Trent’anni fa strage del Pilastro: i terroristi della Uno bianca

Dal libro di Antonella Beccaria “Uno bianca e trame nere” (qui puoi scaricare l’intero pdf: Antonella è una appassionata praticante del Creative Commons) la ricostruzione della strage del Pilastro, dove il 4 gennaio di 30 anni fa, la banda dei poliziotti ammazzò tre carabinieri.

Il Pilastro è da sempre un quartiere difficile. Nato secondo concezioni urbanistiche e architettoniche in base alle quali avrebbe dovuto rappresentare la nuova frontiera della metropoli a misura d’uomo, è diventato invece punto di approdo tutt’altro che tale per le famiglie emigrate dal sud negli anni dei grandi flussi interni verso il settentrione. Ed è finito per fare quasi città a sé stante, diviso anche fisicamente dal resto di Bologna dalla tangenziale che scorre in parallelo al quartiere solo qualche centinaio di metri più a sud. Ma è diventato anche il quartiere ricettacolo di tutte le brutture che si consumano in città. O almeno così si vorrebbe far credere.

Il suo periodo più cruento inizia il 20 settembre 1990, quando i cittadini extracomunitari che vivono nei paraggi finiscono per diventare bersaglio di una serie di bombe molotov. Radunati nella ex scuola Romagnoli, nella quale troveranno accoglienza trecento persone circa, la sorveglianza da parte delle forze dell’ordine è continua. E forse è proprio per questo che poco prima delle 22 del 4 gennaio 1991, una serata nebbiosa e fredda che deposita uno strato di umidità ovunque, c’è un’auto dei carabinieri che percorre quelle strade, anche se non si sa esattamente quale fosse il compito dei militari perché non è mai stato ritrovato l’ordine di servizio. Può darsi che leggerlo avrebbe aiutato a capire che cosa accadde quella sera, in un tratto di trecento metri dove si consuma un delitto che ha tutti i connotati di un’esecuzione.

Un normale pattugliamento

In quell’auto, una classicissima Uno blu in dotazione all’Arma, ci sono tre carabinieri, vent’anni o poco più a testa, e si chiamano Otello Stefanini, Mauro Mitilini e Andrea Moneta. I carabinieri girano per il quartiere e nel pattugliamento della zona incrociano prima una volante della polizia. Si fermano un attimo, il tempo di confermarsi a vicenda che non c’è nulla di preoccupante intorno. Riprendono la marcia e viaggiano a velocità ridotta mentre percorrono via Casini, non avvertendo nulla di strano quando un’utilitaria sembra volerli sorpassare. Ma quell’auto non li sta sorpassando, li affianca, e non è un’utilitaria qualunque, è una Uno bianca. Dal lato del passeggero, all’altezza dell’incrocio con via Ada Negri, si sporge un uomo armato che spara e colpisce Otello Stefanini, al volante.

Il giovane militare accelera, tenta la fuga, ma finisce per andare addosso ad alcuni cassonetti a lato della strada all’altezza di piazza Lipparini. I carabinieri sono in trappola. La Uno bianca, che non li ha mollati, si arresta dietro di loro e ne scendono tre persone che continuano a sparare ininterrottamente. Mitilini e Moneta, che sono riusciti a uscire dall’auto di servizio, tentano di rispondere al fuoco ferendo uno dei componenti del commando, ma non reggono, cadono sotto i colpi che continuano ad arrivare. Secondo quanto sarà possibile ricostruire, gli assassini non scappano a tutta velocità ma, una volta cessato il fuoco, si assicurano che i carabinieri siano effettivamente morti. E forse è in quel momento che qualcuno allunga una mano per afferrare l’ordine di servizio e portarselo via, facendo calare l’oblio su ciò che i militari avevano fatto quella sera, chi avevano identificato.

La Uno bianca bruciata

Quando i tre criminali se ne vanno per cambiare auto e sparire, non si limitano semplicemente ad abbandonare la Uno bianca, come accaduto in precedenza, ma le danno fuoco, probabilmente per eliminare le tracce di sangue lasciate da uno dei banditi che, secondo quanto si riuscirà a ricostruire attraverso le parole dei presenti, sembra rimasto ferito. Per il resto, tutto si fa confuso e, nel momento in cui partono le prime indagini, le testimonianze sono tutt’altro che concordi. Innanzitutto quella sera molta gente avrebbe assistito al massacro: c’è un capannello di persone nei pressi della fermata del 20, l’autobus che arriva a Casalecchio di Reno passando per il pieno centro città. Un altro gruppo è assiepato vicino alla Casa Rossa, dove si trova la biblioteca di quartiere, e ancora in via Ada Negri proprio dove la strada incrocia via Casini ed è iniziata la sparatoria.

