Il finto mistero di via Gradoli, il covo br caduto per una distrazione

Dal primo volume della trilogia “Brigate rosse” di Marco Clementi, Paolo Persichetti ed Elisa Santelena edito nel 2018 da Derive e Approdi un’analisi dettagliata del ritrovamento del covo di via Gradoli. A partire dalla seduta medianica dei professori bolognesi, il ruolo di Prodi, lo scambio tra paese e strada…  

Lo stesso giorno in cui fu reso noto il falso Comunicato n. 7 fu scoperta a Roma, in via Gradoli, una base brigatista. In osservanza della compartimentazione in pochi sapevano dell’esistenza dell’abitazione: oltre Moretti e Balzerani, che l’usavano in quei giorni, sicuramente Morucci e Faranda, che ne avevano già usufruito in passato e Brioschi con Bonisoli, che furono i primi ad abitarci quando fu affittata nel 1975.

Moretti: due disastri

Nessuno dei carcerieri di Moro, al contrario, sapeva dove dormisse Moretti quando lasciava via Montalcini e restava a Roma, né i componenti il Comitato esecutivo riuniti in Liguria conoscevano l’esatta ubicazione della prigione di Moro. Dunque, quando fu scoperta via Gradoli, né le forze dell’ordine, né la magistratura o il mondo politico, né la maggior parte dei brigatisti, avrebbero potuto sospettare che in quella base dormisse ogni tanto chi stava gestendo il sequestro. Era una base come tante ed era impossibile dire da chi fosse abitata. Vista dall’esterno e dall’interno delle Br quella scoperta aveva implicazioni diverse e dava adito a interpretazioni non coincidenti.

Per Moretti il falso Comunicato «fu un disastro, ma lo fu anche la caduta della base di via Gradoli, nonostante non ce ne fossimo accorti subito. Anzi, quasi ringraziammo la buona sorte perché la casa era vuota […]. Nessuno in via Montalcini sapeva che via Gradoli 96 era l’indirizzo di Barbara Balzerani e di Mario Moretti […]. Non potevamo certo immaginare che la scoperta dell’appartamento […] sarebbe stata ricordata come uno dei misteri del caso Moro, anzi il “mistero dei misteri”».

La segnalazione medianica

Il nome «Gradoli», infatti, era già uscito alcuni giorni prima in una situazione molto particolare, che Andreotti ha definito una vicenda con «un risvolto fantascientifico ». Si tratta della segnalazione avuta da un gruppo di professori emiliani che aveva partecipato a una seduta spiritica all’inizio di aprile. Nel 1980 la Direzione generale di Ps ebbe modo di chiarire che l’appunto fatto avere al ministero degli Interni dal dott. Zanda indicava quanto segue: «Lungo la statale 74, nel piccolo tratto in provincia di Viterbo, in località Gradoli, casa isolata con cantina». Fu per questo che la polizia si recò nel paese laziale e non in via Gradoli a Roma.

Anche il capo della Polizia, Parlato, ricorda la circostanza:
«Al riguardo vorrei aggiungere […] un fatto che è stato portato più volte alla ribalta della stampa e dell’opinione pubblica: il fatto che si andò a Gradoli in provincia di Viterbo e non in via Gradoli, che quella famosa notizia che era pervenuta al Ministero dell’Interno non era stata interpretata nel suo giusto verso. Questo, con documenti al riguardo; d’altra parte anche la magistratura ne è a conoscenza e l’ha allegato agli atti processuali.
Esiste una lettera (ci scambiavamo infatti con il Gabinetto del Ministro frequentissime notizie, avevamo in quel periodo certe volte, riunioni verbali, e certe volte, anche data l’urgenza, arrivava qualche scritto).

C’è uno scritto del dottor Zanda, che era allora assistente del Ministro Cossiga, che diceva: “Caro Dottore…” ed elenca due posti: uno di questi è in provincia di Milano, l’altro, a Gradoli in provincia di Viterbo, cascina isolata. Questa lettera l’ho qui nella mia borsa ed eventualmente, se il Presidente lo ritiene, posso esibirla o posso lasciarla, se del caso, alla Commissione».

