[All'inizio dell'attività giornalistica, essendo considerato un intellettuale, mi capitava abbastanza spesso di scrivere fondi di politica estera]
Anche se le modalità dell'assassinio di Indira Ghandi fanno pensare a uno dei tanti colpi di mano delle dittature del Terzo Mondo, in realtà nella morte del capo di governo della più grande democrazia del mondo si addensano tutte le contraddizioni irrisolte del suo agire politico e della drammatica realtà del suo paese.
L'India nasce come stato indipendente meno di 40 anni fa sulla base di un'astrazione religiosa: nel subcontinente indiano - abbandonato dai dominatori inglesi - vengono disegnate due entità statali - l'India e il Pakistan - lungo le linee di divisione delle popolazioni induiste e musulmane.
E si ha così l'assurdo di uno stato come il Pakistan che è composto da due territori distinti tra loro migliaia di chilometri - un'unità statale tra due realtà opposte che non poteva durare e infatti quando nel 1971 i bengalesi del Pakistan orientale si ribellano al centralismo soffocante che favorisce i confratelli musulmani del Pakistan occidentale - Indira scende al loro fianco - l'India vince la terza guerra col Pakistan e nasce lo stato indipendente del Bangla Desh - fortemente tributario del colosso indiano.
E' quello l'anno in cui Indira tocca il tetto del successo politico: stringe il patto di alleanza con l'Urss, senza alcuna concessione sostanziale al comunismo sovietico e ottenendo cospicui appoggi in chiave anticinese; sconfigge militarmente gli avversari pakistani; afferma con decisione il ruolo dell'India come grande potenza regionale.
Dietro lo sfolgorio dei successi diplomatici e militari permangono i drammi irrisolti: la divisione in caste, i milioni di morti per fame, i conflitti tra minoranze etniche e religiose (l'India non è mai stata una realtà unitaria) e una gestione del potere che non esita ad usare 'metodi sporchi', dalla corruzione ai brogli elettorali all'uso dell'apparato e del potere pubblico per scopi di partito (e sembra provato che il figlio-delfino politico abbia personalmente intascato più di una tangente).
Così quando viene condannata nel 1975 per irregolarità elettorali - è ancora capo del governo - proclama lo stato d'emergenza - giocandosi tutte le carte che la costituzione le offre per schiacciare la marea montante dell'opposizione ma i rivali che l'accusano di essere una dittatrice risponde abbandonando il potere dopo la disfatta alle elezioni del 1977.
Tornerà regolarmente al governo due anni dopo: la eterogenea coalizione che si era formata in chiave anti-Indira aggregando gruppi politici etnici e religiose e singole personalità assai disomogenee non regge alla gestione del potere e si sfascia vergognosamente tra ripicche e dispetti.
A loro Indira può ribattere con un grande disegno strategico: fare dell'India una grande potenza internazionale; accrescerne prestigio e autorità come Stato-guida del movimento dei non allineati; accettare la sfida militare e tecnologia del Primo e del Secondo Mondo; salvaguardare l'unità dello Stato come bene fondamentale dalle centinaia di spinte centrifughe delle aree periferiche e delle minoranze religiose.
In questa logica vanno letti gli sforzi costosissimi per fornire il paese di armamento nucleare (il primo esperimento è del 1974 e la partecipazione a missioni spaziali congiunte con l'Urss e l'invio di propri satelliti in orbita.
E quando cresce la spinta autonomista dei sikh, una minoranza religiosa dominante nello stato del Punjab che ha una collocazione geografica fondamentale (ai confini del Pakistan) all'atteggiamento di iniziale morbidezza e disponibilità alla trattativa e alle concessioni (e di tolleranza verso i numerosi episodi di illegalità violenta) subentra la scelta della linea dura con l'occupazione militare e il massacro dei Sikh estremisti che usavano il santuario religioso - il Tempio d'oro - come base guerrigliera, quando è chiaro che lo sviluppo indipendentista del movimento sikh tendeva alla rottura dell'unità statuale.
Questa scelta di intransigente difesa dell'unità indiana è costata la vita ad Indira Gandhi.
