9 maggio 1976: Ulrike Meinhof muore in carcere. Un suicidio molto sospetto

Il 9 maggio 1976 è trovata impiccata nella sua cella nel carcere di Stammheim Ulrike Meinhof, fondatrice della Rote Armee Fraktion.
Una commissione indipendente concluderà che era già cadavere quando è stata appesa alle sbarre della finestra. E’ la conclusione di anni di brutale violenza contro una giornalista rivoluzionaria che aveva osato ribellarsi al dominio.
Una giornalista militante
All’inizio fu giornalista militante della sinistra radicale tedesco-occidentale, attiva nel movimento anti-nucleare. Nel 1961 sposò Klaus Rainer Röhl, giornalista ed editore del giornale comunista Konkret, in cui lei lavorava. Ebbero due gemelle. L’enciclopedia delle donne ricostruisce il suo percorso di radicalizzazione, sull’onda del movimento di lotta alla guerra del Vietnam, come rottura con il marito, l’istituto familiare e il successo economico e professionale:
In anticipo sui movimenti antiautoritari, Ulrike comincia ad occuparsi dei gruppi marginali, del disagio sociale. Nel 1967 i coniugi Rohl, che col successo di «Konkret» si sono arricchiti, acquistano una magnifica villa con parco a Blankenese, uno dei quartieri più esclusivi di Amburgo. L’idillio familiare si spezza nella stessa serata di ottobre in cui la villa viene inaugurata con una festa sfarzosa: Klaus balla per tutta la sera con una donna, anche lei sposata, con la quale alla fine si dilegua, e che diventerà la sua nuova compagna. Qualche mese dopo, iniziate le pratiche legali per la separazione, Ulrike ottiene l’affidamento delle figlie e si trasferisce a Berlino.
La resa dei conti con Konkret
In aprile si compie la rottura anche con «Konkret». Ulrike , columnist e redattore capo della rivista, invia un articolo di critica e rinuncia al ruolo autoritario e alla soggettività del giornalista in favore della comunicazione politica diretta. Klaus blocca la pubblicazione dell’articolo e Ulrike si dimette: è il 26 aprile 1968, ed è guerra aperta. La Meinhof attacca il giornale e l’ex marito, denunciando come l’editore si sottometta alle leggi del mercato. Organizza una spedizione nella sede della rivista con l’obiettivo di espropriarne il “noto socialista da salotto Klaus Rohl”; l’ex marito, informato, sceglie di evacuare la redazione. Al suo arrivo, il gruppo trova la polizia e alcuni volantini: “Konkret entra in clandestinità”. Il gruppo capeggiato da Ulrike marcia sulla villa di Blankenese, dove tutto finisce in pezzi.
Dalla Comune alla lotta armata
Tornata a Berlino – privilegiata enclave della RFT in territorio socialista dove tutto è permesso – Ulrike sperimenta per breve tempo la convivenza in una comune. Se ne va. Anche le figlie sono trascurate. Divisa tra il ruolo di madre e un coinvolgimento personale nella lotta armata, Ulrike sceglierà il secondo, rinunciando per sempre alle figlie. Il 14 maggio 1970 aiuta Andreas Baader a evadere dalla prigione, in quella che è considerata la prima azione della Rote Armee Fraktion (RAF).
Il 19 maggio Meinhof organizza un attentato contro l’editore Springer, nemico della sinistra e responsabile della criminalizzazione di Dutschke: trentotto lavoratori feriti – il che provoca il dissenso di Baader. Il gruppo di fuoco della RAF con Ulrike trascorse un periodo di addestramento in Giordania. Durante la clandestinità Ulrike Meinhof elabora il documento programmatico della RAF. A lei è infatti attribuita gran parte della produzione teorica del gruppo, incluso il concetto di guerriglia urbana:
“Se uno lancia un sasso, il fatto costituisce reato, se vengono lanciati mille sassi, diventa un’azione politica. Se si dà fuoco a una macchina, il fatto costituisce reato, se invece si bruciano centinaia di macchine, diventa un’azione politica. La protesta è quando dico che una cosa non mi sta bene. Resistenza è quando faccio in modo che quello che adesso non mi piace non succeda più”.