Cossiga: le provammo tutte

Il presidente Cossiga sempre di fronte alla Prima Commissione Moro disse, peraltro, che «le fonti dichiarate di origine medianica e parapsicologica erano davvero di origine medianica e parapsicologica perché alcune aiutai io stesso, su richiesta di alcuni esponenti politici, ad acquisirle – lo dico perché non vi è alcun motivo perché lo taccia – e questo lo facemmo per vari ordini di motivi: innanzitutto perché io avevo lo scrupolo – e non solo io – di fare tutto il possibile; secondo, perché mi avevano spiegato ed avevo appreso studiando affrettatamente le cose, i libri, le memorie, il caso Schleyer ed altre cose del genere, che per un fatto statistico è bene vagliare tutto e poi anche per un altro motivo (che non è il caso delle notizie di carattere medianico e parapsicologico). Perché una notizia che può essere presentata in modo stravagante può essere una notizia di carattere camuffato e cioè può essere presentata in questo modo per non disvelare una fonte; e non è il caso in quel momento di andare a fare un’analisi sulla fonte ma la cosa necessaria è sfruttare la notizia».

“La soffiata era sul paese”

In particolare, sulla segnalazione di Gradoli, Cossiga ricordò:
«La notizia – e di ciò si trovò corrispondenza tra gli appunti del mio ufficio e quelli della direzione generale di Pubblica Sicurezza, come vi fu concordanza, a quanto mi consta, nelle testimonianze rese all’autorità giudiziaria – fu presa (e ci fu un momento di sbandamento perché
nessuno sapeva dove fosse Gradoli) e Gradoli fu investita da un’operazione di polizia. Quando poi io chiesi quale fosse l’origine di questa notizia, anche se nei primi momenti ci occupavamo più della notizia che della fonte della notizia, per motivi pratici più che comprensibili, mi è stato raccontato, con umano, comprensibile imbarazzo, che essa era sorta nel corso di una seduta di parapsicologia che si era svolta a Bologna».

La prima Commissione Moro ricostruì la vicenda, per cui la segnalazione aveva avuto origine da una seduta parapsicologica tenutasi il 2 aprile in casa del professore Alberto Clò, nella campagna bolognese. Il professor Romano Prodi, che aveva partecipato alla riunione, trasmise l’indicazione al capo dell’ufficio stampa di Zaccagnini, Umberto Cavina. Egli confermò di aver ricevuto da varie fonti notizie diverse sulla prigione di Moro e di averne sempre informato il ministero degli Interni.

Il messaggero fu Prodi

Prodi si era recato personalmente da Cavina «manifestando un certo imbarazzo» dato che la notizia era uscita da una seduta spiritica alla quale avevano preso parte, oltre ai due docenti, il professore Mario Baldassarri, l’ingegner Franco Bernardi, la professoressa Gabriella Bernardi, il professor Carlo Clò, la dottoressa Emilia Fanciulli, la dottoressa Flavia Franzoni Prodi, il professor Fabio Gobbo, la dottoressa Adriana Grechi Clò, la dottoressa Gabriella Sagrati Baldassarri e la dottoressa Licia Stecca Clò.

Il fatto che gli inquirenti si fossero recati a Gradoli paese, molto difficilmente avrebbe potuto mettere in allarme gli abitanti della base romana, Moretti e Balzerani, in giorni in cui la capitale era presidiata dalle forze dell’ordine e le retate e le perquisizioni di intere vie si ripetevano quotidianamente.

Il palazzo in cui si trovava l’appartamento delle Br, al civico 96, era stato perquisito dal Commissariato circoscrizionale proprio nei giorni immediatamente seguenti al rapimento, ma senza esito. Da quella che poi si sarebbe rivelata una base delle Br, nessuno aveva risposto e la polizia, informatasi dai vicini se avessero qualche sospetto, non ritenne il caso di entrare forzando la porta. Si tratta di una procedura normale, che fu adoperata in centinaia di situazioni analoghe

La perdita d’acqua

Dopo circa tre settimane, però, il 18 aprile al mattino presto, una perdita d’acqua costrinse l’inquilina dell’appartamento sottostante quello dei brigatisti, nel frattempo usciti, a chiamare l’amministratore. Vista l’impossibilità di entrare nell’appartamento, telefonò ai vigili del fuoco che, una volta penetrati dal balcone con un’autoscala, videro nel monolocale materiale propagandistico e chiesero l’intervento della polizia.

La presenza dell’autoscala aveva già richiamato un certo numero di curiosi e la notizia del ritrovamento di una base brigatista si diffuse subito. L’arrivo delle televisioni compromise la possibilità di sorprendere gli appartenenti al gruppo armato al loro rientro. Moretti, in realtà, quella mattina aveva lasciato Roma e non sarebbe tornato a dormire lì quella sera. Inoltre, non era la prima volta che curiosi e giornalisti avevano fatto saltare una eventuale trappola.