NAPOLI NOTTE 1 NOVEMBRE 84
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INDIA SENZA PACE: PROSEGUE LO SCONTRO SANGUINOSO TRA GUERRIGLIA MAOISTA (naxaliti) E FORZE GOVERNATIVE
Gianni Sartori
Quando è stata la prima volta che ho sentito parlare dei naxaliti? Doveva essere il 1971 o il ’72. Quando, su “Re Nudo” (rivista underground, vagamente situazionista, fondata tra gli altri da Andrea Valcarenghi) venne pubblicata la lettera di un ex fricchettone che era partito in autostop per l’India con motivazioni nobili (la meditazione, la ricerca spirituale…) e altre più prosaiche ( farsi – o strafarsi – di canne). Per la cronaca: era lo stesso che avevo portato in vespa fino al casello dell’autostrada.
Poi, vista e valutata la situazione, si era integrato in una delle numerose organizzazioni maoiste all’epoca presenti in India.
Appunto quella dei naxaliti, nati qualche anno prima nel villaggio di Naxalbari (distretto di Darjeeling, stato del Bengala Occidentale).
Qui il 18 maggio 1967 scoppiava una rivolta (ispirata e guidata da Charu Majumdar, Kanu Sanyal e Jangal Santhal) con qualche centinaio di contadini poveri che andarono a riprendersi le terre, i campi e le fattorie occupandole. Attaccando, armati di archi e frecce, guardie e proprietari terrieri. La ribellione durò alcuni mesi e – come da manuale – venne affogata nel sangue dalle armi automatiche dei militari. A cui si rispose con ricorrenti insorgenze anti-governative e con la nascita di un movimento di resistenza popolare armato che prese il nome dal villaggio ribelle.
Attualmente nei loro ranghi i combattenti sarebbero almeno 15-20mila, a cui va aggiunta una quantità maggiore (40-50mila) di sostenitori (la “seconda linea”), ugualmente attivi anche se armati più che altro di archi, frecce e altre armi rudimentali.
La loro presenza è significativa soprattutto in Andhra Pradesh, Maharashta, Chhattisgarh e Telangana.
Tra i principali obiettivi della loro lotta avevano preso di mira le Zone Economiche Speciali. Quelle che ormai da qualche decennio il governo mette a disposizione degli imprenditori concedendo importanti vantaggi. Sia di natura fiscale, sia nella realizzazione di infrastrutture (in genere devastanti per i territori e per le comunità indigene). Per i maoisti tali politiche economiche non sarebbero altro che “la prosecuzione del colonialismo con altri mezzi”. Inoltre, frantumando le comunità tribali, ne determinano l’espulsione o l’emarginazione.
Un discorso che vale, ovviamente, oltre che per i tribali (adivasi) anche per i dalit, per i contadini poveri e per tutti i diseredati dell’immenso Paese.
Prendendo qualche anno a caso (per esempio il 2018 e il 2019), possiamo identificare con chiarezza quali siano i metodi adottati dal governo indiano per imporre tali logiche di oppressione e sfruttamento.
Il 18 marzo 2019 negli scontri tra vigilantes della Vedanta Limited (filiale indiana della società britannica Vedanta Resources, proprietà del miliardario Anil Agarwal) perdevano la vita due persone (quelle accertate, ma non si escludevano altre vittime tra i manifestanti)
Gli abitanti di Rengalpali, Bandhaguda, Kothajuar e altri villaggi si erano radunati per protestare contro l’espansione (e gli inevitabili “danni collaterali”) della fabbrica di alluminio del gigante minerario nell’Odisha. In cambio chiedevano, come modesta riparazione, posti di lavoro per le famiglie sfollate a causa dei lavori di ampliamento.
Il servizio di sicurezza aveva reagito con estrema violenza al tentativo della folla di forzare i cancelli per entrare nello stabilimento. Si trattava dei membri della Odisha Industrial Security Force, una polizia ausiliaria ufficialmente alle dipendenze della Stato, ma che agiva come una milizia privata al servizio di industriali e proprietari di miniere.
Un manifestante era rimasto ucciso e diversi altri feriti gravemente.
Negli scontri successivi l’esasperazione degli abitanti provocava la distruzione e l’incendio del posto di guardia e anche un poliziotto perdeva la vita.
Un anno prima (il 23 maggio 2018) la polizia aveva sparato contro i manifestanti radunatisi a migliaia davanti a una altra azienda della Vedanta, lo stabilimento Sterlite per la produzione di rame nello stato del Tamil Nadu. Sul terreno erano rimasti 13 morti (tra cui una ragazza di 17 anni) e una sessantina di feriti. La popolazione della città di Thoothukudi chiedeva la chiusura della fabbrica che inquinava pesantemente sia l’aria che l’acqua in tutto il territorio circostante.