La RAF nemico n. 1
La RAF diventa il nemico numero uno, e il ministro degli Interni istituisce un organismo nazionale per la lotta al terrorismo. L’11 maggio 1972 un attentato al quartier generale del V Corpo d’armata americana provoca un morto e tredici feriti. Il 12 maggio alcune bombe, piazzate in sedi della polizia in tre diverse città, provocano 17 feriti e ingenti danni materiali. Il 24 maggio due autobombe esplodono nel quartier generale USA di Heidelberg: tre morti e cinque feriti tra i militari. Il primo giugno sono arrestati Baader, Ian-Carl Raspe e Holger Meins che, portato in un commissariato, subisce un pestaggio. Una settimana dopo tocca a Ensslin, il 15 giugno a Meinhof. In tutto ventinove arrestati, due uccisi (in scontri a fuoco con la polizia), otto latitanti. Il nucleo storico della RAF è decimato.
Le torture in carcere
Le condizioni carcerarie cui sono sottoposti i membri della RAF hanno i caratteri della tortura: isolamento sonoro e sociale totale, muri e mobili bianchi e luce al neon accesa giorno e notte, controlli ogni 15 minuti e sospensione di una serie di diritti costituzionali “a causa della pericolosità dei soggetti”. Nell’aprile 1973 nascono in tutta la RFT i Comitati contro la tortura dei prigionieri politici; si mobilitano intellettuali quali Heinrich Boll e J.P. Sartre. Al processo il giudice, informato del fatto che Ulrike era stata operata per un tumore benigno al cervello nel 1962, dispone delle analisi, al fine di appurare se nel 1972 fosse in grado di intendere e volere, per poter formulare l’ipotesi che i membri della RAF siano dei pazzi.
Per il processo, che si aprirà il 21 maggio 1975, si costruisce a Stammhein, quartiere a nord di Stoccarda, un bunker di cemento armato; imponenti le misure di sicurezza. Il 13 settembre 1974 i membri della RAF, per voce di Ulrike, annunciano l’inizio del terzo sciopero della fame collettivo (che durerà fino al 15 febbraio 1975) con l’obiettivo di migliorare le condizioni di detenzione e ottenere lo status di prigionieri politici. Rinchiusa in cella d’isolamento Ulrike fu rinvenuta cadavere il 9 maggio 1976, impiccata alle sbarre della finestra della sua cella. Aveva in corso un altro processo in cui rischiava l’ergastolo.
Uccisa e forse violentata
Per le autorità carcerarie è suicidio ma all’autopsia ufficiale non furono ammessi testimoni e la commissione indipendente che eseguì la seconda autopsia poté solo appurare che la morte sopraggiunse effettivamente per effetto apparente di soffocamento (tuttavia mancavano alcuni segni tipici della morte per impiccagione, come la cianosi e i segni di tumefazione dovuti alla corda sul collo) e non di rottura delle vertebre cervicali. I membri della RAF sostennero che fosse stata uccisa.
Una Commissione d’inchiesta internazionale, composta di vari esperti, sostiene la tesi dell’omicidio, portando anche alcuni dati medici che facevano pensare ad atti di violenza subiti. Rilevò inoltre che i segni clinici post-mortem rivelavano piuttosto un decesso per compressione del nervo vago, ossia per pressione sulla carotide che può provocare un arresto cardiaco riflesso, che porta direttamente alla morte senza anossia. L’analisi dei vestiti e del corpo della Meinhof rivelò possibili segni di violenza sessuale come ecchimosi ed escoriazioni, anche se non fu possibile affermarlo con certezza.
Il furto del cervello
Il cervello di Ulrike fu trafugato dal neuropatologo Jürgen Pfeiffer e inviato all’Istituto di psichiatria e medicina psicosomatica dell’Università di Magdeburgo, dove fu analizzato dallo scienziato Bernhard Bogerts, il quale ipotizzò un evidente stato di pazzia per il fallito intervento chirurgico al cervello del 1962. Dopo lunghe indagini, la figlia Bettina ha scoperto che il cervello della madre era da 25 anni giacente nel magazzino dell’università di Magdeburgo e ne ha pretesa la ricongiunzione con i resti sepolti nel cimitero evangelico di Mariendorf.
