Mario Moretti/3: il 16 marzo, da via Fani a via Montalcini
Continua, con il trasferimento da via Fani a via Montalcini la lunga ricostruzione del sequestro Moro da parte di Mario Moretti (Qui le parti 1 e 2, con un’appendice di altri post alla vicenda)
Si racconta che abbia detto: “Cosa vogliono da me, mi lascino andare”.
Non ha detto una parola, eravamo sotto shock anche noi, figuriamoci lui. Ha dei piccoli graffi sul dorso delle mani per via dei vetri frantumati, sono poca cosa, non si lamenta. Lo faccio salire sulla 132 guidata da Seghetti e sdraiare.
Ma se si fosse tirato su?
Non avrebbe avuto nessuna importanza in quei primi momenti. Una sparatoria come quella si sente a un chilometro, inutile tentare di passare inosservati. L’essenziale è andar via il più presto possibile. È nella seconda parte del percorso, e quando cambiamo le automobili, che bisogna nascondere il prigioniero.
Chi c’è nella 132, oltre Seghetti?
Fiore nel sedile di dietro e io, seduto davanti. Ci precede una macchina di copertura, tutti gli altri ci seguono con le macchine sul tragitto previsto. Arrivati a Piazza Madonna del Cenacolo, facciamo un rapido controllo, ci siamo tutti. A questo punto la ritirata avviene in modo diversificato. I compagni delle colonne di Milano e Torino vanno immediatamente alla stazione a prendere il treno. I compagni di Roma si defilano in città, rientrando nelle basi dove preparare la gestione politica dell’azione. Intanto, sempre sulla piazza, trasbordiamo Moro dalla 132 in un vecchio furgone 850.
Sotto gli occhi di tutti? Come avviene il trasbordo?
Affiancando le due macchine. Basta un attimo per farlo passare dall’una all’altra nel momento in cui nessuno passa vicino al luogo dove siamo parcheggiati. La cosa avviene senza inconvenienti. Siamo ragionevolmente certi di non essere seguiti; avevamo predisposto una via di fuga per strade che sulle carte topografiche non sono neppure considerate percorribili.
Quanto tempo è passato dalla sparatoria all’arrivo in Piazza Madonna del Cenacolo?
Pochissimi minuti. L’allarme è scattato ma quando arriviamo alla piazza del trasbordo non può aver prodotto effetti importanti. Dobbiamo fare in fretta, ma siamo certi che al massimo le pattuglie stanno ora correndo verso via Fani.Non perdiamo tempo, ma neppure ce ne preoccupiamo molto.
Come viene sistemato Moro nel furgone?
Nel solito cassone di legno. Abbiamo già fatto dei sequestri e sappiamo che il modo migliore di trasportare un uomo è usare una cassa rigida di legno. È fatta in modo che è possibile entrarci rapidamente, e starci rannicchiato. È incredibile come in una cassa alta un metro e venti e larga ottanta centimetri possa starci chiunque; certo, senza fare un movimento. Non è comodissima, anzi non lo è per niente, ma per un tragitto breve non è una gran sofferenza. Potrà sembrare ridicolo, ma di questa piccola crudeltà ci siamo scusati sempre con coloro cui l’abbiamo imposta. Chissà, forse ci sembrano più giustificabili le grandi durezze della lotta armata, dove muoiono degli uomini, delle piccole sofferenze come questa, in cui non riusciamo a evitare a un uomo di subire un’umiliazione.
Nemmeno allora Moro ha fatto resistenza?
No, non è un energumeno e neppure uno sciocco. Sebbene confuso e sotto shock si è reso conto di quel che è successo, ha visto che la scorta è stata eliminata: cinque uomini colpiti da raffiche di mitra sono una scena terribile. Non so che cosa passi nella sua mente, io sono ancora stordito dal frastuono degli spari e ho negli occhi la visione di tutto quel sangue.
Chi guida il furgone con la cassa?
Lo guido io. Nel furgone non c’è nessun altro, sarebbe inutile, se veniamo intercettati non c’è rimedio, l’azione in un modo o nell’altro si conclude. Ma contiamo di avvicinarci alla base senza incontrare blocchi stradali, è troppo presto. In più, è una buona regola non portare alla base compagni non strettamente indispensabili. C’è solo una macchina con due compagni che mi fa da battistrada, una vecchia Dyane che va pianissimo. Oltrepassiamo senza fermarci il luogo dove avevamo messo una macchina per un cambio di emergenza qualora non fosse riuscita la prima operazione di trasbordo.