Vicende simili sono avvenute quasi regolarmente nel corso degli ultimi anni.
Ma se ci occupiamo in particolare della situazione degli indigeni adivasi (le popolazioni indigene della “cintura delle foreste” dell’India centrale detta anche “cintura tribale”) è perché non rischiano di perdere soltanto linguaggio, tradizioni e identità. Molto semplicemente nei loro confronti è in atto qualcosa che ricorda molto l’etnocidio.
Da tempo infatti è in gioco la loro stessa sopravvivenza fisica.
Soprattutto da quando su questi territori si è posata la cupidigia delle multinazionali, desiderose di impossessarsi dei ricchi giacimenti di minerali grazie ai Memorandum d’intesa (Mou) stipulati con il governo. Tra i casi più drammatici, le colline dell’Orissa abitate dai kondh e ricche di bauxite.
In nome dell’estrattivismo governi e multinazionali degli adivasi ne hanno fatto strage. Utilizzando metodi indegni: esecuzioni extragiudiziali, stupri di donne indigene, arresti e detenzioni arbitrarie.
Anche perché ai danni delle popolazioni indigene non operano soltanto le compagnie minerarie.
Nel 2006 suscitò scalpore l’arresto dell’eco-attivista Medha Patkar, da mesi in sciopero della fame contro il «piano Narmada» (Narmada Valley Development Project). La sua protesta era solo l’ultimo episodio di una lotta già allora lunga venti anni contro la distruzione di centinaia di villaggi e di intere vallate e foreste.
Lo sfruttamento delle risorse idriche in India aveva determinato il progetto di oltre 3.000 dighe sul fiume Narmada e i suoi affluenti. Verso la fine del 2005 si era celebrato il ventesimo anniversario dell’inizio della resistenza popolare contro questi devastanti interventi che – oltre alla dignità e ai diritti dei nativi – calpestavano ogni rispetto per l’ambiente naturale. Interi villaggi erano scomparsi sotto le acque dei bacini mentre contadini e popolazioni tribali a loro volta “scomparivano” negli slums delle metropoli, cessando di esistere come comunità. A fianco di Medha Paktar si era schierata la scrittrice Arundhati Roy, da sempre attiva in difesa dei nativi. Ma poi, com’era prevedibile, le dighe vennero completate e le popolazioni rimaste dovettero rassegnarsi a raggiungere coloro che già da tempo si erano rifugiati negli slums, sradicati e marginalizzati.
Tutto questo mentre i media internazionali esaltavano la “irresistibile crescita economica dell’India, della Borsa di Bombay che va a mille, di una ricchezza complessiva enorme, dei ristoranti pieni e dei consumi di lusso”. Coprendo con un velo impietoso la realtà sempre più drammatica di un’India contadina e tribale. Alle commemorazioni del 2005 avevano partecipato anche i superstiti di Bhopal. Reduci da una marcia di ottocento km. fino a Delhi per chiedere la rimozione della fabbrica chimica e la bonifica del terreno. Come da manuale la polizia, nonostante fosse una marcia pacifica, li aveva duramente caricati.
Ma, come per la biodiversità e le lingue ancestrali, altre due mappe coincidono. Quella della “cintura tribale” si sovrappone al “corridoio rosso”.
Da vari decenni la resistenza degli adivasi, dei dalit, dei contadini poveri, delle minoranze religiose… opera in sintonia (più o meno, non mancano certo frizioni e contenziosi) con i guerriglieri maoisti del Pci-m, più noti appunto come naxaliti.
Un po’ di Storia.
Alla fine degli anni sessanta, preso atto della temporanea sconfitta, un militante maoista – Charu Majumdar – iniziò a lavorare per costituire un’organizzazione in grado di operare su tutto il territorio indiano. Così nacque il «Comitato di Coordinamento dei Comunisti di tutta l’India» (AICCCR) nella prospettiva di un’insurrezione generale che coinvolgesse, oltre ai contadini e ai diseredati delle metropoli, anche gli adivasi (le popolazioni tribali preinduiste) e i dalit (gli “intoccabili”, vittime del sistema delle caste).
