17 luglio 1988: semilibertà negata, suicida Dario Bertagna

Dario Bertagna

Il 17 luglio 1988 si suicida nel carcere di Busto Arsizio Dario Bertagna.
Nato a Comerio (VA) l’8 luglio 1950, lavora presso una ditta di vernici di Vimercate. Milita nell’ area dell’Autonomia organizzata varesina che fa capo a Rosso. Segue il percorso politico-militare di uno dei leader varesini, Guido Felice. Sarà arrestato il 23 giugno 1980, a Milano, perché lo ospitava a casa sua. Squadre proletarie, Reparti comunisti d’attacco. Ne fuoriescono nella primavera 1980, con la rete torinese e un po’ di compagni milanesi. Per dissensi strategici sul rapporto con le Brigate rosse.

Nonostante addebiti “modesti” (banda armata, armi, favoreggiamento, una gambizzazione) è condannato a 15 anni. Dopo 8 anni di carcere il Tribunale di sorveglianza di Torino gli nega la semi-libertà. Ritengono insufficienti i gravi motivi di salute.

Il ricordo di Giulio Petrilli

Giulio Petrilli, nella sua Testimonianza al “Progetto Memoria” editato da Sensibili alle foglie lo ricorda così:

“Ricordare Dario è ricordare un compagno col quale ho condiviso dei momenti, delle lotte, dei sogni. In una realtà particolare come il carcere di San Vittore, dal dicembre ’80 alla metà dell’83. Un momento di grandi lotte in uno dei carceri metropolitani più particolari, più complessi. Dario l’ho conosciuto esattamente il 6 gennaio 1981. In una cella del secondo raggio, la nostra cella per tanto tempo, poi i trasferimenti ci hanno diviso.

Ricordo quel pomeriggio del 6 gennaio. Dopo diversi giorni nelle celle d’isolamento fui fatto salire su in sezione. Stavo un po’ sbandato tra arresto e isolamento. Entrando in cella subito mi sentii a mio agio in un ambiente caldo. Eravamo in cinque, un po’ stretti ma stavamo bene.

E’ lì che conobbi Dario, mi sembrò subito così come poi l’ho conosciuto nel tempo. Un ragazzo riservato ma estremamente dolce, il suo aspetto rispecchiava il suo carattere, con quel sorriso un po’ triste negli occhi azzurri. Ricordo mi offrì subito una birra, e preparò insieme agli altri una bella cenetta; e poi quelle birre che hanno accompagnato tanti nostri pomeriggi e tante serate.

Ricordo che mi riempì di domande, sai appena arriva uno nuovo è un po’ d’abitudine in carcere sentire i racconti della vita fuori. Lui disse che era stato arrestato nel giugno precedente, e che da poco si trovava a San Vittore. In precedenza era stato a Fossano, un carcere penale e mi raccontò della vita lì, delle diversità con San Vittore anche perché poi lì al secondo raggio eravamo tutti politici, mentre lì, con i comuni c’era un’altra realtà, più da logica carceraria.

Dall’ostilità al Pci alla lotta armata

Poi iniziò a raccontarmi della sua vita fuori; era tecnico di una piccola azienda di elettrodomestici, vicino a Milano; mi raccontò del paese vicino Varese, dove abitava e quando ne parlava si capiva che lui preferiva vivere lì e non in una grande città, anche perché da piccolo aveva vissuto in un paesino del bergamasco.

Poi mi raccontò della sua esperienza politica a Milano, la sua politicizzazione passata attraverso la sindacalizzazione nella fabbrica dove lavorava, i contrasti, le lotte, l’inasprimento del padronato, la coscienza sempre più approfondita che lui andava maturando, lo scontro con le logiche di totale mediazione, che lui chiamava “arrendevolezza del vertice del sindacato”, il suo travaglio e la rottura completa con il sindacato.

