17 maggio 1978. Il blitz contro le Br e le torture a Triaca
La mattina del 17 maggio 1978 la Digos di Roma sotto la direzione dell’Ucigos perquisì le abitazioni di 17 persone, ex appartenenti a Potere operaio, Lotta continua e militanti dell’estrema sinistra, gravitanti per la gran parte nel quadrante Est della Capitale, lungo la via Tiburtina. Erano state individuate, e molte di loro pedinate, a partire dalle indagini avviate all’inizio di aprile. Tra queste c’era il 25enne Enrico Triaca, che i poliziotti avevano «agganciato» solo il 1° maggio precedente nel corso di un pic nic di massa a villa Pamphili.
Il blitz a casa Triaca
Dopo l’irruzione nella sua abitazione, avvenuta con un certo ritardo sui tempi previsti perché quella mattina bussarono per sbaglio nel vicino appartamento di un giovane che aveva analoghe caratteristiche somatiche, barba e capelli rossicci, Triaca fu prelevato e portato nella tipografia dove era stato visto recarsi nei giorni precedenti, in via Pio Foà 31 a Monteverde, per la perquisizione dei locali. Anche la moglie, Anna Maria Gentili, venne inizialmente fermata perché, a causa del suo diploma di dattilografa, fu sospettata di aver battuto a macchina gli opuscoli e i volantini delle Brigate rosse stampati nella tipografia.
I poliziotti non si aspettavano di scoprire una base logistica delle Br adibita a tipografia e quindi la sorpresa fu grande. Appena gli agenti rinvennero sul posto materiale dell’organizzazione, tra cui numerose copie della Risoluzione strategica del febbraio 1978 e una macchina da scrivere Ibm a testina rotante con la quale il documento era stato redatto, sul posto si precipitarono forze di polizia in gran numero.
Il locale di Monteverde
Il locale venne affittato nel marzo 1977 per 150.000 mila lire al mese e dopo alcuni lavori di ristrutturazione fu attrezzato con i macchinari per la stampa. Nel mese di aprile 1977 furono stampate 3-4000 copie di un primo opuscolo. Successivamente Triaca lavorò alla preparazione di altri tre opuscoli: uno a settembre e l’altro a novembre 1977 di 400 copie ciascuno; l’ultimo, 10.000 copie, del febbraio 1978, intitolato La risoluzione della direzione strategica. Enrico Triaca e Antonio Marini, i due tipografi di via Pio Foà, percepivano dall’organizzazione un compenso di 250.000 lire mensili.
Triaca fu condotto negli uffici della Digos e poco dopo trasferito nella caserma di Castro Pretorio dove venne interrogato una prima volta nel pomeriggio. In tarda serata fu prelevato da una squadra di uomini travisati che lo incappucciarono e lo trasportarono in una sede ignota. Arrivato a destinazione fu sottoposto a un secondo interrogatorio, questa volta violento, con la tecnica del waterboarding, la tortura dell’acqua e sale, che produce una sensazione di annegamento.
Il racconto delle torture
Ecco la sua testimonianza:
«Sono stato portato in questura, a San Vitale, dove fui perquisito come risulta da un verbale firmato dal commissario Bellisario. Nel pomeriggio sono stato spostato nella caserma di via Castro Pretorio, dove è cominciato l’interrogatorio. Verso sera è arrivato un funzionario di Polizia che recentemente sui giornali è stato indicato con lo pseudonimo di “professor De Tormentis”. Questi mi ha indirizzato qualche battuta dicendomi, tra l’altro, che eravamo paesani, dopodiché si appartò con Spinella. I due confabularono qualcosa.
Appena finito dissero agli agenti che bastava così e ordinarono di riportarmi in questura. Uscimmo nel cortile dove c’era un furgone. Si aprì lo sportello laterale e si affacciarono due poliziotti con casco antiproiettile e giubbotto suscitando lo stupore degli agenti che mi tenevano. “De Tormentis” ordinò di consegnarmi a loro e il capo della Digos Spinella confermò l’ordine.
Fui caricato, mi misero le manette dietro la schiena, mi bendarono steso a terra e il mezzo partì. Nessuno parlava, si sentiva solo un leggero bisbiglìo e un rumore di armi. Caricatori che venivano inseriti, carrelli che mettevano il colpo in canna. Cercavo di capire cosa stava succedendo. “Vogliono farti sparire, eliminarti? Ma sei stato prelevato a casa, portato in tipografia, quindi la cosa è pubblica”. Allora razionalizzavo che la cosa non era possibile. Allora mi chiedevo: “Vogliono pestarti? Ma questo potevano farlo a Castro Pretorio, di certo non sto andando in Questura”.