Il precedente di Milano

Come si è detto nella prima parte, il 2 maggio 1972 vennero scoperte alcune basi milanesi delle Br, tra cui quella di via Boiardo che doveva ospitare la prigione del dirigente democristiano Massimo De Carolis, il capogruppo democristiano al consiglio comunale di Milano. Allora vennero tratti in arresto una trentina di brigatisti e solo Mara Cagol, Curcio, Franceschini, Morlacchi, Moretti e pochi altri sfuggirono alla polizia perché gli inquirenti non erano riusciti a tenere segreta la notizia del blitz.

Dopo la conclusione della vicenda Moro, il 22 ottobre 1978 il «Corriere della Sera» espresse forti dubbi proprio sui mancati appostamenti in via Gradoli in un articolo intitolato Perché in via Gradoli non ha funzionato la trappola alle Br. Il pezzo costrinse il questore De Francesco a inviare una nota al capo della Polizia nella quale si chiarivano gli aspetti della questione. Anzitutto, affermava De Francesco, con l’arrivo dei vigili del fuoco «era quanto meno ingenuo pensare di poter allestire una trappola».

L’automezzo, ingombrante e appariscente, infatti, aveva immediatamente attirato una piccola folla di persone che sostavano in strada. I vigili, inoltre «allorché devono penetrare in un appartamento chiuso, senza persone all’interno, pretendono l’arrivo della Polizia, senza la quale non entrano». Dunque, nulla si sapeva rispetto a cosa si sarebbe trovato dentro quella casa. Quando arrivò il primo funzionario della Digos «davanti alla palazzina era una vera e propria folla di curiosi, già a conoscenza che era stato trovato un covo delle Br».

Le confessioni di Triaca

Per quanto riguardava gli abitanti della base, Moretti e Balzerani, al contrario di quanto scriveva il quotidiano, nulla era noto agli inquirenti, se non che Moretti fosse ricercato per banda armata, ma non in quanto partecipante al rapimento di Moro.

Si sarebbe giunti a identificare il brigatista solo mesi dopo, «grazie soprattutto alla “confessione” di Enrico Triaca, il tipografo delle Br, il quale dichiarò di essere stato sovvenzionato nell’impianto della tipografia dal Moretti che, periodicamente, gli corrispondeva somme di denaro e gli impartiva disposizioni». La Balzerani, invece, era del tutto sconosciuta alle forze dell’ordine e anche nel suo caso fu identificata solo in seguito all’arresto di Enrico Triaca e Gabriella Mariani.

Il falso dello spazzolone

Nell’articolo del «Corriere» si sosteneva una circostanza che poi sarebbe comparsa in molte ricostruzioni, entrando nella vulgata del caso Moro, pur essendo stata smentita fin da allora dalle forze dell’ordine. Ci si riferisce alla presenza di uno spazzolone messo in modo da bloccare la doccia aperta per indirizzare il getto verso una fessura tra le mattonelle del bagno.

De Francesco, allegando copia della relazione dei vigili, chiarì che la doccia «era regolarmente agganciata all’apposito sostegno a muro e, da quella posizione, aveva provocato l’infiltrazione d’acqua». Sul verbale dei vigili del fuoco allegato del 18 aprile 1978 riferito all’intervento in via Gradoli 96 alle ore 9.47 si legge che «si provvedeva ad entrare nell’appartamento sovrastante per constatare la causa di infiltrazioni di acqua». La causa fu riscontrata nella «dimenticanza chiusura rubinetto della doccia del bagno», che si provvedeva a chiudere.

Nel rapporto del capo squadra, Giuseppe Leonardi, la dinamica dell’intervento venne descritta accuratamente: «Il danno era semplicemente provocato dalla doccia, del tipo telefono, rimasta aperta e rivolta contro il muro che faceva infiltrare l’acqua da dietro la vasca da bagno lungo il muro danneggiando i solai sottostanti. Si eliminava il danno chiudendo il rubinetto erogatore». Quindi il Leonardi si accorgeva della presenza di volantini e altro materiale sospetto e richiedeva la presenza di un funzionario dei vigili.

