15 dicembre 1976: così uccisero Walter Alasia

Dal libro I sovversivi di Pino Casamassima

Era il 15 dicembre 1976 ed erano passate da poco le sei del mattino. Dieci poliziotti avevano circondato un condominio popolare di via Leopardi e altri cinque avevano infilato la scala G fermandosi al piano rialzato, dove si trovava l’appartamento interessato. Due di essi indossavano giubbotti e maschere antiproiettile. Davanti alla porta si erano piazzati i capi. Uno di essi reggeva un foglio dove c’era scritto che dovevano perquisire la casa di quel Walter Alasia, sospettato di appartenere alle Brigate Rosse.

Una scampanellata, un’altra. Poi si era battuto con le mani e i piedi, finché si erano sentite delle voci filtrare ovattate. «Chi è?». «Polizia». Aprì un uomo in pigiama, i capelli canuti e arruffati, e alle sue spalle comparve una donna in camicia da notte. Parole concitate, gesti veloci. I due “capi” avevano quindi puntato quella che era stata indicata come la stanza di Walter. «Dorme con suo fratello». Un attimo e quella porta si era spalancata su quel ragazzo alto e magro che aveva esaurito un intero caricatore contro Sergio Bazzega, dell’antiterrorismo, e Vittorio Padovani, commissario di Sesto.

Walter era rientrato nella sua stanza e aveva ricaricato la pistola. Poi, vestitosi in fretta, era balzato dalla finestra nel cortile: un salto di poco più d’un metro. Era stato allora che una raffica di mitra gli aveva spezzato le gambe e il condominio si era illuminato: qualcuno si era affacciato alle finestre, pigiama e occhi semichiusi. L’urlo di un’ambulanza si era mescolato con un altro colpo, quello che aveva ucciso Walter, nome di battaglia, Luca.

Alda Tibaldi rievoca quella mattina: «Mi sono svegliata subito, ho il sonno leggero. Non ho guardato la sveglia, non ho pensato che ora fosse. Faccio le punture e capita che mi vengano a chiamare anche di notte, inquilini della casa. Mi alzo, accendo la luce del corridoio, guardo nello spioncino della porta. Vedo due quasi inginocchiati, sull’orlo della scala, con qualcosa sulla faccia, come una maschera quadrata. Non mi viene in mente la polizia, penso sia uno scherzo, penso che siano amici di Walter che andavano e venivano a qualsiasi ora. Non ero preoccupata. Ma attraverso la porta mi giunge una voce ferma, dura, non poteva essere uno scherzo.

Non me la sento di aprire, vado a svegliare mio marito, lo scrollo per una spalla. Se gh’è? fa lui. Polizia, dico io. Polizia? Rovescia le coperte, si alza, si mette a cercare le chiavi. Battono contro la porta col calcio del fucile, “sappiamo che è in casa” dicono. Mio marito trova la chiave, apre e spalanca mentre nella stanza dei ragazzi c’è qualcuno che si muove, ma è questione di secondi. Vedo entrare un uomo giovane, coi baffi, che con un foglio in mano va dritto verso la camera di Walter. C’è un altro subito dietro, anche lui giovane, ma non faccio in tempo a guardarlo perché Walter è già sulla porta e si mette a sparare. Non avevo mai sentito dei colpi di rivoltella, erano come scoppi di mortaretto. L’uomo coi baffi si gira, fa un lamento, cade nel ripostiglio, all’indietro, la faccia che ha cambiato di colore.

Non posso togliergli gli occhi di dosso, penso che sia morto, e Walter continua a sparare, tanti colpi. Basta, per carità, gli grido, ma lui sposta il braccio e spara sull’altro, che però io non vedo cadere. Poi Walter mi guarda senza dire una parola. Ha la faccia tranquilla, nessun segno di agitazione. “Cos’hai fatto?” gli grido, ma lui accosta la porta. Ho il cervello vuoto, come paralizzato. Vedo che stanno tirando per i piedi l’uomo che era caduto nello sgabuzzino e sento un rumore metallico, come se strisciassero dei chiodi. Mi metto davanti alla porta dei ragazzi, sento la tapparella che si alza, poi sento un “Ah, mi hanno beccato”.