L’inizio del trattamento
Dopo una mezzora circa, ma calcolare il tempo in certi frangenti è difficile, penso comunque di non essere uscito da Roma, il furgone si fermò. Mi fecero scendere. Salimmo delle scale e mi introdussero in una stanza. Lì venni spogliato. Mi caricarono su un tavolo e mi legarono alle quattro estremità con le spalle e la testa fuori dal tavolo. Accesero la radio con il volume al massimo e cominciò “il trattamento”. Un maiale si sedette sulla pancia, un altro mi sollevò la testa tenendomi il naso otturato, e un altro mi inserì il tubo dell’acqua in bocca.
Parlava solo De Tormentis
L’istinto è quello di agitarti nel tentativo di prendere aria ma riesco solo ad ingoiare acqua. Nessuno parla tranne “De Tormentis” che dà ordini, decide quando smettere e quando ricominciare, fa le domande. Poi ti viene somministrato qualcosa che si dice dovrebbe essere del sale, ma tu non senti più il sapore, dopo un po’ che tieni la testa penzoloni i muscoli cominciano a farti male e ad ogni movimento ti sembra che il primo tratto della spina dorsale ti venga strappato dalla carne, dai muscoli, dai nervi. Quando l’ossigeno comincia a mancare il corpo si ribella e si manifesta con violenti spasmi, violente contrazioni nel tentativo di prendere ossigeno: uno, due, tre spasmi e “De Tormentis” ordina di smettere. Un paio di respirazioni e si ricomincia: uno, due, tre contrazioni, “Stop”; uno, due, tre, “Stop”.
Una voce fuori campo
Dopo un lasso di tempo indefinito cominci a non reagire più; cerchi di estraniarti ma la testa che viene continuamente mossa e le fitte che ciò ti procura ti costringono a restare lì. All’ennesimo stop entra in campo un’altra voce che dice di smettere, che può bastare. Ne nasce una mezza discussione con “De Tormentis” che invece insiste per continuare, ma l’altra voce ha paura e s’impone e così vengo slegato, messo a sedere sul tavolo.
Con l’alcol mi massaggiano braccia e spalle, mi rivestono tra le battute divertite dei due maiali. Per accertarsi che la bendatura regga mi fanno uscire sul pianerottolo dove al centro è sistemata una sedia che mi fanno urtare per verificare che non vedo, quindi riscendo una rampa di scale e poi ne imbocchiamo un’altra sulla sinistra, più piccola e meno illuminata che dà direttamente nel garage. Qui vengo caricato nel furgone, si sente il rumore di una porta automatica e si parte. Tornati in Questura, nel cortile vengo sbendato e consegnato a due guardie che mi portano in cella di sicurezza»
Quelle informazioni estorte
Torturato durante la notte, sotto la guida esperta del “professor De Tormentis”, soprannome dato dal dirigente dell’Ucigos Umberto Improta al funzionario che comandava la squadra del ministero degli Interni specializzata negli interrogatori non ortodossi, a Triaca furono estorte alcune informazioni che portarono alla scoperta della base romana di via Palombini 19 . L’appartamento era stato acquistato con i soldi del sequestro Costa per 24.000.000 di lire. Nell’appartamento furono arrestati Gabriella Mariani e Antonio Marini, che non avevano lasciato la base, ritenendola sicura. Marini lavorava con Triaca nella tipografia di via Foà e la Mariani collaborava, in particolare quando si trattava di trascrivere a macchina i testi degli opuscoli. I due non erano mai stati individuati dalle forze di polizia durante le indagini preliminari.
La ricerca di una copertura alle torture
Marini, infatti, la mattina del 17 maggio, mentre si recava al lavoro, era stato messo in allarme da un commerciante della zona che, pensando forse a un furto, gli chiese come mai ci fosse tutta quella polizia davanti alla tipografia, salvandolo. Il clamore suscitato dalla scoperta della tipografia, avvenuta appena una settimana dopo il ritrovamento del corpo di Moro, creò problemi agli inquirenti, in difficoltà nello spiegare come si fosse arrivati alla base di via Palombini. Mancava una confessione ufficiale, e soprattutto legale, che giustificasse quelle informazioni «orali» strappate con la tortura. Si tentò di correre ai ripari il giorno successivo, 18 maggio, sottoponendo a Triaca una deposizione «spontanea». Il funzionario incaricato di svolgere quella delicata operazione fu Michele Finocchi, che dirigeva la segreteria dell’Ucigos ed era un collega del professor «De Tormentis».