Per approfondire
Nel blog di “Baruda” Polvere da sparo ci sono numerosi materiali su Ulrich Meinhof. Questo è il link per il tag “Ulrich Meinhof”. Con un’unica avvertenza. Le tre parti del rapporto della Commissione internazionale che documenta tutti i dubbi sulla versione ufficiale sono pubblicate in “modalità blog”. E quindi bisogna scorrere il testo fino alla prima parte e poi, arrivati alla fine del testo usare il link interno.
https://www.nuovaresistenza.org/2017/02/dallaltra-parte-della-repressione-le-donne-dei-detenuti-polici-in-italia-gianni-sartori/
Chi critica il capitale verrà annullato in un modo o nell’ altro
Onore alla RAF.
GALERE VUOTE IN SIRIA (sperando rimangano tali)
Gianni Sartori
Il carcere di Saydnaya (situato nella periferia di Damasco) ha rappresentato uno dei peggiori luoghi di detenzione non solo del Medio Oriente (dove di sicuro non manca la “concorrenza”, pensiamo alla Turchia), ma forse dell’intero pianeta.
Migliaia di familiari dei detenuti, al momento della caduta del regime, si sono qui precipitati nella speranza, spesso illusoria, di ritrovare in vita qualche figlio, figlia, sorella, fratello, padre, madre…desaparesido.
Ma – quasi per voler aggiungere orrore all’orrore (o forse per vendetta, per non lasciare altre tracce…) – negli stessi giorni in cui Assad si rifugiava tra le braccia dei russi, gruppi di detenuti venivano prelevati dalle celle e condotti in una località sconosciuta. Poi, il 9 dicembre, i loro poveri resti venivano ritrovati nell’obitorio dell’ospedale Harsta (sempre a Damasco).
Immagini che purtroppo gettavano qualche ombra inquietante su quelle gioiose e comunque confortanti di un video (la cui autenticità sarebbe stata confermata da Reuters) in cui si vedevano decine di ex prigionieri correre per le strade alzando le dita di entrambe le mani per mostrare quanti anni avevano trascorso in prigione. Chiedendo informazioni ai passanti, dato che non si erano ancora resi ben conto di quanto era accaduto. In un altro video che documentava la liberazione delle donne detenute a Saydnaya si senta una voce rassicurarle (“E’ caduto! Non abbiate paura!”) dato che nella confusione le prigioniere non capivano cosa stesse realmente succedendo.
Ma chi erano le persone rinchiuse a Saydnaya ?
Oppositori, dissidenti (veri o presunti) di ogni genere. Scontata la presenza sia di islamisti (in particolare Fratelli musulmani) che militanti curdi. Oltre a palestinesi appartenenti a organizzazioni “non allineate” con il regime, democratici generici e anche comunisti (soprattutto dopo il 2011). Si calcola (per difetto) che almeno 136mila siriani vi siano transitati più o meno a lungo. Almeno 100mila prima di essere eliminati o di soccombere per fame, maltrattamenti, torture, malattie. Compresa un grande percentuale di donne e ragazzi, bambini talvolta.
Tra quelli ritrovati ancora in vita (dopo che le serrature delle celle erano state fatte saltare sparando), anche qualche sopravvissuto alla ribellione del 1982 guidata dai Fratelli musulmani.
In gran numero quelli arrestati per le manifestazioni e rivolte del 2011, l’anno dell’inizio della guerra civile. Durante la quale le forze di sicurezza prelevarono centinaia di migliaia di persone poi rinchiuse in vari campi di detenzione dove – stando alle informazioni raccolte da varie Ong per i diritti umani – venne praticata sistematicamente la tortura. E senza dare informazioni alle famiglie sulla sorte dei loro cari. Talvolta comunicando che qualcuno era stato giustiziato dopo anni e anni.
In un altro video (di cui Reuters confermerebbe l’autenticità senza però aver identificato con certezza il luogo, forse la prigione della base aerea di Mezzeh) i prigionieri si ammassavano davanti alle sbarre delle celle, colpendole e gridando di gioia. Altri prigionieri apparivano confusi, incapaci di rispondere alle domande dei liberatori.
Risalivano al 2017 le informazioni su un nuovo forno crematorio costruito a Sednaya per smaltire i cadaveri di migliaia di prigionieri arrestati o catturati nel corso della guerra civile.
Provenienti dagli Stati Uniti, ma basate su migliaia di fotografie uscite clandestinamente dalla Siria grazie a un disertore qualche tempo prima.
Immagini di cadaveri con inequivocabili segni sia di torture che di denutrizione.
Gianni Sartori