di vita e due agenti feriti stamani: in Versilia, nell’entroterra di Forte dei Marmi, in un conflitto a fuoco con due rapinatori che sono stati poi catturati: è l’ultimo prezzo pagato ad un banditismo di provincia nuovo c pronto ad uccidere ma, ancora una volta, sottovalutato.
Una strage, quindi, e due versioni offerte al cronista: la prima, ufficiale, sulla falsariga del rapporto preparato per il ministero dell’Interno, di un mitra che spara d’improvviso e fulmina tre uomini della polizia nel corso di una perquisizione in una casa che appare disabitata; la seconda, più inquietante, di un testimone, un sottufficiale: era presente e non ha taciuto lo stratagemma che ha consentilo ai banditi di impugnare le armi per uccidere a sangue freddo i poliziotti in attesa.
Un’ingenuità clamorosa
Ad ingannare il gruppo degli agenti guidati dal vicequestore Venezia, giunto da La Spezia per coordinare l’operazione d’arresto di un pericoloso rapinatore, Massimo Battini, 28 anni, è stata sufficiente la frase di un complice del malvivente, Giuseppe Federigi, 20 anni. Si è presentato agli agenti e ha detto: «Un momento, veniamo subito fuori, il tempo di vestirci». E’ rientrato nella stanza da letto e dalla porta a vetri sono partite due raffiche mortali. Una sequenza doppia di colpi e cadono il brigadiere Gianni Mussi, 30 anni, l’appuntato Giuseppe Lombardi, 54 anni, e l’agente Armando Femiano, 46 anni. Centrati al volto, muoiono all’istante, accanto, ancora due corpi, quello del maresciallo Giovanbattista Crisci, che è in fin di vita con due proiettili nell’addome, e quello dell’agente Domenico Guarini, 22 anni, raggiunto ad un braccio. Riescono a sottrarsi ai proiettili il vicequestore Venezia e l’agente Belmonte.
Battini latitante pericoloso
Sette uomini della polizia, quindi, sorpresi dal fuoco di due pronti a sparare pur di raggiungere il bosco fitto di pioppi e di querce che circonda, oltre un fragile recinto di canne, una casa non ancora ultimata ma dove si sapeva di trovare Massimo Battini che a 28 anni ha già al suo attivo condanne per 18 anni, un’evasione, un tentato omicidio.
E’ qui che si nascondeva, e di lui adesso il questore di Lucca, Raffaele Gargiulo, racconta di non averne ignorato la pericolosità: «Avevamo molti ordini di perquisizione da portare a termine dice 1’alto funzionario nel corso di una conferenza – stampa al commissariato di Viareggio — e si è concordato di mandare sul posto venti uomini al comando del dottor Venezia, un funzionario brillante ed esperto che guida la squadra mobile di La Spezia: sapevamo che avremmo trovato Battini in casa di Giuseppe Federigi, e tutto è stato fatto secondo le regole».
Uno squadrone di 20 agenti
Il questore ha detto che all’alba 20 uomini si sono mossi da Viareggio, hanno raggiunto il bosco che alle spalle di Forte dei Marmi separa Querceta da Montignosa: «Sapevamo di trovare Battini — ha ripetuto — e la casa è stata circondata. Il funzionario, ad alta voce, ha intimato: “Siamo della polizia, uscite fuori”». Ha aggiunto che nel silenzio del bosco nessuno ha risposto. «A questo punto sono stati scelti gli uomini più validi — ha detto — i tre che sono morti. Sono entrati con le armi in pugno — ha precisato il questore —, ma due raffiche di mitra sparate attraverso una porta a vetri lì hanno uccisi sul colpo. Gli stessi banditi poi ha aggiunto il questore — utilizzando anche le armi degli agenti uccisi, hanno impegnato il dott. Venezia e i suoi uomini in un conflitto a fuoco che si è protratto per dodici o quindici minuti».
A questo punto interviene il dottor Venezia per continuare il racconto del questore. «Quando i tre sono caduti a terra — ha detto — c’è stato un attimo di sbandamento tra i miei uomini e io subito ho ordinato loro: “Fermi, fermi, non abbandonate il posto”. Erano attorno alla casa e io di fronte, appostato dietro una “500”. Un proiettile mi ha colpito il giaccone».
Il coraggio del brigadiere
Mostra l’indumento in pelle appena scalfito e aggiunge: «Sembrava di essere in guerra: Bottini e Federigi hanno tentato di lasciare il rifugio da una finestra: l’uno copriva l’altro, io sparavo, e quando me li sono trovati di fronte ero ormai senza proiettili». II funzionario ha aggiunto: «In quel momento non c’era tempo da perdere, con la pistola scarica ho bluffato: ho puntato l’arma contro di loro dicendo: “Siete circondati, arrendetevi”, poi subito ho chiesto aiuto. Mi ha soccorso il brigadiere Taibi e i banditi si sono arresi: Battini era ferito a una gamba, non so chi gli abbia sparato. Ricordo soltanto di aver detto ai miei uomini di restare tranquilli, di ammanettarli senza perdere la calma; poi sono corso verso i cadaveri».
Le due versioni dei fatti
Il brigadiere Taibi è il sottufficiale che ha aiutato il dottor Venezia in difficoltà: «Ho visto gli uomini a terra, il funzionario che chiedeva aiuto a qualcuno e mi sono fatto avanti — ha detto —: certo non per fare l’eroe ma perché ho pensato che fosse | mio dovere: ho puntato il mitra e sono riuscito a disarmare i banditi».
