Il giallo del “pentito nero”: esce dal carcere Stroppiana, assassino senza cadavere
E’ stato un grande giallo, che ha appassionato milioni di telespettatori. La notizia del giorno è che Paolo Stroppiana è uscito dopo sette anni dal carcere e ammesso al lavoro esterno. Uno dei grandi pentiti dei Nar accusato e condannato in un processo indiziario per l’omicidio preterintenzionale di un’amica con cui aveva un appuntamento galante. Della donna scomparsa non è mai stato trovato il cadavere. Una storia intrigante... Qui puoi leggere la seconda parte
“L’8 maggio 1996, Marina Di Modica è uscita dal suo ufficio alle 16,30. Prima è andata a fare acquisti in via Madama Cristina. Poi è tornata a casa, in via della Rocca, per prendere la sua auto, una Y10, che verrà trovata tre giorni dopo davanti all’ospedale Mauriziano, regolarmente chiusa, dai suoi amici. Dalla sua abitazione manca solo una scatola di vecchi francobolli che la donna aveva deciso di vendere, e dalla sua agenda risulta un appuntamento per la sera con un esperto filatelico, che però dichiarerà di non averla incontrata”.
Ci sono voluti quindici anni, quattro processi e tre condanne ma alla fine il giallo descritto dal sito web di “Chi l’ha visto” ha trovato soluzione: l’esperto filatelico è stato condannato per la scomparsa della donna, un delitto senza cadavere. Per Paolo Stroppiana, lontani trascorsi nei ranghi dei Nar, la pena è di quattordici anni per omicidio preterintenzionale, con tre scontati grazie al condono. A incastrare il “pentito nero”, risolvendo solo in parte uno dei tanti misteri che continuano a consolidare la fama di Torino “città gotica”, ci sono voluti la cocciutaggine di un pubblico ministero e il talento investigativo di uno sbirro, capaci di smontare la ragnatela di bugie e di reticenze sapientemente costruite dall’ex terrorista con l’aiuto di una fidanzata ostinata nel confermargli un alibi che alla fine è stato smantellato. Anche lei ex, oramai, ma Beatrice Della Croce Di Dojola, un’aristocratica educata al culto cocciuto della fedeltà sabauda, ha tenuto nel lungo snervante iter processuale e se ha scansato una condanna per favoreggiamento è stato solo grazie alla prescrizione. Nell’assolverla il giudice avverte l’esigenza di ribadire che la donna ha sistematicamente mentito. Anche in questo caso la sentenza è un capolavoro di arte bizantina: la donna ha ripetuto le stesse menzogne nell’arco del tempo ma per le prime, dette nel 1996, scatta la prescrizione mentre per le successive (ripetute nelle diverse fasi processuali: nel 2001, nel 2005, nel 2007) “il fatto non costituisce reato”. Insomma, avendo mentito la prima volta doveva continuare a farlo per scongiurare il rischio di autoincriminarsi. Lo stesso principio però non è applicato, sul piano della prova logica a Stroppiana: che potrebbe aver cominciato a mentire per banalissime ragioni (non ammettere di aver tradito la fidanzata) per poi trovarsi attorcigliato al groviglio dei raddrizzamenti di tiro e delle ammissioni intermittenti.