Le testimonianze discordanti

Le testimonianze non sono omogenee. Intanto non c’è accordo sul numero e sul modello delle auto presenti quella sera e a quell’ora. Oltre a quelle dei carabinieri e degli assassini, c’è chi parla di una Golf nera, mentre per qualcun altro si sarebbe materializzata anche l’Alfa 164 che fugge di gran carriera a sparatoria appena cessata. C’è poi chi sostiene che i killer erano almeno in sei, altri invece affermano di averne contati meno e, tra i pochi punti fermi appurati successivamente, si stabilirà che a colpire furono tre persone. E ancora: alcuni testimoni dicono che l’intera scena si è svolta quasi istantaneamente, una manciata di secondi per esplodere decine di proiettili e poi giungere in modo altrettanto repentino a termine. Altri, al contrario, parlano di un agguato svoltosi in almeno due fasi: prima l’assalto poi una pausa di qualche istante e quindi i colpi di grazia.

Ben inteso: in un caso come questo è abbastanza normale che le versioni siano discordanti; la mente di chi assiste registra alcuni momenti e li ricostruisce in base a un percorso logico che non sempre corrisponde al reale accadimento dei fatti. Per questo si fa sempre più spesso ricorso a metodologie scientifiche d’indagine. Ma per mettere insieme una ricostruzione verosimile ci vorranno due anni e quella ricostruzione conterrà una serie di inesattezze tali da far pensare che si sia solo sprecato tempo.

Quella 38 che non c’era

Una per tutte è un errore macroscopico, di quelli che non dovrebbero esserci in un’indagine che si vuole rivestire di affidabilità e chiarezza: si dice infatti che la prima arma ad aprire il fuoco fu una .38 special. Invece nessuna pistola di quel genere ha mai sparato al Pilastro, altre le tipologie di armi utilizzate in quell’agguato. Solo nel momento in cui vengono arrestati i fratelli Savi, i veri autori della strage, si aggiungono elementi che, presi in un contesto generale, contribuiscono a far comprendere meglio la dinamica dei fatti, ma che, scendendo nel dettaglio, mantengono un grado di fumosità fino a sfociare in reticenza quando si chiede loro conto del colpo di grazia e delle sue ragioni.

La ricostruzione di Roberto Savi

Nella deposizione resa da Roberto Savi il 28 novembre 1994, si viene a sapere che: Il triplice omicidio è stato commesso da me e dai miei fratelli Fabio e Alberto. Quella notte eravamo di passaggio al Pilastro a bordo di una Fiat Uno bianca rubata. Io avevo con me la mia AR70; Fabio il fucile SIG222; Alberto aveva una pistola 357 Magnum. Stavamo andando a San Lazzaro a rubare macchine. Era una notte di nebbia. A un certo punto, in via Casini, all’altezza dei grattacieli, siamo stati sorpassati da una Fiat Uno dell’Arma.

Pochi istanti dopo, avendo la sensazione che si fossero insospettiti e ci volessero fermare, ho aperto il finestrino ed ho esploso alcuni colpi con l’AR70, forse cinque o sei in direzione del lunotto posteriore della vettura dei carabinieri. Il mezzo ha accelerato e si è fermato un po’ più avanti. Siamo subito giunti a ridosso del mezzo con la nostra macchina e tutti e tre siamo scesi. Io sono stato subito colpito da un proiettile esploso dal milite che occupava il posto anteriore destro. Ho sentito un forte dolore e mi sono piegato in due. Forse sono riuscito a sparare un colpo. Nel frattempo Alberto e Fabio sparavano in direzione dei carabinieri […]. Per quanto riguarda la ferita, non mi ha curato nessuno. L’ho disinfettata con un comune prodotto e successivamente ho preso degli antidolorifici.

Fabio smentisce Roberto

Negli stessi giorni – anche se i due fratelli non conoscono ovviamente il contenuto delle rispettive deposizioni – Fabio Savi dà una versione che è nella sostanza dissimile da quanto sostenuto da Roberto: Ammetto anche l’omicidio dei tre carabinieri al Pilastro. Ci avevano dato l’alt e non ci eravamo fermati. A quel punto ci hanno inseguito. Dopo un po’ la situazione si è invertita e dopo che loro hanno iniziato a sparare abbiamo sparato noi […]. Come ho detto all’inizio, erano loro ad inseguire noi, poi siamo arrivati ad un incrocio, ci siamo girati e ce li siamo trovati su un fianco.