Mi scostano, mi prendono per un braccio, mi portano in soggiorno, dove c’è mio marito sdraiato sul divano. Ma io ritorno nella stanza dei ragazzi, mi affaccio alla finestra e vedo Walter disteso su un fianco, con le gambe piegate». «Corro in soggiorno, l’hanno ammazzato, dico a mio marito e lui forse non capisce. È pallido, disfatto, un vecchio. La casa è piena di gente che va e viene, parla, grida, esce, ritorna. Bastardo, sento dire e sento anche una voce che protesta e che mi sembra quella di Oscar, il fratello di Walter, ma è il mio di fratello. Poi sento la sirena dell’ambulanza e ancora dei colpi, colpi di rivoltella, mi pare.

Viene Oscar e mi dice di non preoccuparmi, che Walter l’avevano solo ferito alle gambe. Mio marito stava male, bisognava trovare un dottore, chiedo se si può chiamare il nostro dottore. “Telefoni pure” mi dicono, ma è Oscar che lo fa e io mi avvolgo in una coperta di lana che mi avevano buttato addosso. C’era un freddo da battere i denti e io ero in camicia da notte leggera. C’era un poliziotto giovane, coi capelli lunghi e la barba seduto vicino a noi, e io ogni tanto chiedo “cos’è successo in cortile?”. Lui rispondeva che non c’era da inquietarsi. Non riuscivo a pensare agli altri due poliziotti colpiti dai proiettili, pensavo solo a Walter e chiedevo di lui a tutti quelli che andavano e venivano.

Allora un brigadiere coi gambali che si era messo proprio sulla porta mi dice che loro non ammazzavano la gente, che sparavano solo alle gambe». «Avevo quasi la certezza che Walter fosse morto, ma facevo domande lo stesso perché non potevo avvicinarmi alla finestra. Poi, in mezzo a quella confusione, gente in divisa, gente in borghese, forse pezzi grossi della polizia, vedo arrivare un inquilino del terzo piano con addosso una giacca di lana della moglie. S’intrufola dentro, va alla finestra, guarda attraverso le fessure della tapparella, si volta e mi dice: “Ma signora Alasia, Walter è ancora là fuori”. Erano passati venti minuti, mezz’ora, e se Walter era ancora in cortile significava che era morto. Ma io non accettavo l’idea, non ci potevo credere. Faccio per alzarmi ma non mi lasciano, mi dicono di stare seduta.

Si accorgono dell’inquilino, lo investono di domande: “Ma chi è? Cosa fa? Lo sa che adesso lei non va più via?” e lo portano fuori».

«Arriva il medico, dice che ha fatto fatica a passare perché ci sono camionette dappertutto. Visita mio marito, che si è ripreso, e io continuo a chiedere di Walter, se è ancora là, cos’è successo in cortile. Mi dicono “non lo sappiamo, lo sapremo, lo portano in ospedale, non si preoccupi”.

Ero con questo filo di speranza, non riuscivo a vedere Walter morto, lo immaginavo in un letto d’ospedale, con qualcuno attorno che lo curava. Ogni tanto mio marito parlava, sottovoce, “ma perché?” ripeteva e io non sapevo cosa dire. Era già chiaro, giorno fatto, ci dicono di vestirci. Davanti a tutti? “Non si preoccupi” rispondono.

Mi metto sottana e golf, mi infilo il paltò e un poliziotto in jeans, un ragazzo, mi prende sottobraccio e mi fa: “Signora, là fuori sono come avvoltoi, si tiri su il bavero, mi stia vicino”. Avevo sempre provato rabbia quando in televisione vedevo certa gente disperata e i fotografi attorno che scattavano quella disperazione. Così alzo i risvolti del cappotto, esco, sento un mormorio, vedo una gran folla.

Tiro dritto, salgo in macchina con tre poliziotti che mi portano in questura, mi mettono in una stanza piena di borse e di sedie. Fumo una sigaretta dietro l’altra e loro sono gentili, “Signora, non si preoccupi, stia calma”. Passa un’ora, forse due, e mi spostano in uno stanzone dove c’era mio marito. Ci sediamo uno di fronte all’altra, ci guardiamo, e allora si avvicina un uomo coi capelli grigi, la pipa in bocca, che appoggia le mani sul bordo del tavolo: “Ma non lo sapete che vostro figlio era delle Brigate Rosse? Volete piangere per quel delinquente?”. Io ho abbassato la testa e non l’ho più rialzata»

Ugo Maria Tassinari è l'autore di questo blog, il fondatore di Fascinazione, di cinque volumi e di un dvd sulla destra radicale nonché di svariate altre produzioni intellettuali. Attualmente lavora come esperto di comunicazione pubblica dopo un lungo e onorevole esercizio della professione giornalistica e importanti esperienze di formazione sul giornalismo e la comunicazione multimediale

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