E’ pericolosissima l’eventualità che sia stato notato il furgone col quale ci avviciniamo alla base, perché una segnalazione anche a distanza di giorni consentirebbe di circoscrivere la zona in cui ci troviamo. Ma non è necessario cambiare macchina. Siamo quasi a destinazione, non rimane che l’ultimo trasbordo nella macchina che “ufficialmente” frequenta la base predisposta per la prigione di Moro. Il trasbordo avviene nel parcheggio sotterraneo della Standa dei Colli Portuensi: là sotto la gente carica ogni genere di sacchetti, scatoloni, cassette. Nessuno fa attenzione a una cassa appena più grossa del normale che passa da un furgone al baule di un’auto familiare. Che è la macchina di Lauretta.
È Laura Braghetti che la guida fino alla casa?
Sì. I compagni che ci avevano fatto da staffetta nella Dyane si defilano, Gallinari e io andiamo alla base.
L’appartamento di via Montalcini 8?
Sì, te l’ho detto: «Moro rimarrà sempre lì. L’avevamo comprato e adattato proprio per questo».
Con modifiche all’interno?
Sì. Avevamo cercato un appartamento con alcune caratteristiche, poche, ma tassative. Primo, doveva avere un garage interno, sotterraneo, dove ogni inquilino avesse un suo box con tanto di saracinesca, e dal quale si potesse salire con poche scale. Non potevamo essere certi che quando saremmo arrivati con Moro, nel garage non ci fosse nessuno; poteva darsi che fosse impossibile trasportare immediatamente la cassa dalla macchina all’appartamento, e lo stesso per il tragitto inverso, a operazione conclusa. Occorreva che nel garage si potesse sostare qualche ora, se necessario. Secondo, l’appartamento doveva essere abbastanza grande da poter ricavare da una delle stanze un’intercapedine che non ne alterasse vistosamente le proporzioni, il box dove avremmo tenuto Moro.
Quanto grande?
Non c’era una misura vincolante. L’appartamento di via Montalcini faceva al caso nostro, è sui cento metri quadri, una cucina, le camere da letto, un salone a forma di elle, uno studio. È l’appartamento tipico di quella zona di piccola e media borghesia, quasi uno standard. Lo studio non è grande ma si può ricavare un’intercapedine nel muro che lo separa dal salone. Bisogna che il rimpicciolimento dello studio non si noti troppo. Un compagno architetto ci suggerisce come sistemare l’arredamento e dove piazzare uno specchio che aumenti visivamente lo spazio.
A cose finite tutto è stato ripristinato come prima. Però il punto dove c’era il box è stato individuato.
Credo di sì, l’ho letto da qualche parte.
Il box è la sola modifica che avete fatto?
Abbiamo messo delle inferriate alle finestre, per il caso di un’incursione della polizia. Siamo al primo piano, un terrazzo corre tutto intorno alla casa, tutti da quelle parti hanno paura dei ladri, nessuno si stupisce se mettiamo delle grate molto decorative alle finestre.
Come era costruito il box? Come era occultato?
Tiriamo su un muro, Prospero e io. Prospero ha fatto mille mestieri, è anche un bravo muratore. Usiamo dei pannelli di gesso che si incastrano e sono tenuti insieme da una specie di colla, sono prefabbricati facilissimi da montare quando si sappia come. Insonorizziamo le pareti, tappezziamo l’esterno con carta da parati e ci appoggiamo una libreria che lo copre fin quasi al soffitto. Impossibile sospettare l’esistenza di un’intercapedine. Un controllo generico, del tipo per intenderci di un rastrellamento di tutto un quartiere, non lo scoprirebbe. Dall’esterno è invisibile. Dall’interno è un cunicolo alto, lungo e molto stretto. Gli oggetti che servono ci stanno tutti, ma non è certamente confortevole.
Dentro cosa c’è?
Un letto, una specie di piccolissimo comodino dove Moro appoggia i fogli che scrive. Un wc chimico, una conduttura per l’aria condizionata; un microfono, ben in vista nella parete. Moro lo vede subito: «È un microfono, vero?». «Sì» gli faccio. «Registriamo quello che dici, e serve a te per chiamare se ti serve qualsiasi cosa.»