Per quanto dilaniato dalle faide interne (in particolare tra filo-cinesi e filo-sovietici) il movimento non mancò di attirare anche molti giovani provenienti dalle università. E in alcuni Stati (Andra Pradesh, Chhattisgarh, West Bengala, Bihar, Orissa, Karnataka… quello che poi verrà denominato “Corridoio rosso”) gli insorti arrivarono a sostituire le autorità ufficiali con governi locali autonomi in grado di amministrare la giustizia, riscuotere tributi, difendere il territorio dalla repressione statale. Almeno temporaneamente perché nel 1971 Indira Gandhi lanciò una sistematica campagna di rastrellamenti decimando il movimento guerrigliero. Catturato nel 1972 e rinchiuso nel carcere, Majumdar morì per le torture subite.
Qualche anno fa suscitò scalpore il fatto che un loro leader (Mallojula Koteswar Rao, poi ucciso dalle forze di sicurezza nel 2011) avesse chiesto alla scrittrice Arundhati Roy di svolgere un ruolo di mediatrice con il governo. Da parte sua Arundhati aveva accettato ma il governo indiano – così sensibile alle sirene delle compagnie minerarie e delle fabbriche di auto – si mostrò poco interessato.
Contro naxaliti e tribali alla fine del 2009 era stata avviata una nuova, violenta campagna militare denominata “Caccia Verde” con l’impiego di più di 75mila soldati.
Ma la resistenza tribale si era saputa difendere, anche con azioni clamorose. Come nel 2010 quando aveva teso una imboscata ad un convoglio militare uccidendo 76 soldati.
Dopo anni di scontri alternati a fragili tregue, su questo conflitto a bassa (relativamente bassa) intensità, sembrava dover calare un definitivo silenzio. Rintanati nel folto delle foreste dell’India centrali, i ribelli apparivano intenzionati a non sortirne. Invece erano tornati prepotentemente in azione. Sia con la clamorosa “imboscata di Sukma”(Burkapal, 24 aprile 2017) in cui avevano perso la vita 26 paramilitari della CRPF, sia all’inizio del 2018 quando – il 24 gennaio – quattro agenti della polizia sono rimasti uccisi al margine della foresta di Abujhmad (nello stato del Chhattisgarth).
A Sukma soldati e paramilitari sorvegliavano in armi i lavori per la costruzione di una strada che attraversava i territori tribali per conto di un gruppo industriale. L’attacco venne rivendicato dal DKSZC (Dand Karanya Special Zone Committee) del PCI (maoista). Venne giustificato come una “risposta di autodifesa”. Non solo nei confronti delle politiche governative (definite “antipopolari”), ma soprattutto “per le atrocità sessuali, gli stupri commessi dalle forze di sicurezza contro le donne e le ragazze tribali”. In sostanza “per la dignità e il rispetto delle donne tribali”. Nel loro comunicato (di stile guevarista) i guerriglieri si rivolgevano anche ai soldati con queste parole: “Non siete i nostri nemici. Tanto meno nemici di classe. Tuttavia siete al servizio dello sfruttamento operato dal governo. Vi rivolgiamo un appello affinché smettiate di combattere schierati al fianco dei politici sfuttatori, dei grandi imprenditori, delle compagnie nazionali e internazionali, delle mafie, dei fascisti indù (un riferimento al partito di Narendra Damodardas Modi, il Bharatiya Janata Party nda) etc. che sono nemici dei dalit, dei tribali, delle minoranze religiose e delle donne. Soldati, non sprecate la vostra vita per difendere tali personaggi e le loro ricchezze. Lasciate l’esercito e prendete parte alla lotta popolare”.
Tra l’altro del massacro vennero accusati oltre 120 tribali poi risultati del tutto estranei (ma liberati solo nel 2022, dopo cinque anni trascorsi in carcere da cui qualcuno era già uscito con i piedi in avanti).
Azioni simili, per quanto meno cruente, a sostegno della dignità delle donne tribali si registrarono anche nel 2020 quando, il 15 gennaio, esponenti dell’esercito guerrigliero di liberazione popolare (PLGA) attaccarono un resort di Attamala (distretto di Wayanad, nel Kerala) utilizzato per lo sfruttamento sessuale di donne adivasi da parte dei turisti.