Il ruolo di Finocchi, poi ladrone col Sisde
Michele Finocchi divenne poi capo di gabinetto del Sisde sotto la gestione di Riccardo Malpica, febbraio 1987-settembre 1991. Nel 1993 fu coinvolto nello scandalo dei fondi neri del Sisde. Fuggito in Svizzera venne successivamente arrestato dal Ros dei carabinieri. Al processo fu condannato a 7 anni, 2 mesi e 10 giorni, e al risarcimento di 12 miliardi e 619 milioni di lire, più un altro miliardo e mezzo in solido con Malpica.
Lo stratagemma tuttavia non risolse il problema poiché la data in calce risultava in ogni caso posteriore al ritrovamento della base. Dopo il «trattamento» Triaca venne trattenuto per tre giorni (ben oltre i termini di legge in vigore all’epoca) nelle celle di sicurezza della questura per permettergli di smaltire i segni più evidenti della tortura subita. Subito dopo fu condotto in carcere, sempre in stato di isolamento, dove «sparì» grazie ai continui trasferimenti a cui venne sottoposto. Di lui non si ebbero notizie per circa un mese, fino a quando, tradotto nuovamente a Rebibbia per un nuovo interrogatorio, ricevette la prima visita degli avvocati.
I ricordi di Triaca
Ricorda Triaca: «Dopo tre giorni di permanenza nelle celle di sicurezza (altro abuso perché le leggi di allora non permettevano di trattenere un detenuto per un tempo così lungo in Questura) venni tradotto nel carcere di Civitavecchia, dove sono stato per circa una settimana. 24 ore su 24 chiuso in cella senza possibilità di andare «all’aria», con un secondino fisso davanti alla cella. Poi trasferito a Sulmona, anche lì 24 su 24 in una cella sotterranea, con una finestrella a sei metri di altezza, una turca, senza lavandino, con un tubo che fuoriusciva sopra la turca da cui sgorgava in continuazione acqua dal quale potevo lavarmi o bere, il letto incementato al centro della cella, e una puzza di muffa che toglieva il respiro […]. Dopo una settimana circa, sono stato nuovamente trasferito, questa volta a Volterra.
Qui ci fu il salto di qualità: la cella era una «normale» cella di isolamento, con letto, bagno, lavandino e due porte una di fronte all’altra. Una di queste portava al cortile dell’aria: una cella un po’ più piccola senza tetto, ma almeno si vedeva la luce del sole, il cielo. Qui riuscii ad avere dopo tanto una sigaretta dal lavorante della sezione, una Stop lunga senza filtro. Me la fumai con un gusto indescrivibile, poi mi sdraiai sul letto perché mi girava tutto. Dopo un’altra settimana circa sono stato nuovamente trasferito, a Rebibbia questa volta, sempre in isolamento.
La prima visita degli avvocati
Ricevetti la prima visita degli avvocati, che mi spiegarono come fino a quel momento nessuno era riuscito a sapere dove stavo, che fine avessi fatto (Desaparecidos). A Rebibbia il passeggio era ampio con tutto intorno vetrate che davano su corridoi interni. Dopo qualche giorno trovai i vetri tappezzati di carta plastificata ed ogni tanto apparivano fessure dalle quali, seppi in seguito, mi spiavano i parenti delle vittime per i confronti. Ci fu poi l’interrogatorio con il magistrato Achille Gallucci al quale denunciai le torture raccontando come si svolsero i fatti. Lui mi rispose che mi sarei beccato una denuncia per calunnia e così fu. Il giorno dopo, o forse quello ancora, ricevetti il mandato di cattura per calunnia, dopo lunghe e approfondite indagini».
In effetti il 5 giugno 1978 il giudice istruttore Achille Gallucci aveva spiccato sei mandati di cattura nei confronti di Enrico Triaca, Teodoro Spadaccini, Giovanni Lugnini, Antonio Marini, Gabriella Mariani e Mario Moretti per il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro e della sua scorta.
La denuncia per calunnia
Dopo qualche giorno Triaca trovò la forza di mettere a verbale le torture subìte e ritrattare le dichiarazioni rese, ma, come detto, il 19 giugno 1978 venne denunciato per calunnia. Processato per direttissima fu condannato a un anno e quattro mesi di reclusione ma ciò nonostante la denuncia sortì degli effetti: nel corso di una testimonianza rilasciata moltissimi anni dopo al giornalista Nicola Rao, «De Tormentis» riferì che allora i suoi superiori gli «spiegarono che non si potevano ripetere, a breve distanza, trattamenti su diverse persone perché “se c’è solo uno ad accusarci, lascia il tempo che trova, ma se sono diversi, è più complicato negare e difenderci”».