A confutare la fidanzata, in appello, ci aveva pensato la vedova di un compagno di scalate di Stroppiana, morto in un incidente alpinistico, riferendo la confidenza ricevuta da un’amica di Beatrice: la sera della sparizione di Marina lui non era andato a cena dall´amata. Questo pettegolezzo aveva circolato abbondantemente nell’ufficio della donna
LA RIFLESSIONE DEL PG – Chiusa la partita giudiziaria, il procuratore generale Vittorio Corsi, che ha personalmente condotto l’accusa in entrambi i processi di appello, lancia una ciambella di salvataggio al condannato, rievocando i suoi trascorsi di collaboratore apprezzato: “Dopo quindici anni c’è la parola fine, non si discuterà più sulla sua colpevolezza. È una decisione importante per i parenti che non resteranno più con il dubbio, ma speriamo che di fronte a una condanna a 11 anni scelga di avere un atteggiamento diverso per accedere ai benefici previsti. Non so se è un tipo come la Franzoni, di quelli che non ammettono mai, ma se confessasse potrebbe uscire molto prima. Sarà sicuramente un detenuto modello. È stato un processo difficilissimo. Mi sono chiesto chi fosse Stroppiana: è venuto fuori il suo passato. Poteva ammazzare? Sì. Negli anni 80 aveva messo in conto di uccidere per politica, quindi non era il perfetto funzionario della Bolaffi che tutti credevano all’inizio. Aveva, nell’82, fatto rapine. Ho cercato di sentire non meno di un centinaio di persone del suo ambiente, della montagna, della sfera di lavoro e sociale anche della fidanzata. Solo il 3 per cento di loro ha avuto un atteggiamento coraggioso, per il resto è stata omertà. Poi le sue bugie, l’alibi, i tabulati. Dobbiamo dare atto del grande lavoro del pm Dodero e del poliziotto Massimo Renzilli e della loro genialità investigativa: incrociando i dati hanno creato una ragnatela, con buchi, ma anche con fili di collegamento“.
UN DELITTO SENZA CADAVERE – Ma dov’è finito il cadavere di Marina? E come e perché è morta? Se è facile pensare che il cadavere sia stato abbandonato in montagna – Stroppiana è appassionato ed esperto scalatore – la sentenza dice poco, per il resto. Il reato sanzionato, omicidio preterintenzionale, è frutto di una sofisticheria garantista: in mancanza del cadavere bisogna attribuire il capo d’accusa meno grave (in dubbio pro reo). In fin dei conti non ha tutti i torti il suo difensore, Aldo Albanese, convintissimo dell’errore giudiziario: «Contro Stroppiana ci sono solo suggestioni. Non c´è un cadavere, non c´è un movente, manca anche l´arma del delitto e non si conoscono le dinamiche dell´eventuale azione omicidiaria ed è altrettanto sconosciuto il luogo in cui questa sarebbe avvenuta. Tre processi hanno provato una sola cosa: che è un bugiardo, questo però non significa che sia un assassino». Del resto la prima perquisizione a casa sua, un appartamento di circa 140 metri quadrati, disposto su due piani, che il filatelico affitta nel gennaio del 1996 e ristruttura completamente, era arrivata solo undici anni dopo la scomparsa della logopedista, in seguito alla condanna in primo grado. Così come nessuno aveva pensato a rilevare le impronte digitali nell’auto della scomparsa. A compiere gli accertamenti scientifici nella casa sono i Ris. Gli esperti dedicano le loro attenzioni ai tre giardini mentre nell’abitazione si concentrano soprattutto su una botola sistemata sotto la scala in legno che unisce i due piani. Sono sequestrati il vano sottostante e il sottotetto in cui Stroppiana dice di non essere mai stato. Per l’occasione l’ex pentito apre le porte anche ai giornalisti.
IL RUOLO DI CHI L’HA VISTO – La storia comincia l’8 maggio 1996, quando Marina Di Modica, una logopedista figlia di un “barone” universitario, scompare insieme a un album filatelico che intendeva vendere. Persona metodica e di antica educazione, ha segnato sull’agenda per quel giorno un appuntamento a cena con tale Paolo, “per francobolli”. Tra gli amici che frequenta ce n’è uno che si chiama così. Lavora alla Bolaffi, la principale casa italiana nel settore filatelico: Stroppiana, appunto. Si sono conosciuti qualche mese prima, sono stati presentati da una comune amica e lui ha iniziato un lento ma deciso corteggiamento. Alla denuncia della scomparsa scende in campo “Chi l’ha visto” che sta alla macchina giudiziaria italiana come il salotto di Bruno Vespa al Parlamento. E così alla fine del mese, gli implacabili inviati della popolare trasmissione di Rai 3 rilanciano le prime bugie del sospettato, che si fa intervistare indossando una vistosa polo fucsia: «Al fratello di Marina, quando mi ha cercato [per avvertirlo della scomparsa della donna, l’11 maggio, nda], purtroppo non ho saputo dir nulla perché non avevo appuntamento con Marina. Per fortuna quella sera ero fuori a cena con amici e non ero a casa con il mal di pancia. Sarebbe stato antipatico doverlo andare a spiegare». A suo dire aveva annullato l’appuntamento per un mal di schiena che lo bloccava per poi uscire con la fidanzata (che indefettibilmente conferma). Anche se il padre e un amico confermano che Marina aveva rifiutato appuntamenti per quella sera adducendo un precedente impegno, la difesa di Stroppiana aveva fatto breccia. La condanna in appello, 16 anni per omicidio preterintenzionale (in primo grado ne erano stati affibbiati 21 per omicidio volontario, deciso a maggioranza) era stata annullata dalla Cassazione proprio per i dubbi sorti sull’impossibilità di verificare se Stroppiana avesse (come ha sempre dichiarato) disdetto l’appuntamento con la giovane logopedista con una telefonata attraverso il centralino delle Molinette, non essendo disponibili i tabulati dell’ospedale.