Perché gli dai del tu?
Di solito do del tu a tutti, a meno che non mi accorga che il mio interlocutore tiene molto alle formalità. Non è questo il caso. La situazione è tutt’altro che formale.
Non c’è nemmeno un tavolino per scrivere?
No, non c’è spazio per un tavolo vero e proprio. È un vano angusto, non è stato costruito per farci delle passeggiate. Sappiamo di obbligare Moro a un grosso disagio, ma sappiamo anche che nei tempi brevi è sopportabile, non sono queste le cose che contano per uno che è sequestrato. Per quanto possiamo diamo a Moro ogni cosa che chiede o di cui pensiamo abbia bisogno: lo trattiamo in questo meglio di come trattiamo noi stessi.
Non c’è di che vantarsene: se ci prendiamo il diritto di tenere, anche per breve tempo, un uomo segregato in prigionia, abbiamo il dovere di trattarlo come la persona più cara al mondo. Quali che siano le scelte cui arriveremo alla fine. È una regola alla quale non abbiamo mai derogato.
Moro scrive molto, moltissimo: come fa lì dentro?
Fa, eccome. Si alza pochissimo dalla branda, sta sempre sdraiato o seduto. Legge e scrive con i cuscini dietro la schiena. Porta una tuta da ginnastica che gli abbiamo procurato e provvediamo a cambiargli. Ha molta carta, scrive in continuazione. A parte le conversazioni che ha con me – mi rifiuto di chiamarli interrogatori, l’inquisizione non è il mio forte: dopo la seconda domanda mi metto a discutere con chi dovrei interrogare e alla fine sa più lui di me di quanto io sappia di lui – Moro non fa che scrivere. Ha riempito una quantità di fogli.
Facciamo un passo indietro. Perché la casa era stata acquistata dalla Braghetti?
Laura è una compagna del movimento, ma non è molto conosciuta, per la polizia sarà una delle migliaia di compagni del movimento romano. È impiegata, fa un lavoro stabile in una ditta di import-export. È credibile come inquilina di quella casa. Visto che è giovane e carina le diamo un fidanzato. Un convivente. Il famoso Altobelli.
Chi era in realtà?
È ovvio che tu me lo chieda, anche se sai che non lo dirò. Il nome di questo compagno non cambia di una virgola quel che è successo, ma se lo facessi cambierebbe l’esistenza a lui: gli tirerebbe addosso un ergastolo. Io credo che sia tempo di far uscire tutti i compagni, dalle galere, e non di mandarci qualcun altro. Altobelli è un compagno di movimento, è sufficientemente esperto per reggere una situazione del genere, sufficientemente coperto da non essere ricercato.
Ingegner Altobelli è il finto cognome. Ti ricordi il finto nome?
Forse non è chiaro che cosa sia un’identità fittizia in clandestinità. I dati dei tuoi documenti falsi li conosci e li usi solamente tu, quando devi mostrarli a qualcuno. Che so, alla stipula del contratto oppure, più spesso e con una fifa che ti stritola le budella, se i poliziotti fanno un controllo. Per gli altri compagni non ha importanza il nome scritto su quei documenti, non ti chiameranno mai con quel nome.
Altobelli è presente al momento dell’acquisto dell’appartamento?
Trattativa e acquisto dell’appartamento sono svolti da Laura. Alla fine la base è perfetta: all’esterno si presenta come un alloggio abitato da due giovani che lavorano, una coppia molto rispettabile, molto perbene, molto piccoloborghese. Laura è formidabile, sa unire le regole della clandestinità con un suo modo di prendersi cura delle persone che le attira simpatie dovunque. In via Montalcini si prende cura di una signora molto anziana che abita al piano di sopra, le va a fare la spesa, ogni tanto prendono il tè insieme. Laura e il suo fidanzato sono le uniche persone che gli altri inquilini vedono durante il sequestro. Prospero, io e naturalmente Moro non siamo stati mai visti. Gallinari non si muove mai dall’appartamento, è un fantasma esattamente come Moro: nessuno può immaginare che sono lì. Quanto a me, che faccio la spola tra questa base e il Comitato Esecutivo, entro ed esco in ore che mi permettono di non essere notato.
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