La stampa infama la vittima
Per neutralizzare la denuncia contro le torture sui quotidiani cominciarono a filtrare alcune ricostruzioni degli arresti che dipingevano Triaca come una «inquietante figura» in contatto con la Questura, un «infiltrato» che avrebbe condotto di persona la polizia nella base di via Foa. Lo stesso giorno «Paese sera» titolò Il tipografo delle Br aveva amici nella Ps; «la Repubblica» C’è un informatore nella colonna romana e nell’occhiello sollevava interrogativi sulla presenza di una «fonte confidenziale» che avrebbe portato agli arresti, rivelando che Triaca al momento della perquisizione aveva nel portafoglio dei biglietti omaggio per sale cinematografiche rilasciati dal Terzo distretto di polizia. I biglietti, come accerterà l’indagine condotta dalla Digos, provenivano dalla moglie di un funzionario di polizia che li aveva regalati al personale di una sartoria di cui era cliente e nella quale lavorava anche la sorella di Triaca, che li aveva ceduti al fratello.
Una condanna abnorme a 30 anni
Oltre alla pena per calunnia, Triaca fu condannato a 30 anni per appartenenza alle Brigate rosse e per il sequestro Moro, verdetto modificato in appello (16 anni) e confermato in Cassazione. Durante le udienze del processo per calunnia il capo della Digos Spinella e gli altri funzionari dell’ufficio che ebbero in carico Triaca, Adelchi Caggiano, Riccardo Infelisi, Michele Finocchi e Carlo De Stefano, sostennero che questi il 17 maggio, dopo una breve permanenza nella caserma di Castro Pretorio, fu ricondotto in questura, tra le 16 e le 17, per essere sottoposto a un primo interrogatorio, e non lasciò più i locali di San Vitale dimorando nelle stanze del reparto Digos fino all’alba del giorno successivo, quando, una volta scoperta la base di via Palombini fu accompagnato nelle camere di sicurezza.
Quando i giudici chiesero i registri delle presenze del personale addetto alla camere di sicurezza, dopo una iniziale disponibilità la questura rispose che a quella data «non erano stati ancora impiantati registri delle presenze». I giudici rinunciarono a ulteriori accertamenti e Triaca fu condannato. A ispessire la coltre di silenzio sul ricorso alla tortura sopraggiunse la scoperta che i macchinari utilizzati per stampare la Risoluzione strategica del febbraio 1978 risultarono provenienti da stock ministeriali in disuso.
La logistica “ministeriale” delle Br
La stampante AB-DIK260T apparteneva in origine al raggruppamento unità speciali di Forte Braschi, dove aveva sede anche il Sismi. La fotocopiatrice AB-DIK 675 proveniva dal ministero dei Trasporti. La Commissione stragi presieduta dal senatore Pellegrino decise di condurre una istruttoria. Accertò che la stampante AB-DIK260T era stata acquistata nel 1972 presso la ditta Nebuloni & Picozzi dal ministero della Difesa per 10.500.000 lire, e attribuita al Rus di Forte Braschi. Il Rus (raggruppamenti unità speciali) era una semplice unità logistica di sostegno composta da personale di leva in servizio presso la struttura. Comprendeva autisti, marconisti ecc. La stampatrice fu posta in disuso già nel settembre 1975 e nel novembre successivo destinata al magazzino del Genio militare per essere ceduta a una ditta rottamatrice.
Piccole trastole di sottobosco
Alla fine del 1976 fu venduta dal tenente colonnello Federico Appel del Rus al cognato Renato Bruni. Questi la consegnò come saldo di un debito a Paolo Tomasello che all’inizio del 1977 la cedette a Stefano Noto. Un tecnico della Nebuloni & Picozzi che arrotondava lo stipendio riparando vecchie macchine. Tramite un annuncio su «il Mesaggero» Noto la rivendette per 3.000.000 di lire a Stefano Ceriani Sebregondi, intestatario della prima tipografia romana delle Br situata in via Fucini 2, nel quartiere Talenti. Successivamente Sebregondi uscì dalle Brigate rosse e Triaca divenne l’intestatario della nuova tipografia di via Pio Foà. Un percorso simile riguardava anche la fotocopiatrice, acquistata nel 1969 dal ministero dei Trasporti e poi dismessa e rivenduta nel mercato dell’usato.