LA DIFESA DELLA FAMIGLIA – Mentre la prima sentenza di appello esclude un gioco erotico sadico finito male (non c’è prova di “impulsi aggressivi così concitati, pericolosi e violenti da presupporre quanto meno un grado di familiarità e fiducia che sicuramente non esisteva”), nel secondo processo il duello giudiziario ruota intorno alle opposte visioni dell’amore dei due protagonisti. Con i familiari che dipingono la vittima come “un personaggio femminile di altri tempi. Una donna che per il candore e le ritrosie di tipo ottocentesco non avrebbe mai tollerato un rapporto immediatamente fisico e con modalità violente” (sono le parole della compagna del padre) e le ex fidanzate del sospettato che restituiscono la figura sdoppiata di un corteggiatore gentiluomo che poi nell’intimità si dimostra rude e brutale. Una donna d’altri tempi, per i suoi, ma una anche attenta a mostrarsi “in tiro” per quello che avrebbe dovuto essere un appuntamento d’affari (la vendita dei francobolli): Marina, infatti, il giorno prima va dal parrucchiere, il giorno stesso compra scarpe nuove e calze autoreggenti. E così quando la difesa gioca la carta della “pista alternativa” (un altro amico del cuore) e ventila addirittura una “gravidanza” come possibile movente della scomparsa, è il fratello di Marina a rompere il muro del silenzio che si era imposto: “Sono rimasto colpito, perché hanno cercato di mettere in cattiva luce Marina descrivendola con una mentalità ‘aperta’, diciamo così, e con una leggerezza che lei non aveva. E poi per quello che è stato detto riguardo a M. F.: con tutto quello che ha sempre fatto per Marina e per noi, mi ha scosso i nervi. Io e mio padre ne abbiamo parlato e ci siamo detti: bisogna far sapere che M. è sempre stato con noi e avanti a noi, perché lui è stato in prima linea nelle ricerche di Marina, e anche dopo ha fatto tutto il possibile. La famiglia ha sempre avuto questa convinzione e il minimo che possiamo fare ora è dire che per noi è impossibile e ingiusto che su di lui vengano gettate ombre. Anche il modo e il tono con cui è stato da alcuni descritto ci ha ferito. E’ stato un affannoso tentativo di cercare qualcos´altro, doveva suggerire qualcosa di diverso e forse ha pensato di trovare maggiore aderenza su una gravidanza e su un´ipotesi alternativa al suo assistito. Per quanto riguarda Marina, non si possono tagliare i tempi tra un flirt e l´altro: ci sono anni e storie personali, e il quadro che ne è uscito è molto diverso dalla realtà e da quello che è sempre emerso nei precedenti processi. Lei era seria e timida, teneva molto alla sua salute. Anche per questo l´idea di una gravidanza è assurda: non avrebbe deciso di fare le vacanze in moto in Turchia, non sarebbe andata a sciare, non si sarebbe comprata la bicicletta. Quell´ipotesi è stata ampiamente scartata, sia da noi che dalle indagini. Per quanto riguarda F., io non so quali siano i limiti della difesa ma da un punto di vista esterno al mondo legale mi sembra che siano stati ampiamente superati” [1-continua]
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