Dopo aver distrutto porte e finestre e incendiato i mobili, avevano appeso cartelli e manifesti su cui si leggeva: “L’attacco è contro la rappresentazione degli adivasi come una merce da esporre e mettere a disposizione dei turisti. Tutti i proprietari di resort che rappresentano una minaccia all’esistenza pacifica degli adivasi saranno sloggiati con la forza”. Ovviamente questa difesa dell’identità indigena non ha niente che vedere con il “pittoresco” amato dai turisti. Viene intesa come una componente fondamentale della resistenza di ampi settori popolari (ripeto: adivasi, dalit, contadini poveri, diseredati delle città, classi subalterne in genere…) nei riguardi dei meccanismi neoliberisti che devastano e annichiliscono territori, ambiente e popolazioni.
In precedenza, nel 2014, c’era già stato un attacco del PLGA contro l’Agraham Resort di Thirunelli e un altro nel 2015 (contro un albergo di proprietà statale reso inagibile).
Nel 2019 invece era toccato al resort Upavan di Vythiri.
Concludo con qualche aggiornamento per questo gennaio 2025.
Il 6 gennaio l’esplosione di un IED (Improvised Explosive Device – Ordigno esplosivo improvvisato) lungo la strada Kutru-Bedre (distretto di Bijapur nel Chhattisgarh) uccideva sul colpo otto paramilitari delle forze di sicurezza che rientravano da un’operazione anti-guerriglia nella regione di Abujhmad. Mancano per ora informazioni aggiornate sulla sorte dei feriti. L’operazione condotta contro i maoisti, durata alcuni giorni, si era conclusa con l’uccisione di cinque naxaliti (veri o presunti) e la perdita di un membro della Guardia di riserva del distretto (DRG). E appartenevano appunto alla DRG la metà dei paramilitari uccisi nell’imboscata del 6 gennaio. Quattro invece facevano parte dei Bastar Fighters, altra forza contro-insurrezionale. Dieci giorni dopo, il 16 gennaio, arrivava la risposta, durissima.
La prima impressione è stata quella di una rappresaglia. O anche di un faida infinita. Almeno 18 maoisti venivano ammazzati in uno scontro a fuoco tra polizia (DRG di Bijapur, Sukma e Dantewada; a cui si erano uniti vari Battaglioni di commando per l’azione risolutiva – CoBRA – delle Forze di polizia di riserva centrale – CRPFF) e combattenti del Primo battaglione dell’Esercito guerrigliero di liberazione del popolo. La vera e propria battaglia, durata l’intera giornata, si era svolta nelle foreste del South Bastar, nei pressi della frontiera di Telengana (distretto di Bijapur, sempre nello Stato del Chhattisgarh). La maggior parte dei corpi, una dozzina, venivano recuperati nelle zone frontaliere delle foreste di Tumrel, Sigampalli, Pujarikanker e Malempenta. Tra i caduti, il segretario di Stato maoista Telengana del CPI, Bade Chokka Rao (Damodhar).
Per completezza va detto che non mancano certo “contraddizioni in seno al popolo” (per restare in clima “maoista”). Anche sinceri democratici, attivisti ambientali e pacifisti (non filogovernativi), si mostrano talvolta molto critici nei confronti delle milizie naxalite. Arrivando ad accusarli sbrigativamente di essere “persone accecate dalla ideologia, brutali e violente, sicuramente non migliori e forse peggiori del sistema che dichiarano di voler cambiare”. Non solo, talvolta il controllo che comunque esercitano sulle tribù nelle aree occupate sarebbe “ferreo e spietato”. Le contraddizioni quindi ci sono. Ma non per questo – almeno credo – si dovrebbe buttare il bambino (“la resistenza, gli ideali socialisti…) con l’acqua sporca (eventuali rigurgiti stalinisti). L’esperienza del PKK, della sua innegabile evoluzione politica in chiave democratica, libertaria, femminista, ecologista…sta lì a dimostrarlo.
Ops, quasi dimenticavo. In anni più recenti giunse qualche notizia sul fricchettone diventato maoista in India. Dopo qualche mese, presumibilmente stremato da sanguisughe, larve che si infilavano nelle piaghe dei piedi, umidità, fame, stanchezza e paura…aveva abbandonato il campo. Le ultime notizie lo davano in cammino (letteralmente: a piedi) verso il Nepal. Da qui in poi se ne persero le tracce. Mi auguro che la vita sia stata buona con lui. In fondo, anche se solo per qualche mese, aveva almeno tentato di rovesciare l’ordine ingiusto del mondo.
Gianni Sartori