La cultura stalinista è antioperaia

La sua incredulità nel raccontare che molti dirigenti d’industria e capi reparto tra i più duri erano iscritti al PCI. Lui non se ne faceva capace che chi imponeva la produttività, il sacrificio, la logica di lottare, ma portando sempre il profitto all’azienda, erano quelle le persone che a parole si dicevano comuniste.

Questa cosa per lui era totalmente inammissibile, da lì maturò la scelta della lotta armata. E questa sua scelta, maturata proprio partendo dall’avversione verso la cultura stalinista e produttivista del PCI, se l’è portata dietro sempre, con coerenza fino alla fine. Dario era chiuso, un po’ introverso ma estremamente determinato e lucido; io non concordavo alcune questioni del suo ragionamento ma in fondo ero con lui, soprattutto in quegli anni a San Vittore.

Poi le nostre strade si sono divise, ci siamo scritti qualche lettera, lui non concordava la mia scelta critica al metodo della lotta armata che secondo me non si adattava più, ma c’è sempre stato dell’affetto.

Un brutto modo di ritrovarsi

Poi siamo nati lo stesso giorno, l’8 luglio festeggiavamo i compleanni insieme, sognavamo insieme, io ci scherzavo un po’ su, sulla sua rigidità. Abbiamo studiato tanti libri, documenti, insieme, nelle lunghe e interminabili discussioni e passeggiate nel cortile, dove lui, tra una sigaretta e l’altra, si faceva chilometri a piedi, molto spesso da solo, assorto nel suo mondo. E io scherzavo dicendo: “Torna in terra, vieni a giocare a pallavolo, a correre”.

Con l’ironia e lo scherzo molto spesso comunicavo con lui , con quel suo modo d’essere reticente nel parlare anche della sua vita privata, dei suoi amori. Con quel suo bene grande che voleva alla sorella, che spesso veniva a trovarlo, portandogli anche dei pacchi che consumavamo insieme.

Poi, come spesso accade, ci siamo persi. E ci siamo ritrovati tanti anni dopo, nel maggio dello scorso anno. Sfogliando una pagina del libro La mappa perduta, ho letto il suo nome e l’ho rivisto nel cuore. In quel suo grande cuore che non voleva mai manifestare, che voleva quasi coprire, proteggere, con un po’ di scontrosità”.

Fin qui Giulio Petrilli. A proposito della radicale avversità allo stalinismo e alla cultura autoritaria e padronale del Pci è il caso di ricordare che l’unico attentato da lui compiuto è la gambizzazione di Mario Miraglia, figura molto particolare di dirigente di azienda, come ci ha raccontato qualche anno fa Alessandro Sarcinelli su Lettera 43.

Quel manager comunista

Dirigente d’azienda, si avvicinò alla politica nel 68, entrò nel Pdup (Partito di unità proletaria). Fu uno dei fondatori del Manifesto, quotidiano comunista, e collaborò con il sindacato. Un uomo apertamente schierato a sinistra. Ma non abbastanza per non essere definito «venduto al capitalismo» dai Reparti comunisti d’attacco, una piccola formazione eversiva.

Nel febbraio del 1980, infatti, in due suonarono alla porta di casa sua con la scusa di vendergli Famiglia Cristiana, legarono la moglie e il figlio, appena 18enne, poi portarono Miraglia in camera, lo misero sul letto e gli spararono alle gambe.
A differenza di Antonio Iosa la convalescenza fu meno travagliata e si riprese in poche settimane. Ma soprattutto non si sentì mai solo: «Venne a trovarmi una folla di gente, tra cui Carlo Tognoli, allora sindaco di Milano. Se mi sono lasciato alle spalle questo episodio è grazie alla solidarietà diffusa che ricevetti».

Ugo Maria Tassinari è l'autore di questo blog, il fondatore di Fascinazione, di cinque volumi e di un dvd sulla destra radicale nonché di svariate altre produzioni intellettuali. Attualmente lavora come esperto di comunicazione pubblica dopo un lungo e onorevole esercizio della professione giornalistica e importanti esperienze di formazione sul giornalismo e la comunicazione multimediale

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