A quel punto noi li abbiamo inseguiti perché altrimenti ci avrebbero di nuovo inseguito loro. Noi eravamo su un’auto rubata e quindi non potevamo farci controllare. È vero che quella sera mio fratello è stato ferito. Lo avevamo curato da soli […]. Effettivamente la sera del Pilastro eravamo io, Roberto e Alberto […]. Alla fine dell’inseguimento scendemmo dalla macchina per proteggerci con le armi in quanto i carabinieri ci stavano sparando addosso. Certamente io non andai a controllare se i carabinieri erano tutti morti. In macchina eravamo seduti nel seguente modo: Luca [è il soprannome con cui viene chiamato Alberto Savi, N.d.A.] guidava, io ero seduto dietro, Roberto era sul sedile del passeggero. Queste parole, Fabio Savi le pronuncia tra il 28 e il 29 novembre 1994.

L’ultima versione di Fabio

Una decina di giorni dopo dà una nuova versione che ancora una volta diverge in parte da quelle precedenti: Quella sera eravamo sulla Uno rubata, io con il mio SIG, Roberto con la sua AR70 e Alberto con la sua 357 alla guida dell’auto. Abbiamo visto una Uno dei carabinieri ed abbiamo cominciato a seguirla. Roberto ha cominciato a sparare dal finestrino, dalla parte anteriore destra. I carabinieri hanno risposto al fuoco, continuando ad andare con la macchina.

A un certo punto la nostra macchina si è fermata, eravamo in via Casini, quasi all’inizio, venendo da via Pirandello. Non so spiegare il motivo per il quale la nostra macchina si è fermata. È stato a questo punto che io ho iniziato a sparare, uscendo parzialmente fuori dalla macchina. La macchina dei carabinieri è continuata ad andare, anzi stava acquistando velocità. La mia impressione a quel momento è che i carabinieri ci stessero sfuggendo.

Ad un tratto, quasi alla fine di via Casini, la macchina dei carabinieri si fermò, andando ad urtare credo contro un cassonetto. In quel momento la nostra macchina ripartì, dopo che io ero entrato dentro, andando a fermare a circa venti metri dalla macchina dei carabinieri. Mentre stavamo avvicinandoci alla macchina dei carabinieri, io ho visto qualcuno scendere dalla macchina ed ho sentito un certo numero di colpi, anche se io non ho notato nessun colpo diretto verso di noi e la macchina in quel momento non è stata colpita. Prima però di arrivare a queste seppur contrastanti deposizioni, occorrerà comunque attendere quasi cinque anni.

La cantonata di Imposimato

Nel frattempo, le linee investigative hanno preso strade molto distanti dai veri autori della strage. Se il giornalista Sandro Provvisionato ironizza sul fatto che per il Pilastro è quanto meno stato escluso il movente passionale, le indagini, condotte dal sostituto procuratore Giovanni Spinosa, prendono la direzione della criminalità. Se comune o organizzata è un aspetto da chiarire quando il lavoro investigativo sarà più approfondito. A strage ancora recente, anche al di fuori del palazzo di giustizia sono in molti a pensarla come il magistrato inquirente.

Tra questi c’è Ferdinando Imposimato, allora senatore del Partito Comunista, che, ipotizzando una vendetta ai danni dell’Arma, ai giornali dichiara: Credo che la pista della vendetta di un’organizzazione criminale comune sia la più attendibile. Specialmente per il collegamento temporale con la recente operazione che ha consentito ai carabinieri di Bologna di arrivare fino ai massimi livelli delle cosche che manovrano il business della droga nell’Italia settentrionale. Non dimentichiamo che uno dei trafficanti, un calabrese di Platì, è rimasto ucciso in quella operazione, nel corso della quale sono stati sequestrati trenta chili di eroina pura; quella droga valeva miliardi e i mafiosi, quando vengono colpiti nei loro affari economici, si arrabbiano sul serio.

… e quelle di Arlacchi

Sostanzialmente sulla stessa linea – anche se introduce qualche elemento in più – si dimostra il sociologo Pino Arlacchi, diventato celebre per i suoi studi sul fenomeno mafioso e per la sua consulenza a diversi organi investigativi, tra cui la DIA, la Direzione Investigativa Antimafia. Nulla vieta, allora, che alcune operazioni “sotto copertura” particolarmente incisive dei carabinieri abbiano danneggiato qualche canale commerciale mettendo in pericolo la posizione di una banda o di una setta. I reticoli di traffico illegale dei terroristi-gangster sono molto meno vasti e ramificati di quelli mafiosi e sono anche più fragili. Una volta scoperti, non si riproducono con la stessa facilità e ampiezza.