La soffiata della fonte Cardinale
L’indagine che aveva condotto la polizia alla scoperta della tipografia di via Foà era partita da una «soffiata» di una fonte denominata «Cardinale». Il nome in codice era dovuto alla particolare avidità dimostrata della fonte: indicava, infatti, il colore porpora delle banconote da 50.000 lire con cui il confidente veniva retribuito. Come ha raccontato il funzionario dell’Ucigos Alfonso Noce, «l’informazione che ci portò all’individuazione della tipografia fu una cosa del tutto fortuita. Anche lui [«il Cardinale»] non pensava che potesse essere tanto importante, perché l’indicazione originaria che ci diede fu la seguente: «C’è un gruppo di persone che s’incontrano in una piazza – non ricordo adesso quale fosse la piazza – sulla Tiburtina e che operano in un modo strano. Non vi so dire nulla di preciso. C’è uno che mi sembra sia quello che coordina l’attività di tutti, ma non ne so né il nome di battesimo né il cognome. Solo una circostanza vi posso indicare, ossia che questo tutte le settimane deve andare a firmare al commissariato Sant’Ippolito».
I soliti escamotage per coprire le fonti
Per proteggere la fonte, l’Ucigos fece ricorso al consueto escamotage della telefonata anonima riportata in un appunto del 28 marzo 1978 con la sigla di un funzionario di pubblica sicurezza non identificato e così descritto nella relazione conclusiva della Commissione Moro 1:
«Verso le ore 19.30, pervenne al Ministero dell’interno – Ufficio Centrale Investigazioni Generali ed Operazioni Speciali (Ucigos) – una telefonata da parte di persona, che non volle rivelare la propria identità, la quale raccomandò di “controllare le seguenti persone che sono certamente collegate con le BR: 1) Teodoro Spadaccini, anni 30/35, pregiudicato; 2) certo Gianni, che lavora al Poligrafico ed ha un’auto 126 Fiat targata Roma S04929; 3) certo Vittorio, di anni 25/30, che ha un’auto ‘Ami 8’ targata Roma F74048; 4) Proietti Rino, attacchino del Comune di Roma; 5) Pinsone Guglielmo, che circola con una Fiat 125 di colore celestino. Tutti e cinque abitano nella zona Prenestina e frequentano la Casa della Studentessa”»
Il periodo intercorso (40 giorni) tra questa nota informativa e la scoperta della tipografia di via Pio Foà, ritenuto da alcuni un tempo eccessivamente lungo, suscitò numerose perplessità, Sulla vicenda sono tornati F. Imposimato e S. Provvisionato in Doveva morire, Chiarelettere, Roma 2008, pp. 257-265, riproponendo, senza particolari novità, la tesi del «congelamento» delle indagini e della «ritardata» perquisizione della tipografia finalizzati a ostacolare il rinvenimento del nascondiglio di Moro e la sua possibile liberazione.
La ricostruzione della commissione Moro
La Commissione Moro 1 si occupò della vicenda ricostruendo la sequenza delle indagini: «La fase dell’identificazione, a giudizio dei dirigenti dell’Ucigos, non comportò notevole sforzo investigativo; la seconda fase, diretta all’esatta individuazione dei soggetti in questione e alla precisa localizzazione delle rispettive abitazioni, si rivelò complessa, specie per Rino Proietti.
Anche l’individuazione degli altri soggetti comportò servizi di osservazione, appostamento e pedinamento “ad intervalli” per far sì che le persone seguite non si accorgessero di essere controllate. L’elemento che, alla luce dei risultati conseguiti, si rivelò più importante, e cioè la localizzazione della tipografia di via Pio Foà, venne acquisito solamente il primo maggio 1978, a seguito di un servizio di pedinamento nei confronti di Teodoro Spadaccini, che quel giorno si incontrò con un giovane che si trovava a bordo di un’autovettura risultata poi di proprietà di Triaca. Ritenuta completata la fase investigativa preliminare, con un primo rapporto del primo maggio, vennero richieste ed ottenute le autorizzazioni ad effettuare controlli telefonici, mentre un secondo rapporto, del 7 maggio, conteneva specifiche richieste di perquisizione. I relativi decreti vennero emessi il 9 maggio, data di rinvenimento del corpo dell’onorevole Moro. L’evento ritardò l’esecuzione dei provvedimenti di perquisizione».