Ed è proprio parlando con Gioacchino Taibi che viene fuori la seconda versione: del funzionario che entra nella casa non ancora ultimata e senza porta d’ingresso assieme ad altri sei uomini (i tre che sono morti, i due feriti e l’agente Belmonte); di Federigi che si affaccia in mutande nello stanzone d’ingresso e chiede appena un momento di tempo per sé e per l’altro, per infilarsi i pantaloni e consentire alla polizia la perquisizione. Nel commissariato di Viareggio ci si domanda perché tre uomini abbiano perso la vita e un sottufficiale sia gravissimo.
Il clima, negli uffici, è tesissimo. Magistrati, ufficiali di polizia, alti funzionari sono arrivati da tutta la Toscana, altri ancora da Roma. Spedito a Viareggio dal ministro dell’Interno c’è l’ispettore generale Romanello, che non parla con i giornalisti. Tre uomini sono morti e il commissario De Rose che li aveva in forza a Viareggio, grida: «Per me sono stati uccisi tre fratelli e quei due bastardi sono stati risparmiati, due banditi che non meriterebbero altro che un colpo di pistola in testa». Pronuncia questa frase e sottrae ai cronisti il brigadiere Taibi che sta raccontando quanto è accaduto: « Vieni — gli ordina — ti sta cercando il ministero».
La rabbia dei poliziotti
Il sottufficiale si allontana e un agente è colto da una crisi di nervi; si scaglia contro i superiori e li accusa: «Adesso, adesso arrivate — urla con voce strozzata — per farvi riprendere in televisione, vergognatevi, i nostri sono morti». Nelle scale del commissariato gli si fanno attorno quattro colleghi, lo trattengono, lo portano al piano superiore: «Basta, non ne posso più», si sente gridare mentre gli altri lo allontanano.
Stessa scena, ci racconta un collega, all’ospedale di Viareggio, quando arriva Battini ferito a una gamba. «Assassino assassino», grida una piccola folla, e lui, sprezzante, si alza a sedere sulla lettiga e sputa. A questo punto pare che un agente in borghese abbia estratto la rivoltella e gli si sia fatto addosso. «T’ammazzo, t’ammazzo», avrebbe detto. Il vicesindaco della città, Sergio Breschi, l’avrebbe disarmato trattenendogli il braccio e facendosi consegnare la pistola.
Viareggio, deserta in un clima già invernale, è a lutto. La Versilia, ancora una volta, assiste con rabbia a un banditismo che gli è nato in casa, tra le luci e gli arenili del Lido di Camaiore e di Forte dei Marmi. Massimo Battini è un personaggio conosciuto. Un’escalation di criminalità, dallo sfruttamento alla rapina, al tentato omicidio, fino alla promessa in tribunale di compiere una strage.
Giuseppe Federigi, una famiglia numerosa e il padre in carcere, sembra subisse il fascino dell’amico più anziano, più spregiudicato. In pochi mesi gli aveva fatto guadagnare un po’ di soldi: con Battini aveva conosciuto la strada della rapina.
Francesco Santini
La moglie generosa di Batini
Ventitré anni dopo morì uccisa l’ex moglie di Massimo Battini, una donna buona e generosa, come ricorda Fulvio Paloscia:
«No, qui non si ricorda una vittima di un incidente stradale. Qui c’era il camper dove Margherita Fuloni, detta “Marghè”, riceveva i suoi clienti. Una professionista del sesso oltre la cinquantina, con una clientela di habitué. Chi l’aveva picchiata e strangolata, nel camper, quel pomeriggio di agosto del ’98, se ne era uscito convinto di averla uccisa. Ma “Marghè” non era morta. Il giorno dopo si riebbe dal coma. Giusto il tempo di descrivere a gesti il suo assassino».
Il Nucleo Operativo dei Carabinieri non tardò a risalire all’individuo descritto dalla Fuloni «ma nel frattempo qualcun altro era già arrivato. Qualcuno a cui l’omicida, un piccolo boss albanese il cui corpo venne rinvenuto nel Tevere, doveva aver fatto un grosso sgarro». La vita di Margherita Fuloni fu tutt’altro che banale: «Era la ex moglie di Massimo Battini, uno dei rapinatori che a Pietrasanta, negli anni di piombo, uccisero tre agenti di Polizia e ne ferirono altri tre. Giulio Lazzeri, maresciallo dei carabinieri, ne ricorda l’umanità fuori dal comune. Ebbe una storia con un ragazzo vent’anni più giovane di lei, che si ammalò di leucemia. Marghè lo curò a sue spese»
Che commento si può lasciare…..se nn quella grande amarezza e rabbia di sapere che quei due…..sono liberi dopo aver ammazzato in modo barbaro tre uomini che svolgevano il loro lavoro in maniera dignitosa, sono amareggiata e non aggiungo altro, so solo che mio cugino non c’è più, Mussi Gianni che lasciò un bimbo piccolo e la moglie in attesa dell’altro figlio. Stamani ho provato una grande rabbia perché loro non ci sono più, e nonostante siano già trascorsi 41 anni dal quel maledetto giorno le lacrime scendevano dagli occhi di tutti. E intanto i due signori sono fuori a godersi la vita la nostra vita……