Da qui la rapidità e l’atrocità della reazione contro gli investigatori. Ma nulla vieta, d’altra parte, che alcune potenti cosche esterne vogliano farsi strada in quello che è uno dei mercati criminali potenzialmente più lucrosi del paese, adoperando proprio personale o servendosi di terroristi-gangster locali come teste di ponte per demolire i due principali ostacoli al decollo vero e proprio dell’economia criminale nell’area metropolitana bolognese:

a) un apparato di polizia (carabinieri o polizia di stato) efficiente e ben organizzato e comunque ben al di sopra dello standard medio nazionale;
b) il controllo sociale molto stretto che è parte integrante del “modello emiliano” di prosperità e che si esprime in un’amministrazione pubblica ostile alle pratiche illecite, sostenuta da una popolazione fortemente politicizzata (non solo a sinistra) e pronta a collaborare con le autorità di polizia. Ecco, è utile soffermarsi un momento su queste parole.

Che c’entrano le sette?

Sono tre i dettagli di cui tenere conto nella dichiarazione di Arlacchi. Dettagli che, se sul momento forse difficilmente assumono la loro importanza, alla luce delle risultanze processuali e dei fatti che segnano l’ultimo decennio emiliano del ventesimo secolo qualche interrogativo lo stimolano. Innanzitutto il fugace riferimento a una setta: sì, forse una banda di malavitosi avrebbe potuto scatenare una reazione così violenta come quella consumatasi al Pilastro. Una setta, però, più difficilmente.

Che c’entrano poi le sette? In tema, a Bologna esistono i Bambini di Satana, un’associazione culturale di stampo satanista che fa parlare di sé sui giornali e in televisione, ma per loro non ci sono precedenti: le indagini di cui sono stati oggetto tra il 1989 e il 1992 non hanno condotto a nulla e sono state archiviate senza che nemmeno si arrivasse a un rinvio a giudizio. Inoltre, i reati per cui erano finiti sotto inchiesta riguardavano la detenzione di sostanze stupefacenti e ipotetici abusi sessuali, mica narcotraffico in grande stile. La grande bufera giudiziaria che invece travolgerà il gruppo bolognese inizierà solo nel gennaio 1996, meno di un anno e mezzo dopo la cattura dei veri responsabili delle azioni della Uno bianca, per concludersi in primo grado con l’assoluzione di tutti gli imputati, prosciolti anche successivamente.

Certo è che, come adombrano alcuni giornalisti che si erano occupati del caso, alla procura di Bologna serviva un caso “forte”, che gratificasse da un lato chi aveva avuto ruoli marginali (o non aveva alcun ruolo) nelle “prestigiose” inchieste sulla Uno bianca o sui suoi fallaci cloni (la banda delle Coop, quella della Regata o la mafia del Pilastro) e che dall’altro distogliesse l’attenzione che la vicenda dei Savi continuava a catalizzare anche dopo la cattura e a processi già avviati.

I terroristi gangster

In secondo luogo, Arlacchi non parla solo di gangster, mafiosi, guappi con residenza emiliana, gettando comunque il seme per la successiva teoria della “quinta mafia”, organizzazione criminale che si sarebbe andata ad aggiungere alle altre quattro già esistenti al sud per rivelarsi infine nient’altro che un abbaglio. Per ben due volte, alla parola gangster ne fa precedere un’altra: terroristi. Chi ha agito al Pilastro sicuramente il terrore lo diffonde, un terrore che si aggiunge a quello già seminato nei tre anni precedenti con l’infittirsi dei colpi ai caselli autostradali, ai distributori di benzina, ai supermercati lungo la linea della A14. Ma il terrore lo avevano diffuso anche coloro che mettevano le bombe sui treni, nelle stazioni, nelle piazze o nelle banche e che avevano colpito incessantemente nei vent’anni precedenti.

Quello però non era un tipo di terrore innescato da una cosca, da un pareggiamento di conti, da una faida tra clan rivali: quello era chiamato «gli anni di piombo», il periodo in cui all’eversione di estrema sinistra si contrapponeva quella di estrema destra, troppo spesso di stampo stragista e forte delle connivenze con le istituzioni o, meglio, con le branche delle istituzioni che si vuol far passare come deviate. Del resto – e qui entra in gioco il terzo elemento di riflessione sulle parole di Arlacchi – lui stesso parla di «modello emiliano di prosperità» e di «popolazione fortemente politicizzata (non solo a sinistra)

Ugo Maria Tassinari è l'autore di questo blog, il fondatore di Fascinazione, di cinque volumi e di un dvd sulla destra radicale nonché di svariate altre produzioni intellettuali. Attualmente lavora come esperto di comunicazione pubblica dopo un lungo e onorevole esercizio della professione giornalistica e importanti esperienze di formazione sul giornalismo e la comunicazione multimediale

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