Anche la Commissione Moro 2 è tornata sulla vicenda con le audizioni degli ex funzionari dell’Ucigos Alfonso Noce, già riferita, e Giuseppe Mango, ipotizzando che la fonte confidenziale fosse un infiltrato interno alle Brigate rosse e che andasse individuato tra le persone arrestate nella operazione del 17 maggio 1978. Significativa in proposito la risposta del funzionario G. Mango addetto ai pagamenti dei confidenti: «Informatori nelle organizzazioni eversive non ne avevamo […]. A quanto mi risulta, non c’erano contatti diretti tra i fiduciari e le organizzazioni eversive […]. Nell’ambito dei partiti sì, ma dell’eversione no. Non avevamo contatti con elementi. Erano fiduciari alcuni elementi del Pci, del Psi, del Msi».
Noce: nessun ritardo, solo una copertura
Anche la scelta di agire il 17 maggio fu criticata, ma stavolta perché si sarebbe agito troppo presto. A. Noce nel corso dell’audizione davanti alla Commissione Moro 2 ha spiegato che la data del 28 marzo è da ritenersi fittizia, a suo avviso retrodatata, per meglio coprire la fonte confidenziale, rispetto al momento effettivo in cui giunse la «soffiata». Il 19 aprile 1978 l’Ucigos produsse un appunto intermedio che relazionava le acquisizioni investigative raggiunte nel frattempo: si trattava di uno sviluppo dei profili dei soggetti attenzionati che apparivano molto più circostanziati.
Il successivo 29 aprile, prima della identificazione di Triaca, la Direzione generale della pubblica sicurezza aveva trasmesso al questore di Roma un rapporto che rendeva conto dei pedinamenti effettuati. I provvedimenti contenevano una correzione a mano che li posticipava di tre giorni, ma il ritrovamento del corpo di Moro in via Caetani fece saltare l’operazione, che verrà realizzata solo il 17 maggio.
Una scampagnata fatale
Il 1° maggio il gruppo di giovani che poi subì le perquisizioni il 17 si era dato appuntamento a villa Pamphili per la tradizionale «scampagnata». Tenuti sotto stretta sorveglianza furono fotografati e molti di loro vennero fermati e perquisiti sulla via di ritorno. Triaca sfuggì al controllo perché seguì un diverso itinerario.
Dietro al nome in codice «Cardinale» si nascondeva probabilmente l’identità di un pregiudicato romano che nella pasquetta del marzo 1978 (27 marzo) si era recato presso la «Casa della studentessa», un ostello per gli universitari fuorisede della Sapienza, situato nel quartiere romano di Casalbertone, frequentato da Spadaccini e da altri giovani che vi si erano dati appuntamento per pranzare insieme.
Quel tipico coatto romano
«Io arrivai nel pomeriggio – racconta Vittorio Antonini – all’epoca coordinatore di quattro gruppi armati della Tiburtina denominati Cellule comuniste e Mpro, molto vicini alle Brigate rosse e il cui nome fu segnalato dal confidente –. Dopo aver ricostruito quelle giornate insieme ad alcuni vecchi compagni anarchici della Casa della studentessa, tutti abbiamo sottolineato l’immagine di questo tizio tipicamente coatto romano mai visto prima e che non faceva mistero del fatto che la sua politicizzazione era avvenuta in galera stando vicino ai compagni, soprattutto dei Nap […].
Si chiamava Mario, girava con una macchina Alfa Romeo e di sicuro non aveva nulla a che vedere con noi della Tiburtina e neanche con i compagni fuorisede. Con molta probabilità quel giorno era stato portato alla Casa della studentessa da uno dei compagni, non di Tiburtino ma della Prenestina, che fu anche perquisito ma non fermato, amico di Spadaccini e appartenente all’area di riferimento di Rino Proietti o comunque suo amico. Questo compagno qualche giorno dopo le perquisizioni andò a trovarlo a casa sua, che da quel che noi ricordiamo doveva trovarsi in un agglomerato di vecchie case basse collocate a ridosso della retta che da Casalbertone arriva fino alla Tuscolana, ma il presunto informatore lo trattò freddamente e gli disse di lasciarlo perdere. E ricordo perfettamente la sua amarezza quando all’epoca lo raccontò. È probabile che questo tizio non conoscesse neanche Spadaccini […].
I nomi di chi non c’entrava
Tra l’altro, quel giorno, è forse l’unico in cui ha potuto raccogliere (al momento dei saluti fuori dalla Casa della studentessa) alcuni dei nomi e delle targhe indicati nella informativa, visto che tra di loro, oltre a Gianni Lugnini e Guglielmo Pinsone, che in verità non c’entravano con le Br, è inserito anche il nome di Rino Proietti. Ora Proietti, pur essendo un vecchio amico mio e di Spadaccini, non aveva le nostre stesse idee sulla lotta armata, non frequentava i nostri ambienti sulla Tiburtina, e a noi sembra di ricordare che non era neanche presente al pranzo di Pasquetta del ’78 […].