La polizia a sirene spiegate

Sul luogo si recò l’ing. Fabio Ameni che, dopo il sopralluogo, sollecitò l’intervento della polizia. Verso le 10.10 un funzionario di Ps a bordo di un’autoradio di servizio del commissariato Flaminio Nuovo venne informato della scoperta e raggiunse la via facendo uso di sirena e lampeggiatore, quasi in contemporanea a una seconda autoradio del commissariato e a una volante di zona. L’ingresso della palazzina era già affollato di curiosi e rappresentanti della stampa.

La perquisizione del covo di via Gradoli fu lunga. Vennero ritrovati esplosivi (17 candelotti, 75 detonatori e 4 fumogeni), armi (un mitra marca «Stenn», una pistola «Reck», una Beretta 6,35 cromata del 1941, una calibro 22 modello 950, una «Reck P8» 6,35, un fucile a pompa di fabbricazione statunitense, due paia di manette e caricatori), carte di identità in bianco, patenti, volantini, fogli con numeri di telefono di personalità politiche e del mondo industriale, possibili obiettivi delle Br, divise da guardia di Ps, da aviatore, da operaio della Sip, un camice delle Poste.

I documenti rubati

Le carte d’identità intestate erano 6, rispettivamente a Laura Milardo, Alberta Fedeli, Annunziata Colacchio, Riccardo Molisani, Alberto De Santis e Gianni Gismondi. Si trattava di persone reali, che avevano fatto regolare richiesta del documento tra il 1974 e il 1976 nella stessa circoscrizione romana, la XV, con sede in via Portunese e che, all’atto del ritiro, avevano appreso dello smarrimento della carta.

In proposito venne escusso il capo della circoscrizione, dott. Marino Testa, che raccontò di un furto subìto nel 1975 e della impossibilità di operare un riscontro completo dei documenti rubati «in quanto per prassi d’ufficio, quelli pronti per essere consegnati ai richiedenti, venivano registrati all’atto della consegna». Furono svolte indagini anche sulle carte d’identità in bianco e si risalì a un furto del 1971 avvenuto nel municipio di Caronno Pertusella (Varese) e a un altro, più recente, in provincia di Pavia.

Anche le patenti erano state rubate nel 1973, a Messina e verosimilmente erano giunte alle Br dai Nap, in quanto, osservava la Digos, «quasi tutte le patenti rinvenute nei decorsi anni nei “covi” dei Nuclei Armati Proletari facevano parte dello stesso gruppo di documenti rubati a Messina»

Le tracce dell’ing. Borghi

Per quanto riguardava, invece, l’alias dell’affittuario dell’appartamento, l’ing. Mario Borghi (ossia Mario Moretti, ma all’epoca non lo si sapeva), il documento originale era stato rilasciato dalla prefettura di Genova il 28 febbraio 1972 a tale Danilo Prefumo che, escusso in seguito, aveva escluso di aver smarrito la patente che, evidentemente, era stata clonata grazie alle indicazioni di qualcuno, probabilmente interno alla Motorizzazione civile di quella città.

Grazie al documento, i carabinieri ricostruirono, per quanto era possibile dai registri alberghieri, alcuni spostamenti di Borghi-Moretti accompagnato da un’altra brigatista, Giovanna Currò (probabilmente la Balzerani). Si scoprì che i due erano stati a Genova il 6 febbraio 1976 e a Catania nel dicembre precedente. La circostanza, però, non ebbe uno sviluppo degno di nota.

In via Gradoli era stata ritrovata anche documentazione che confermava quanto avrebbe dichiarato in seguito Moretti, ossia che le Br avevano tentato di dotarsi di una propria sala operatoria. Le Br, scrissero i carabinieri, «in previsione di realizzare una sala analoga a quella descritta, avevano acquisito ampia specifica documentazione sia per quanto concerne la dislocazione dei mobili, sia per quanto riflette la dotazione degli “accessori” necessari al suo funzionamento».

Fu ritrovata anche documentazione riguardante la Raf risalente al periodo 1971-1977. Secondo i carabinieri, in quelle carte si trattavano argomenti già noti alle forze dell’ordine come l’analisi della sconfitta del movimento studentesco, l’importanza della guerriglia urbana per colpire lo Stato in punti precisi, la centralizzazione del potere nelle mani dell’Esecutivo avvenuta con la costituzione del Consiglio Interministeriale che ha come scopo quella di dirigere tutti gli apparati «repressivi» dello Stato.