Il che vuol dire che l’informativa del 28 marzo conteneva un mix di nomi: alcuni già conosciuti dall’informatore e altri presi casualmente quel giorno. Ovviamente né io, né i vecchi compagni fuorisede, siamo in grado di escludere che successivamente questo signore abbia raccolto altre voci e informazioni, in particolare su di noi compagni della Tiburtina, e le abbia girate ai suoi referenti dell’Ucigos. Se si riuscisse a ricostruire con precisione per quale reato Proietti fu arrestato e poi processato, forse emergerebbe anche qualche altro filo legato al presunto informatore, anche se conoscerne il suo vero nome e cognome non cambierebbe di certo la storia»
I ricordi di Antonini e di Noce
La prossimità ambientale tra «il Cardinale» e Proietti fornisce la probabile ragione che spinse gli inquirenti a indagare inizialmente nella sua direzione, perdendo tempo prezioso e imboccando solo successivamente la pista Spadaccini. Il dirigente dell’Ucigos dell’epoca, Antonio Fariello, sentito dalla Commissione Moro 1 affermò che «particolare difficoltà ha comportato la indagine relativa a Proietti, il quale non dimorava né presso la sua residenza anagrafica né all’indirizzo dichiarato all’ufficio»
I ricordi di Antonini coincidono con la testimonianza di Noce che pur mantenendo il silenzio sulla identità del suo confidente, ha confermato le sue origini romane: «sì era borgataro romano e quindi l’accento […]. Io ho parlato con lui più per telefono che di persona. Gli ho parlato anche di persona, ma poche volte».
Ad avviso di Antonini, «quel che dice Noce è tutto credibile, tranne il fatto che non ricorda il nome o il quartiere di provenienza dell’informatore. Bisogna inoltre considerare che per tutti noi all’epoca era scontato che in quei mesi fossimo intercettati e seguiti.
Il blitz contro la Mantini
Attraverso Spadaccini si arriva facilmente ad un gruppo di compagni di Tiburtino abbastanza numeroso, ed anche ad altri poveri compagni che davvero non c’entravano praticamente nulla. A tutti noi indicati inizialmente, e poi a tutti gli altri, vengono controllate le storie politiche e personali, comprese le relazioni sui posti di lavoro (tutti i posti di lavoro furono perquisiti, e qualcuno fu arrestato proprio mentre lavorava). I tempi quindi si sono allungati con l’espandersi delle relazioni di ogni tipo da controllare che penso siano state davvero tante, fino al primo maggio, quando entra in scena Enrico [Triaca]».
Noce aggiunse che «il Cardinale» in passato aveva permesso di portare a termine alcune importanti operazioni: «La prima fu contro i Nuclei armati proletari, con il ritrovamento di un covo in via Due Ponti, mi sembra, dove trovò la morte la nappista Anna Maria Mantini», e successivamente indicò il residence sulla via Aurelia dove furono arrestati diversi membri dei Nap che stavano tentando di riorganizzare il gruppo. «Diede poi altre informazioni che fecero scoprire un deposito di armi di formazioni terroristiche in una strada adiacente via Prenestina»
Quell’infame del Cardinale
«L’accento – sottolinea il funzionario – forse era quello romano, come dice Scarlino, perché i rapporti frequenti li aveva lui. La descrizione più esatta è quella di Scarlino». Noce smentisce quanto sostenuto dal suo collega, il maresciallo G. Mango che nell’audizione del 2 marzo 2016 aveva individuato nel «Cardinale» un pregiudicato calabrese di nome Giovanni Rega. Il 7 luglio 1999 ai Ros aveva negato di conoscere l’identità del «Cardinale» e ritenuto che Rega fosse noto come «il Vescovo». In precedenza Noce aveva spiegato che a tenere contatti quasi quotidiani con il «Cardinale» era il maresciallo Scarlino che ai Ros, il 6 luglio 1999 aveva confermato che «parlava con accento romano e si definiva un borgataro». «Prima del sequestro Moro – prosegue Noce – [Cardinale] fu fermato una notte e gli trovarono addosso una pistola e alcuni milioni di lire.
Gli chiesero: “Che fai? Questi soldi da dove provengono?”. Lui si giustificò dicendo: “Me li ha dati il dottor Noce”. Il responsabile della squadra mobile di Roma all’epoca era il dottor Masone, che mi telefonò e mi chiese notizie. Io gli dissi che era vero, perché era un nostro confidente, e che la pistola gli era stata data con matricola abrasa per consegnarla al gestore del deposito di armi di via Prenestina, che il “Cardinale” non sapeva neppure come si chiamasse (ecco perché ritengo che non fosse molto addentro nelle organizzazioni), ma lo conosceva. Si è incontrato con questo personaggio a una data ora in piazza. Come si chiama quella strada con gli archi che portano sulla Prenestina? Dopo l’ultima soffiata, il “Cardinale” è andato via da Roma. Era preoccupato di essere stato individuato e temeva addirittura per la sua vita».
L’ammissione del commissario Ciocia
Nel 2012, dopo che diverse inchieste giornalistiche e un libro avevano raccontato la storia dell’apparato speciale messo in piedi dal ministero dell’Interno per ricorrere all’uso sistematico della tortura nelle indagini contro la lotta armata e i gruppi dell’anonima sequestri, il professor «De Tormentis» decise di uscire fuori dall’anonimato confermando il nome che già circolava da tempo: «De Tormentis sono io», riconobbe Nicola Ciocia, in una intervista al «Corriere della sera» del 10 febbraio 2012.
«Ammesso, e assolutamente non concesso che ci si debba arrivare, – aveva spiegato Ciocia in una delle interviste rilasciate in precedenza sotto anonimato – la tortura, se così si può definire, è l’unico modo, soprattutto quando ricevi pressioni per risolvere il caso, costi quel che costi. Se ci sei dentro non ti puoi fermare, come un chirurgo che ha iniziato un’operazione devi andare fino in fondo. Quelli dell’Ave Maria esistevano, erano miei fedelissimi che sapevano usare tecniche “particolari” d’interrogatorio, a dir poco vitali in certi momenti».
Il precedente di Alberto Buonoconto
La struttura – rivelò a Nicola Rao – è intervenuta una prima volta nel maggio 1978 contro il tipografo delle Br, Enrico Triaca. Ma dopo la denuncia del «trattamento» da parte di Triaca la squadretta venne messa in sonno. All’inizio del 1982 il «professore» venne richiamato in servizio. Secondo alcuni la struttura embrionale operava già ai tempi dei Nap, quando Nicola Ciocia dirigeva l’Ispettorato antiterrorismo di Campania, Molise e Basilicata, e in particolare si occupò degli interrogatori, dopo l’arresto a Napoli, di Pietro Sofia e Alberto Buonoconto, che furono sottoposti al «trattamento», «De Tormentis» era alla guida di una squadra speciale composta da uomini di sua fiducia provenienti dalla squadra Mobile di Napoli, soprannominati i «cinque dell’Ave Maria» che nel 1982 vennero utilizzati negli arresti di gennaio contro membri del Partito guerriglia, poi in Veneto nelle indagini sul sequestro Dozier e nell’ottobre-novembre successivo ancora a Napoli e Roma.
De Tormentis rivendica senza rimorsi
Più che un racconto, quella di «De Tormentis» appare una vera e propria rivendicazione senza rimorsi: «Io ero un duro che insegnava ai sottoposti lealtà e inorridiva per la corruzione. […] Occorreva ristabilire una forma di “auctoritas”, con ogni metodo. Tornassi indietro, rifarei tutto quello che ho fatto»
L’11 dicembre 2012 fu presentata dagli avvocati Francesco Romeo e Claudio Giangiacomo la richiesta di revisione della condanna per calunnia emessa contro Enrico Triaca per aver denunciato le torture subite nel maggio 1978. Il 15 ottobre 2013 la Corte di Appello di Perugia ha riconosciuto che la squadra di poliziotti diretta da Nicola Ciocia fece effettivamente ricorso alla tortura ai suoi danni e in altre occasioni. Trasmise gli atti alla procura di Roma per valutare quali reati emergessero a carico di Ciocia, «gravato da forti indizi di reità», segnalando che anche se fosse maturata la prescrizione, egli vi avrebbe legittimamente potuto rinunciare per esercitare la propria tutela.
Ricevuti gli atti, la procura di Roma ha derubricato le violenze commesse (il reato di tortura non è ancora contemplato dal codice penale italiano), riqualificando i fatti come «abuso d’autorità sulla persone arrestata» (art. 608 cp.) per aver: «sottoposto a misure di rigore non consentite dalla legge una persona arrestata». Nicola Ciocia, ottenuta la pensione con il grado di questore, non ha rinunciato alla prescrizione e il procedimento penale è stato archiviato.
FONTE: Clemente-Persichetti-Santalena Brigate Rosse, vol.1 , Derive Approdi, Roma, 2018
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