Un progetto per Ascoli Piceno

Furono ritrovati anche candelotti di esplosivo, per i quali si risalì alle ditte produttrici e un interessante schizzo della pianta di un edificio carcerario, il nuovo carcere di massima sicurezza di Ascoli Piceno che, si pensò, doveva essere l’obiettivo di un attentato dinamitardo.

Per questa combinazione, la Digos scrisse che il disegno era stato fatto da «un tecnico edile non molto pratico di cantiere (come sarebbe provato dall’errore di individuazione di 5 ordini di colonne in cemento, unendo alle 4 effettive, altra colonna di altro corpo di fabbrica ancora da tamponare, nonché da altre incertezze […]) e [da] un tecnico balistico per quanto riguarda il dosaggio e la applicazione delle cariche, il quale pure è incorso in errore quando ha ritenuto la distanza indicata in mt. 3 tra una colonna e l’altra in diagonale mentre in effetti trattasi di distanza in linea retta».

La questura di Ascoli confermò la circostanza, ossia che lo schizzo delle Br risaliva all’inizio del 1977 «quando erano ben visibili pilastri et non esistevano alcuni locali. Procura habet aperto procedimento contro ignoti et disposti accertamenti calligrafici confronti manoscritti brigatista Peci et altri estremisti sinistra».

Nell’appartamento furono trovate anche le radiografie di un corpo maschile riguardanti una frattura al terzo distale del perone. Si individuò il medico che le aveva effettuate, il dott. Arturo Parola, e il paziente, Carlo Proietti, un alias, al quale peraltro il radiologo non aveva neanche chiesto il documento. Mentre i vestiti da uomo rinvenuti furono attribuiti a persone diverse, quelli da donna si fecero risalire alla stessa, una taglia 44, capelli castani della lunghezza di 35-40 cm., scarpa n. 37.

Ugo Maria Tassinari è l'autore di questo blog, il fondatore di Fascinazione, di cinque volumi e di un dvd sulla destra radicale nonché di svariate altre produzioni intellettuali. Attualmente lavora come esperto di comunicazione pubblica dopo un lungo e onorevole esercizio della professione giornalistica e importanti esperienze di formazione sul giornalismo e la comunicazione multimediale

4 Comments on “Il finto mistero di via Gradoli, il covo br caduto per una distrazione

  1. Ero un ragazzo. Chiesi un autostop e mi caricarono 2 brigatisti sulla Renault rossa io dietro scomodo sul pianale, uno con un forte accento francese. Si fermarono a Via Gradoli, io abitavo vicino. La polizia ci fermó con i mitra spianati per un posto di blocco all’altezza del raccordo anulare. Io avevo solo la borsa della piscina, loro mostrarono documenti e la polizia ci lasciò andare senza problemi. Io commentai ingenuamente “ma cosa vogliono questi cavolo di brigatisti”. Quello francese si incazzó di brutto e io mi spaventai capendo di aver toccato un nervo scoperto. Lui disse tu non puoi sapere che interessi ci sono dietro, citó gli americani . Io replicai che ero solo un 16enne.Per mia fortuna il guidatore che era italiano ed era pacato, intervenne e disse piano al francese “é solo un ragazzino”. Scesi all’altezza di Via Gradoli, loro girarono dentro, io proseguì a piedi per casa che era vicino, ancora ricordo lo spavento e la pelle d’oca. Non fui creduto da mio padre ma quando riconobbi la Renault rossa in tv dopo qualche giorno, capii tutto. Dopo si venne a sapere di Via Gradoli e non ebbi più dubbi.

    • Bel racconto. Peccato che la storia della R4 rossa è nota:
      L’auto era di proprietà di Filippo Bartoli, un imprenditore edile marchigiano che allora lavorava nella Capitale. Utilizzata per trasportare materiale ed attrezzi da lavoro, l’aveva acquistata per 898.000 lire. Venne rubata dagli uomini delle Brigate Rosse il 1 marzo del 1978. Bartoli sporse denuncia ai Carabinieri, sperando di ritrovarla in breve tempo come accadeva spesso all’epoca, ma dovette attendere quel 9 maggio per sapere dove fosse finita. I brigatisti l’avevano già usata in diverse azioni criminali, cambiando di volta in volta la targa. [https://www.galdieriauto.it/la-storia-della-renault-4-dove-fu-trovato-aldo-moro/].
      No, i brigatisti rossi non caricavano autostoppisti, e tantomeno su un’auto “operativa”.

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